venerdì 30 maggio 2014

La finestra sul cortile



Una sequenza de "La finestra sul cortile" ne riassume il senso: quella in cui Grace Kelly mostra a James Stewart l'anello nuziale della povera moglie uccisa dal marito nell'appartamento di fronte la finestra della casa del suo fidanzato. Per la prima volta James Stewart "vede" la sua compagna dalla sua "finestra sul cortile". Si pensi alla prima scena del film, certo tra le più grandi della storia del cinema, in cui, mentre Grace Kelly lo bacia sulla bocca, i suoi occhi sono chiusi: nella dimensione erotica James Stewart sogna dunque, ma non "vede" mai la sua compagna, così come inattingibile, puramente onirica gli appare la sua candida, angelica bellezza. "Il rapporto sessuale non esiste" ha detto una volta Lacan. Ma è Hitchcock a spiegarci col suo film il senso più profondo dall'affermazione lacaniana, proprio rovesciandolo. Non è infatti come pensava il grande psicanalista francese. l'impossibilità del compenetrarsi, del fondersi dei corpi la ragione dell'impossibilità di quel rapporto, quanto, al contrario, l'annullarsi della distanza tra essi, il loro non guardarsi nell'intimità che li fonde: è quest'ultima a rendere impossibile il il rapporto sessuale, il cui presupposto fondamentale è proprio la distanza, una "apollinea" estraneità dello sguardo che pone l'altro non nella propria interiorità o intimità così annullandolo, bensì ma nello spazio esteriore di una visione. L'anello che Grace Kelly mostra al suo fidanzato, così trasformandolo da quel  momento in promesso sposo è quello di una moglie uccisa dal marito. Si potrebbe così forse dire che in quello stesso istante un altro omicidio, sebbene solo immaginario o metaforico, si consuma nella mente di Stewart, nel suo sguardo contemplante:. Grace Kelly cessa di essere solo oggetto erotico e insieme illusoria immagine di sogno solo quando Stewart si decide ad ucciderla dentro di sè e cosi finalmente per la prima volta può veramente "vedere"  sua moglie. Visto da lei, per la prima volta dalla finestra del marito omicida, cesserà di sognarla. Non dunque nel sogno ma nella reciprocità di uno sguardo si nasconde forse l'amore.

Salvatore Tinè

lunedì 19 maggio 2014

Baudelaire


Confidenza tortuosa e a un tempo bella,
il cuore è fatto ora specchio a se stesso!
Pozzo di verità, limpido e spesso:
dentro vi trema una pallida stella.

Faro colmo d' ironia, infernale
fiaccola che di Satana rischiara
le movenze, consolazione rara
eppur certa: la coscienza nel Male"

I versi finali de "L'Irrimediabile" di Baudelaire sono una potente riflessione della poesia su se stessa. La poesia è "confidenza", quindi rivelazione più profonda della coscienza, la cui "tortuosità" nulla sottrae alla "bellezza" del suo rivelarsi attraverso la parola e la sua musicalità. Ma questo rivelarsi della coscienza è in realtà solo il culmine di un movimento in apparenza opposto, ovvero quello del suo sprofondare in se stessa. In questo riflettersi, interiorizzarsi dell'individualità in se stessa Hegel aveva già indicato il sorgere della "coscienza", della soggettività, intesa in senso non più meramente estetico, ovvero come puro occhio che guarda ciò che si gli si erge di fronte. L'io viene definito non a caso da Baudelaire come "un pozzo di verità", "dentro" il quale "vi trema una pallida stella": la soggettività si fa "lirica" proprio in quanto scruta dentro il "pozzo di verità" che essa è, così ripiegandosi nelle abissali profondità di se stessa. Solo questo movimento di riflessione fa l'individuo cosciente di sé, ovvero cosciente del bene e del male. "E' la coscienza che ci rende vili!" diceva Amleto chiudendo il suo immortale monologo: dunque ogni "ingenuità" dopo il suo sorgere ci è per sempre preclusa. La coscienza "del" Male è per ciò stesso "nel" Male, come recita non a caso il verso di Baudelaire. Proprio perchè "nel" Male, in esso immersa, essa è tuttavia in grado di gettare su di esso una luce, come un "faro colmo di ironia", così illuminando il suo stesso fondo diabolico. Ancora con Hegel, si potrebbe allora dire che la coscienza è tale solo in quanto autocoscienza, ovvero solo in quanto in grado di sdoppiarsi, come la splendida metafora baudeleriana dello "specchio" sembra suggerirci. Ma la metafora ci dice anche che tale sdoppiamento non avviene solo nella "interiorità". La coscienza si guarda allo specchio, dunque dinanzi a sé, così proiettandosi nello "spazio" dell'immagine. La poesia non è più allora soltanto "espressione" lirica dell'io ma suo "specchio". Solo nell'immagine di sé, dunque nel suo alienarsi in essa, l'io guadagna la sua "oggettività" e può così guardarsi nel mondo, senza annullarlo nella mera interiorità del ricordo.Quella che lo specchio della poesia ci consegna non è più dunque una coscienza interna ma esterna, Ed è è proprio questo movimento di oggettivazione dell'io, di alienazione di sè nell'immagine finalmente esterna che consiste propriamente la poesia, la sua "bellezza", la sua luce "apollinea". La poesia è l'oggettività dell'io, come, goethianamente, "specchio del mondo", ovvero "fiore del male".

Salvatore Tinè

martedì 6 maggio 2014

DIKE


"Ma nella tragedia l'uomo pagano si rende conto di essere migliore dei suoi dèi", ha scritto Walter Benjamin. Una affermazione nella quale mi pare si possa vedere riassunta tutta la grandezza della tragedia greca, fuoriuscita dal mito, ma ancora al di qua della storia. L'eroe tragico acquisisce infatti la coscienza di "essere migliore dei suoi dei" a prezzo del sacrificio, unica forma della sua esistenza e quindi della sua libertà. Si direbbe anzi che è proprio nel totale identificarsi della sua esistenza con la forma del sacrificio di sé che l'eroe conquista, insieme a quella che Hegel chiamerebbe la sua "autocoscienza", anche la sua libertà. Certo si tratta di una libertà soltanto "etica" e non anche "storica", in quanto conquistata non vincendo le potenze del mito, ovvero degli dei come dello stesso superiore destino, ma piuttosto soccombendo ad esse. Come hanno ben visto le grandi teorie del tragico del giovane Lukacs e di Rosenzweig il "paradosso" della tragedia consiste proprio in questa totale chiusura in se stesso dell'eroe. Ciò che rende "perfetta" la sua libertà, in tal senso "perfettamente" politica, come il suo "carattere", sì individuale ma privo di qualunque "psicologia" o "sentimentalità": l'individuo afferma se stesso solo in quanto portatore, incarnazione di istanze etiche e politiche che pure lo trascendono e che proprio in esso si esprimono assolutamente, unilateralmente, "perfettamente". E tuttavia sarebbe sbagliato vedere in tale "perfezione" la chiusura del "mito" in se stesso, nell'immutabilità di un ordine puramente cosmico o ontologico, interpretando la solitudine dell'eroe come mera "passività": non a caso nel suo "Tramonto dell'Occidente", Splengler era costretto a negare all'eroe della tragedia insieme ad ogni "azione" anche ogni "carattere" a a fare così del suo "pianto" "pubblico" dinanzi al Coro apollineo l'unico contenuto della tragedia.  Pur soccombendo all'immediata, folgorante violenza degli dei, l'eroe tragico è già al di là del mito: pure incapace di dirla, la sua tremenda solitudine, allude, infatti, ad una nuova comunità etico-politica, configurandosi come l'inizio, ovvero la stessa "origine" della storia, destinata non a ripetersi ma a continuare nel suo divenire e a dare ad essa un senso. Se il pianto dell'eroe è "pubblico", tutt'altro che modernamente "interiore", esso lo è in quanto già storico e politico. Il grandioso mutarsi delle Erinni in Eumenidi alla fine del processo ad Oreste che chiude l'Orestiade allude proprio a questo passaggio dal mito alla storia, che pure la tragedia non può rappresentare ma soltanto "racchiudere" in quell'intreccio inestricabile di libertà e destino, che è per Eschilo la Giustizia, ordinamento cosmico e quindi politico. Se l'azione dell'eroe si risolve nel mito, in esso compiendosi una volta per tutte, nella sua muta coscienza, tuttavia, il destino si infrange e in essa, si potrebbe dire, parafrasando Manlio Sgalambro, "la storia è alle porte". Nell'epoca moderna, la tragedia potrà così rinascere solo dalla storia, sia pure conferendo ad essa ancora una volta la "forma" del mito, ripercorrendo così ma a ritroso il cammino della tragedia antica.

Salvatore Tinè