giovedì 23 ottobre 2014

Il giovane favoloso


E' in fondo del "dramma" dell'essere "giovani" che, attraverso il racconto della vita di un giovane "eccezionale", Giacomo Leopardi, ci parla "Il giovane favoloso" di Mario Martone. Ma più ancora forse del "restare" giovani. Ma cosa è la giovinezza se non la fase più difficile e drammatica della nostra vita: un doloroso "blocco", come una violenta "strozzatura" più che uno svolgimento, la ricerca di una forma assoluta che dia un senso alla nostra vita, piuttosto che un "saggio" abbandonarsi ad essa, al suo mero fluire, ovvero alla sua quotidiana banalità, alle sue credenze e illusioni accettate non per intimo, effettivo convincimento ma, per così dire, "conformisticamente". Nel mondo odierno, nel quale pure tanto si parla di "giovani" e di "giovinezza", sono scomparsi proprio i giovani. Si pensi all'Italia di Renzi, certo infinitamente più povera di idee e cultura di quella pure chiusa e provinciale dell'età della Restaurazione in cui toccò di vivere al giovane Leopardi e perciò anche inifinitamente più senile di essa: il nostro attuale presidente del Consiglio, il più giovane della storia italiana è in realtà tra i personaggi più vecchi, più insopportabilmente conformisti e "senili" che questo paese abbia mai espresso, la più clamorosa e insieme grottesca, proprio nella sua emblematicità, incarnazione del gretto egoismo "italico" che proprio Leopardi genialmente stigmatizzava nel suo attualissimo "Discorso sopra lo stato presente de' costumi degl'Italiani" del 1818. Contro l'Italia "vecchia" del suo tempo, Leopardi si ribellava, silenziosamente attraverso i suoi versi immortali ma anche pubblicamente nelle sue prese di posizione aperte, dichiarate contro la cultura cattolica e romantico-spiritualistica dominante nel suo e nostro paese e che nessuna Rivoluzione che non fosse esportata fuori dai confini aveva mai teso a distruggere e a sradicare. Leopardi è in fondo l'unico grande intellettuale e pensatore illuminista di livello europeo che l'Italia possa vantare. Ciò che spiega la sua solitaria grandezza e insieme la sua terribile solitudine. Un giovane "vero" tale cioè non solo anagraficamente ma perchè rifuta "criticamente", "razionalmente" la famiglia e il milieu culturale in cui è nato e cresciuto e nel quale non può che essere e quindi sentirsi solo. Non siamo mai stati così tristi e disperati come da giovani. Odiare il padre e la madre, sia pure amandoli e perfino teneramente come ha avuto il coraggio di fare Leopardi è tipico dei giovani. E' una straordinaria "tipicità" giovanile allora ad incarnarsi nella disperata "eccezionalità" di Giacomo. Si pensi al "peso" del corpo che angustia Leopardi nel film di Martone, forse la più acuta ed efficace "metafora" visiva del suo essere "giovane", a partire dalle sequenze in cui lo vediamo "bloccarsi" dolorosamente nell'atto pure elementare della minzione. E' il corpo infatti da giovani, proprio nella fase della vita in cui esso viene crescendo e formandosi a mediare il rapporto tra noi stessi da un lato e gli altri e la stessa Natura di cui pure siamo parte dall'altra. Nostro certo il "nostro" corpo e tuttavia non meno estraneo e "altro" degli altri e della Natura. Il nostro corpo in tal senso è un peso allo stesso modo che quello apparentemente deforme e "pesante" che imprigionò l'intelletto di Leopardi. La lotta per formarci, per definire la nostra identità passa attraverso il conflitto con gli altri, in primo luogo il padre e la madre e quindi con noi stessi, con quella parte di noi stessi, in primo luogo il nostro stesso corpo che abbiamo ereditato e che non possiamo certamente cancellare. Essere giovani significa allora essere perennemente in conflitto, quindi perennemente scissi e lacerati. Il materialismo di Leopardi in tal senso si incarna prima di tutto nella soffertissima materialità del suo stesso corpo. Eppure è attraverso la straordinaria acutezza e lucidità "illuministica" della sua intelligenza che quella materialità è stata colta e vissuta, elaborata in pensieri, e perfino sublimata in una poesia altissima. "Dove smettere di pensare che il mio pensiero sia figlio della mia malattia" grida Leopardi in una scena del film ad alcuni amici letterati in un caffè di Napoli. Il suo corpo pesa certo ma insieme pensa, se stesso e il mondo di cui è parte. Non di "malattia" allora bisogna parlare, né di "pessimismo" per capire in profondità il pensatore, il poeta e l'uomo Leopardi, bensì di materialismo. Il materialismo di Leopardi è in fondo questa così acuta e personalmente, fisicamente sofferta consapevolezza della materialità della nostra condizione, di là da ogni conformistica illusione, sia essa religiosa o metafisica, e perciò della materialità del conflitto che lacera le società umane come il rapporto tra esse ed una Natura indifferente e cieca che sarebbe stolto divinizzare. Ma è proprio questa consapevolezza a rendere la solitudine di Leopardi, il suo distacco dagli uomini e dal suo mondo storico, tanto pregni di significati così universalmente umani e insieme capaci di cosmiche risonanze. E Leopardi ci appare come confitto nel suo fragile corpo perfino nell'ultima sequenza del film, in cui di fronte all'esplodere violento del Vesuvio il suo pensiero si proietta audacemente, tutt'altro che spaurito nel tempo della storia e poi ancora spinozianamente nell'"eternità" della materia e dello spazio, nel mare infinito dell'essere. Il suo sguardo triste nell'ultima inquadratura è allora quello di un giovane rimasto tale, fermo a interrogarsi sul senso della propria vita come di quella dell'universo verso cui inevitabilmente si affaccia e si protende, sul terreno intellettuale come su quello della ricerca del piacere e della felicità.

Salvatore Tinè

mercoledì 22 ottobre 2014

Inoperosità


Il IX libro della Metafisica di Aristotele è da considerarsi una delle basi da cui ripartire per ridefinire non solo una nuova politica ma anche una nuova etica adeguate al mondo odierno. Il suo tema infatti, quello del rapporto tra "possibile" e "reale" è  squisitamente teoretico e insieme fondamentale per definire il senso dell'etica e della politica, ovvero del nostro vivere nel mondo ma per trasformarlo. E' forse possibile pensare la "trasformazione", il movimento politico teso a cambiare il mondo di cui pure siamo parte sulla base della nozione aristotelica di "movimento", perfino recuperando almeno qualcosa della tensione "finalistica", "teleologica" ad essa immanente, ma di la da ogni astratta "teologia" o "trascendenza". Il movimento per Aristotele è il passaggio dalla potenza all'atto, ovvero dalla possibilità alla realtà. Aristotele tiene fermo alla distinzione tra possibilità e realtà di contro ad ogni loro astratta identificazione del tipo di quella che caratterizza la ripresa megarica dell'eleatismo e tuttavia una autentica possibilità non è un mero "desiderio", destinato a restare tale, ma capacità, proprietà di tradursi in realtà. E' in fondo il passaggio dalla possibilità alla realtà il presupposto teorico fondamentale della hegeliana dialettica del lavoro ('ergon' in Aristotele da cui deriva "energheia") Ma Aristotele tuttavia lo pensa a partire dal primato, dall'anteriorità dell'atto, ovvero del suo "fine" ad esso immanente. Pensare il movimento come realizzarsi della potenza significa pensare il movimento a partire dal suo "principio", dalla sua "forma": ciò che non significa risolverlo in mera parvenza. La stessa "prassi" di Marx affonda qui le sue radici e non certo nella celebrata "inoperosità" della "potenza", di fatto dissolta in mera, astratta possibilità, in sostanziale impotenza di certo "heideggerismo". Dunque, il lavoro come movimento, certo, ma movimento dotato di forma, ontologicamente alternativo all'impotente tensione infinita ad uno scopo ad esso esterno come in tutte le varianti borghesi del moderno "faustismo": tensione ad una finalità, certo, ma si direbbe kantianamente "senza scopo" ad esso esterno. Lo sviluppo "fine a stesso" delle facoltà umane attraverso il lavoro reso compiutamente ed effettivamente "sociale" di cui parlava Marx non ha in questo senso niente a che vedere con l'idea tipicamente borghese della "infinità" dello sviluppo e "recupera" certamente qualcosa della tensione alla "forma" e al "limite", ovvero alla "finitezza" così caratteristica della grecità
Di fronte a tanti compagni o ex-tali che parlano entusiasti della "inoperosità" come di una "nuova" idea della filosofia, della "ontologia" come qualcuno si spinge a rivendicare, e paradossalmente perfino della politica, mi viene da pensare da comunista ma più in generale da "progressista" che bisognerebbe riproporre una nuova "etica del lavoro" come nucleo di una rinnovata "filosofia della prassi" riveduta e corretta, ma anche dell'unica, seriamente pensabile ontologia, quella dell'essere sociale, ovvero dell'uomo che "opera" lavorando perchè così pensa e insieme crea se stesso, facendo soltanto di se stesso il proprio fine, non quindi semplicemente assumendo "liberamente" come fantasticano Nietzsche ed Heidegger e i loro nipotini di "sinistra", il proprio "destino", ma operosamente costruendolo sul terreno "ontologico" e "materiale" del lavoro e della prassi.

Salvatore Tinè

L'intellettuale collettivo.


"Coltiva nell'augusta solitudine la mente", dice in un suo verso, di Gramsci in carcere, Giovanni Giudici. Eppure in quella "solitudine", Gramsci teorizzerà nientemeno che l'"intellettuale collettivo", ovvero si direbbe, una "mente" non più "solitaria", "individuale", ma, appunto, "generale", "collettiva". Pensare da "soli" e tuttavia sentendosi e insieme pensandosi parte perfino nel chiuso di una cella, di quello che Marx definì una volta in inglese "General Intellect": è questo il nucleo teorico dei "Quaderni" carcerari. Non dunque il "pessimismo d'intelligenza" leopardianamente complementare ad una "volontà protesa quando muore" cui in un altro verso allude Giudici, ma semmai la potenza della "mente" e quindi della stessa "volontà" nel farsi entrambe e insieme "collettive", spinoziani "attributi" di un unico "organismo" o soggetto politico non più miticamente incarnato in un individuo o persona come il Principe machiavelliano, ma in un "moderno Principe" tale perchè "collettivo".

Salvatore Tinè

venerdì 3 ottobre 2014

Il pince-nez di Ejzenstejn


Il grande Zar è solo. Solo contro tutti. La sua ambizione di rappresentare nella sua persona fisica la nazione, la terra russa, il popolo lo consegna ad una terribile, tragica solitudine come ad un'esistenza "vuota". In "Ivan il Terribile", Ejsenstejn ci parla del potere, attraverso le sue immagini, i suoi riti solenni, le sue sacre simbologie. Il potere è in primo luogo immagine, spettacolo esteriore, pura manifestazione di sè e della sua "gloria", ma anche appunto "rappresentazione". Impossibile infatti è separare Ivan dalla maschera simbolica del suo potere; impossibile cogliere di là da quella maschera, la sua interiorità e la sua psicologia individuali destinate a restare del tutto misteriose e inafferrabili per tutto il film; impossibile separare il suo corpo individuale, "privato", dal suo corpo sacro, "pubblico". Il potere è "rappresentazione" paradossalmente proprio per la sua distanza, differenza ineliminabile da ciò che che "rappresenta", sia esso Dio il popolo o la nazione. In questo senso nessuna cosa più di esso potere si presta ad essere "rappresentata" meglio attraverso il cinema ovvero ovvero il linguaggio delle immagini. A Ejzenstejn, Stalin rimproverò di avere rappresentato Ivan come un Amleto. Credo si tratti di un rimprovero sbagliato: il protagonista del film ci appare infatti del tutto di "interiorità" e di "psicologia". Tuttavia il suo potere per quanto "pubblico" nella sua manifestarsi, sembra tuttavia esercitarsi solo dentro uno uno spazio chiuso, chiuso nelle stanze del palazzo. Ejsenstejn ci conduce dentro gli "interni" angusti, bui, claustrofobici, di quelle stanze. Per una volta le masse, il popolo sono quasi del tutto assenti, come se solo del Potere ci fosse storia. Come se la lotta "eterna" tra lo Stato o l'Impero da un lato e i signori feudali dall'altro avesse sostituito la lotta tra le classi ovvero quella tra l'aristocrazia di fatto "alleata" della monarchia assoluta e le masse popolari. La lotta "per" il potere e non quella "contro" di esso è infatti al centro della riflessione del grande regista sovietico. La rappresentazione di tale lotta è grandiosa. Tale cosi radicale cambiamento dell'"oggetto" della rappresentazione, appunto non più "le masse" ma il "potere", determina infatti un cambiamento dello stile e perfino della stessa concezione del cinema. Per la prima volta, in Ejsenstejn il cinema non è più solo montaggio ma "inquadratura". Il movimento "rivoluzionario" di scomposizione e ricomposizione soggettiva e intellettuale della realtà viene sostituito da inquadrature lente e statiche. Se prima il cinema comprendeva il mondo trasformandolo attraverso il montaggio ora esso lo comprende "inquadrandolo". Ciò perchè la realtà inquadrata adesso è il potere ovvero la storia "eterna" delle classi dominanti. Da politico, il cinema si è fatto storico. Il grande occhio del Cristo Pantocratore che vediamo campeggiare in una superba inquadratura del film di Ejsenstejin è la metafora visiva di questo cinema storico, del suo sguardo tendenzialmente onnicomprensivo e perciò statico. Allo sguardo "parziale", "cubista", che scomponeva il reale per trasformarlo dei film militanti di Ejsenstejn fa ora seguito uno sguardo totale, che nella misura in cui tende a cogliere la totalità della storia, di là dalla molteplicità dei suoi punti di vista, per ciò stesso sembra arrestarne il movimento. Lo spazio prevale così sul tempo fino ad annullarlo. Di qui il senso di claustrofobia che il film ci comunica: la chiusura dello spazio fa premio sull'apertura del tempo.  Non ci vuole molto a capire in realtà che l'occhio del Cristo è quello del potere, ovvero l'occhio che ci guarda. Non siamo più noi a guadare la realtà, ma è la realtà che "guarda" noi. "Chi cerca non trova ma chi non cerca viene trovato", ha detto una volta Kafka e Ejzenstejn o meglio il suo sguardo "ci trova". Siamo al di là del pinz-nez de La Corazzata Potemkin, la visione "microscopica" e "analitica" che dilatava i vermi della carne putrefatta, grandiosa metafora visiva della leniniana "putrescenza" del capitalismo maturo, ovvero del suo "potere" già morto, sebbene non ancora caduto. In "Ivan il Terribile", la lettura ejsenstejniana del potere è, invece, assolutamente teologica, o meglio teologico-politica. Perciò nessun "potere dell'occhio" (quale quello del pince -nez de "La Corazzata Potemkin) si contrappone più all'"occhio del potere".

Salvatore Tinè.