domenica 24 maggio 2015

La donna a pezzi


"Fui sincero come in confessione: la donna a me non piaceva intera, ma ... a pezzi!" dice Zeno al suo medico ne "La coscienza di Zeno". Cerchiamo la totalità nella donna. E invece è proprio di fronte ad essa che essa va in frantumi. L'inquietante confessione di Zeno mi fa venire in mente il corpo a pezzi di Jenet Leigh di una celebre di "Psycho" ( la più "ejzenstejniana" della storia del cinema) ma anche, forse per contrasto, certi ritratti e nudi di Picasso che proprio nella scomposizione cubista del corpo della donna sembrano cercarne l'intero e il suo enigma.

Salvatore Tinè

giovedì 21 maggio 2015

'Ntoni


Finisco di leggere "Il fu Mattia Pascal". La pagina in cui il Paleari spiega a Mattia Pascal diventato Adriano Meis come Oreste diventi Amleto è certo la più grande del libro. Ripenso a Sciascia che nella differenza tra la tragedia antica di Oreste e quella moderna di Amleto vide nientemeno che quella tra Verga e Pirandello, tra la Sicilia greca del primo e quella "araba" del secondo, tra Catania e Girgenti. Ma se fosse vero che Verga ci ha dato una "tragedia antica" come pensa Sciascia, ciò significherebbe che essa è ancora possibile nella modernità, nella contemporaneità. Che 'Ntoni sia già un Amleto che agisce ancora come un Oreste?

Salvatore Tinè

sabato 16 maggio 2015

Il ballo di Turturro


Il ballo di John Turturro in "Mia madre" di Moretti è tra le scene più belle del film. Moretti non balla più nel film, si direbbe. Ma per lo "splendido quarantenne" di una volta il ballo sembrerebbe ancora la più pura manifestazione della vita, qui nel film evocata nella sua contrapposizione ad una morte non più esorcizzabile, quella della madre, realtà pesante come un macigno. Ancora nel medesimo spazio del set di un film ma nella sospensione del suo artificio, della sua realtà soltanto possibile e virtuale, anche le agili, flessuose movenze del corpo di Turturro non più attore ma mimo si impongono con l'immediata evidenza fisica del cinema come non meno "reali" della morte che incombe fuori dal recinto protetto della finzione cinematografica. Le immagini del cinema fissano il movimento non tuttavia negandolo ma riproducendolo: il ballo di Turturro ne è forse in questo senso una metafora del cinema, del suo paradosso, della sua impossibilità.  Ma la troupe che circonda l'attore americano è forse anche l'immagine di una "comunità" possibile. Come ne "La stanza del figlio" anche qui il dolore divide e isola, chiude l'individuo dentro i confini della propria individualità: la madre, si direbbe, è sempre "mia" come heideggerianamente la morte. Dinanzi al ballo del suo attore, in mezzo agli amici della troupe Magherita sorride: per la prima volta il suo sguardo si fa appena più lieve come se una raggiunta consapevolezza dell'indissolubile intreccio che stringe la vita e la morte la staccasse dalla morsa del dolore e la vita fuori di lei fosse ritornata visibile al suo sguardo nel suo scorrere.

Salvatore Tinè

martedì 12 maggio 2015

Fidelio


Ripenso al "Fidelio". Credo abbia ragione Barenboim ad accostarlo al "Tristano" di Wagner. Il tema dell'amore è al centro delle due opere. Si potrebbe forse dire che se ad esso nel "Tristano" si congiunge il tema della morte, nell'unica opera lirica beethoveniana, il tema dell'amore si congiunge al contrario a quello della vita e della libertà. Perciò il Fidelio è un'opera politica. Il vincolo coniugale che lega Florestan ad Eleonore libera il prigioniero. L'amore consacrato nel matrimonio libera Florestano dal carcere in cui lo ha rinchiuso un potere tanto oppressivo quanto arbitrario, riportandolo dalle tenebre alla luce. Dunque la luce dell'amore di contro alle tenebre del potere. Impossibile non pensare ad "Eyes wide shut" di Kubrick, geniale riscrittura del "Fidelio" beethoveniano. Kubrick ci racconta un altro viaggio nelle tenebre che sembra reinterpretare quello di Eleonore, attraverso Schnitzler e quindi Freud. A differenza che in Beethoven, nel film è il marito a portare la maschera e non sarà la moglie a salvarlo dal carcere in cui finisce per cacciarsi e quindi dalla morte. Ma alla fine come nel finale del "Fidelio" di nuovo riportato alla luce dalla tenebre della notte e del sogno è la moglie che ritroverà e forse è proprio lei che lo ha salvato.

Salvatore Tinè

sabato 9 maggio 2015

Teatro universale


Con Peppe rivediamo un passaggio di una grande edizione dei "Sei personaggi in cerca d'autore" con Romolo Valli. Mi ritorna in mente il riferimento di Benjamin ai "sei di Pirandello" che nel teatro, come tutti i chiamati al Teatro di Oklahoma nell'America di Kafka cercano asilo, rifugio e non è detto che non troveranno la loro "redenzione". In effetti i personaggi in cerca d'autore rifiutano gli attori che dovrebbero impersonarli "recitando", ovvero ripetendo la loro vita, solo perchè intendono recitare loro stessi se stessi. Dunque, si direbbe, alla falsa recitazione degli attori, ovvero alla finzione di un teatro diventato mera mistificazione, sembrano opporre un altro teatro, quello in cui ciascuno recita se stesso, solo così potendo "essere" se stesso, ovvero essere autenticamente, impersonare la "propria" parte, quella che abbiamo scordato. In questo senso il teatro è un esercizio di memoria, di rammemorazione: ci trae fuori dall'oblio del senso delle nostre parole, come dei nostri gesti. Sebbene ancora "in cerca di autore", i personaggi pirandelliani non cercano più in colui che li ha creati per poi un attimo dopo abbandonarli questo senso dimenticato. Sarà compito soltanto loro ritrovare nella totale immanenza dei loro gesti muti come delle loro parole quel senso che nessun autore e nessun dio trascendente può assicurare loro. Il teatro è la vera incarnazione della idea verghiana dell'opera d'arte che è tale in quanto si fa da sé, vive di vita propria, totalmente immanente a se stessa. Come quello di Kafka secondo Benjamin, anche il mondo di Pirandello può forse definirsi allora un "teatro universale", a cui tuttavia, paradossalmente ci si può opporre solo recitando se stessi. In quanto "universale" il teatro è nello stesso tempo il luogo della nostra dannazione e quello della nostra solo possibile salvezza, inferno, insieme e paradiso.

Salvatore Tinè

mercoledì 6 maggio 2015

Mann e l'infinito


Aschenbach che in "La morte a Venezia", seduto sulla spiaggia di fronte all'immensità del mare si volge improvvisamente dalla perfezione del nulla a quella della forma è uno dei grandi momenti della letteratura di tutti i tempi.
"Da profondi motivi nasceva il suo amore del mare: bisogno di riposo dopo il duro lavoro dell'artista che, dinanzi all'invadente multiformità delle apparenze, aspira a rifugiarsi in seno all'immensa semplicità; e nello stesso tempo una tendenza colpevole, affatto opposta al suo compito, e appunto perciò piena di seduzione, verso l'inarticolato, l'indeterminato, l'eterno: verso il nulla. Riposare nella perfezione è l'anelito di chi si affatica verso l'eccelso; e non è forse anche il nulla una forma di perfezione? Ma proprio mentre sprofondava nel vuoto di queste riflessioni, ecco tutto a un tratto, sull'orizzonte della sponda, stagliarsi una figura umana; e appena il suo sguardo si risollevò dall'infinito e riuscì a fissarsi, riconobbe il bel fanciullo".
Come non pensare a "L'infinito" di Leopardi? Ma nella pagina di Mann è un movimento inverso a quello che conduceva il poeta a naufragare sia pure solo col pensiero nell'immensità, nel mare dell'infinito. L'assoluto della forma, la sua visione che come una "rivelazione" si staglia dinanzi al suo sguardo distolgono Aschenbach da quell'impulso ad annullare la propria individualità di uomo e perciò di artista nella quiete del nulla cui solo un attimo prima sembrava soccombere. Così la creazione si volge in visione, in quella platonica della bellezza. "E un impulso paterno riempì e mosse il suo cuore, il tenero turbamento di chi si sacrifica in ispirito per creare il bello, verso chi la bellezza possiede". Non più culmine della creazione, del "lavoro dello spirito" la bellezza preesiste a chi la contempla. Aschenbach è in tal senso l'antitesi di Faust, l'eroe goethiano che abbandona la bellezza "senza spirito" di Margherita nella sua tensione verso l'infinito. Ma proprio il suo configurarsi solo nella visione la rende inattingibile a chi anela ad essa. La quiete della forma, della "perfezione" della "figura umana" non è meno "mortale" di quella del "nulla". E di essa Aschenbach morirà.

Salvatore Tinè.

Il cane di Godard.


Un cane è il protagonista di "Addio al linguaggio" di Godard. Il film in 3 D racconta infatti il suo sguardo, forse l'unico  primigenio ancora possibile, sul mondo e su noi stessi. Godard sembra contrapporlo al "nostro" liinguaggio" fatto di parole o di immagini già esaurite cui il regista francese già oltre gli ottanta anni dà, forse addirittura felicemente, l'addio. La "profondità" dell'immagine tridimensionale che si finge "veramente" tale è in fondo questo addio. L'immagine "piatta" tradizionale del vecchio cinema, di fronte a noi, oggettiva nella sua apparente verità è già satura. Qui invece in "Addio al linguaggio" l'immagine 3D sembra uscire fuori dallo schermo, attraversarci, coinvolgerci pienamente, come se in fondo fosse "lei" a guardarci e non più noi di fronte a lei, lei. "Odio i personaggi" dice ad un certo punto la protagonista del film. Ed in effetti quello di Godard è un film di spettri, spettri fuori dallo schermo, in mezzo a noi. Di qui la difficoltà di guardarli, di metterli a fuoco. "Addio al linguaggio" sembrerebbe in questo senso anche un addio allo sguardo, a quello sguardo cinematografico che in quanto tale ha sempre preteso di porsi come oggettivo, fotografico, l'unico in grado di mettere a fuoco la realtà. Alla "visione" del cinema Godard sembra contrapporre quella della pittura. E tuttavia lo sguardo del pittore non è propriamente una visione: citando Monet, Godard ci suggerisce che esso in grado di riprodurre non ciò che sfugge al nostro sguardo, l'invisibile, quanto il nostro stesso "non vedere". Solo il cane allora "vede": il suo sguardo di là dal linguaggio, ovvero dall'insuperabile scissione tra soggetto e oggetto, tra il "vivere" e il "raccontarsi", ne fa l'unico personaggio possibile in un film di soli fantasmi. Mi viene in mente il cane di un pagina dell'"Ulisse" di Joyce: "Un punto, cane vivo, si ingrandiva alla vista lungo la distesa di sabbia. SIgnore, mi sta per attaccare? Rispetta la sua libertà". Questa joyciana "libertà" del cane, l'unica ancora possibile e perciò degna di "rispetto" è forse il tema vero del film di Godard.

Salvatore Tinè

sabato 2 maggio 2015

Theatrum Mundi



Recitare significa citare di "nuovo": sembrerebbe in tal senso una coazione a ripetere. Nel mondo totalmente mercificato viviamo infatti recitando. Mi vengono in mente il kafkiano teatro naturale di Oklahoma in cui tutti vengono chiamati a recitare, ognuno recitando se stesso. Non a caso Benjamin ha visto nel mondo di Kafka un "teatro universale". Lo stesso pensatore tedesco ha visto tuttavia proprio nel teatro cui vengono chiamati i personaggi di Kafka un possibile luogo di "redenzione" evocando a questo proposito la ricerca da parte dei sei personaggi di Pirandello del loro autore. Dunque il luogo per eccellenza della estraneazione nel quale siamo noi stessi recitando noi stessi può rovesciarsi nel luogo del nostro ritrovarci. Non si tratta allora forse di non recitare più, quanto di recitare veramente, impersonando veramente la nostra vera parte. "Nati vivi- dice Pirandello dei suoi personaggi in cerca d'autore- volevano vivere". Ma solo recitando, ovvero solo ritrovando l'autore che li ha rifiutati dopo averli creati- essi possono vivere." Nell'universo totalitario del "teatro universale", della mistificazione fattasi totale, il teatro è paradossalmente l'unico fuga possibile da esso.

Salvatore Tinè

venerdì 1 maggio 2015

Primo Maggio



Il tema della felicità, o meglio del cammino storico verso di essa è il vero tema di "Tempi moderni" di Chaplin. Ma il grande artista inglese lo collega a quello del lavoro, della sua emancipazione dalla meccanizzazione e dalla schiavitù cui lo condannano la disumana, assurda ferocia del mercato e e del capitalismo, Perciò "l'iniziativa individuale", evocata nella didascalia iniziale del film, intanto può affermarsi in quanto si lega alla "marcia dell'umanità alla conquista della felicità". Una "marcia" che scandisce un altro tempo rispetto a quello ridotto a pura, "astratta" misura dell'orologio che vediamo nella prima inquadratura del film, il tempo di quello che il vecchio Marx chiamerebbe "lavoro astratto". Forse è a questa duplice scansione temporale della modernità che i "tempi moderni" del titolo alludono. L'immagine di Chaplin che per caso si ritrova tra le mani una bandiera rossa è quella della vita inesorabilmente "oltre" l'ordine del capitale e tuttavia ancora al di qua della coscienza e della storia. Il tempo del lavoro è certo quello dell'orologio, non ancora quello della vita e da esso Chaplin non può che divergere e fuggire. Ma solo nel loro convergere potrà consistere la felicità.

Salvatore Tinè.