mercoledì 29 luglio 2015

Eternità


"Mentre scrivo- leggiamo nella conclusione di "Tonio Kroeger" di Thomas Mann -il mormorio del mare sale fino a me e io chiudo gli occhi. Guardo in un mondo non ancora nato, soltanto abbozzato, che cerca ordine e forma..." Anche nell'episodio de "La spiaggia" dell' "Ulisse" di Joyce davanti al mare di Sandycove, simbolo dell'informità dell'essere, ovvero della sua "proteiforme" natura, Stephen Dedalus, artista come Tonio Kroeger, chiudeva gli occhi e "guardava": in dubbio sulla realtà esterna del mondo, ma  a differenza del suo omologo manniano ansioso di coglierla e afferrarla, di là da ogni sua illusoria, solo superficiale visione, nella concretezza dello spazio e del tempo, "forme" e "ordine" dell'essere."Stephen chiuse gli occhi per sentire le sue scarpe schiacciar scricchiolanti marami e conchiglie. Ci cammini attraverso comunque. Io lo faccio. un passo alla volta. Un brevissimo spazio di tempo attraverso brevissimi tempi di spazio. Cinque, sei: il nacheinander. Esattamente: è questa è l'ineluttabile modalità dell'udibile.""Un mondo non ancora, nato, soltanto abbozzato" e perciò tragicamente privo di ordine e forma, mera "possibilità": questo forse la "sostanza" poetica dell'arte di Mann. come forse tout court, dell'arte come intesa dalla tradizione; il mondo "già nato" perchè mai nato ma eterno, ovvero già dato, duro, impenetrabile ma meravigliosamente, terribilmente presente, spinoziana "sostanza", quello dell'arte di Joyce, unica arte possibile forse dopo la sua hegeliana morte.

lunedì 27 luglio 2015

Medea



Su Rai 5 vedo la Medea di Paolo Magelli. Lo sfondo non è più il Teatro Antico di Siracusa ma il Colosseo. Tuttavia la Medea che vediamo sulla scena è più greca, più "euripidea" che "latina". E' una donna che vive la sua passione d'amore fino all'estremo e che ferita dal tradimento dell'uomo che ha amato e per il quale ha perfino ucciso rivendica i suoi diritti di donna fino a negare tragicamente la parte vitale, "materna" di se stessa. E tuttavia la Medea di Seneca è forse in questo conflitto interno a lei stessa tra la sua sete di vita e di amore e il suo impulso distruttivo e autodistruttivo. Seneca ci mostra l'assassinio dei suoi bambini. La scena in cui vediamo Valentina Banci accarezzare i corpi insanguinati dei suoi figli allude visivamente al nesso inestricabile tra vita e morte che lega il sangue della madre a quello dei figli. Ma non è tanto la ferocia "barbara" insieme autodistruttiva e vendicativa di Medea che si consuma in quella finale esplosione di follia il "tema" centrale di questa reinterpretazione del mito, quanto l'estrema coerenza del suo amore per Giasone, colta in modo particolarmente intenso nella recitazione di Valentina Banci nei suoi momenti più "modernamente" femminili, in cui la violenza della sua passione nulla toglie alla sua fragilità di donna, alla purezza assoluta del suo amore. "Una donna-Ulisse": così Paolo Magelli l'ha definita. E mi pare una splendida definizione. E' Medea in fondo l'anti-Penelope dei mito. Non la donna che aspetta a lui fedele il suo compagno a casa, ma quella che lo affianca nei suoi viaggi sul mare, la compagna delle sue avventure. Forse un altro ideale di fedeltà, oltre che un' altra idea di donna e di moglie. Ma Giasone è forse l'incarnazione della maschile insostenibilità di tale ideale. La sua fragilità, un tratto della "vittima" di Medea su cui Magelli ha insistito fortemente, è forse un aspetto di questa insostenibilità. Nel finale lo vediamo inginocchiarsi impotente a Medea mentre assiste alla morte dei suoi figli. Paga così atrocemente la sua colpa, il non essersi mostrato all'altezza della fedeltà assoluta che la compagna tradita ha preteso da lui, all'altezza del suo amore nudo e scabro come la sabbia della spiaggia deserta in cui si svolge il finale. Un deserto in cui perfino il sangue sui corpi dei bambini morti si fa immagine di vita e di amore.

Salvatore Tinè

lunedì 13 luglio 2015

Leninismo o socialdemocrazia?


Appena qualche giorno fa, Massimo Cacciari pateticamente, ridicolmente sosteneva che che destra e sinistra sono categorie ormai vecchie. Il filosofo che pure è solito darci sempre lezioni di "realismo politico", di critica ad ogni utopia "ineffettuale", sogna ancora, pateticamente, una Ue non dominata dalla Germania e rispettosa della libertà dei popoli. Ma la realtà della vera e propria "tragedia greca" cui stiamo assistendo è che le categorie di destra e sinistra sono "tragicamente" attuali!!! La destra è quell'insieme di forze che difende il potere sempre più arrogante, brutale, apertamente dittatoriale, del grande capitale finanziario, delle banche, dei grandi monopoli, di quell'intreccio che Lenin definiva un "meccanismo unico", mentre la sinistra è quel complesso di forze che si batte per difendere contro quel potere la democrazia perfino quella formale, "borghese", e i diritti dei lavoratori e dei popoli oppressi. Ma senza una prospettiva di cambiamento radicale di questa società, ovvero di rottura di quel potere, quali possibilità concrete hanno le forze della sinistra di prevalere, fermando quella "tendenza alla reazione", per dirla ancora con Lenin, che è connaturata al dominio del capitale finanziario? Insomma: leninismo o socialdemocrazia? "That's the question", direbbe Amleto, uno che di tragedie se ne intendeva.

Salvatore Tinè

domenica 12 luglio 2015

Le Supplici a Siracusa




Le Supplici" di Eschilo rivisitate da Moni Ovadia su RAI 5 ieri sera. Ovadia ci porta Eschilo direttamente sulla scena: il grande tragico parla in dialetto siciliano come un antico cantastorie, impersonato da Mario Incudine. Così la grande, solenne, altissima poesia di una tragedia tra le più religiose e "liturgiche" di Eschilo si fa spettacolo popolare, antico e modernissimo. Uno spettacolo che proprio riportando la tragedia alle sue origini più remote, al canto, alla musica, alla danza rivela in essa il nucleo più profondo e insieme più drammaticamente vivo e attuale della nostra identità europea. Il Mediterraneo, le città e le coste della Grecia come quelle della Sicilia e dell'Africa sono infatti i luoghi della genesi dell'Europa, della sua stessa identità culturale, come condensata ne "Le supplici" di Eschilo nel principio della "democrazia" e in quello dell'"accoglienza". Perciò Pelasgo il re di Argo interpretato dallo stesso Ovadia parla insieme in dialetto siciliano e in greco moderno: c'è una "origine" delle lingue e dei dialetti che tutti li accomuna nello spazio come nel tempo. Il principio sacro dell'accoglienza che le nere Danaidi rivendicano con accenti commossi nella preghiera al loro protettore Zeus ci riporta proprio a quella origine che fa dello straniero un "discendente" della medesima stirpe di chi lo accoglie. Il Mediterraneo è il luogo, lo spazio in cui la tragedia è nata ma è ancora quello in cui, tutti i giorni, essa si ripete. Le supplici che fuggite dalla coste della Libia chiedono asilo ad Argo sono nere come i "migranti" che tutti i giorni muoiono sulle coste del Mediterraneo. La stessa "democrazia" sembra nascere dall'urgente, drammatico problema di "decidere" sulla questione della loro accoglienza. Come non pensare alla vera e propria scena da tragedia greca cui abbiamo assistito solo pochi giorni fa in Grecia, a Tzipras che come un novello Pelasgo, sua "moderna" ripetizione, posto di fronte all'impossibilità di decidere sul "destino" del suo paese e dei suoi rapporti con quella Europa di cui è stato la culla, chiama il popolo greco a pronunciarsi  direttamente con il voto, simbolicamente, tragicamente ritornando alla democrazia nel senso greco, originario, di democrazia diretta, ovvero di "potere del popolo". Solo dove non c'è "soluzione" come grida disperato Pelasgo di fronte alla preghiera delle "supplici" nasce la democrazia, che in tal senso è da intendersi non come la "soluzione" della tragedia ma piuttosto come la sua massima espressione. Sappiamo che la decisione di ospitare le Danaidi trascinerà Argo nella guerra con l'Egitto. Ma qui Ovadia ha voluto piuttosto celebrare la potenza della democrazia, ovvero della decisione politica che scaturisce dal consenso e dall'unanime volontà del popolo, di fronte alla violenza e alla barbarie della prepotenza del "maschio" e della guerra. Il finale con le altissime parole di Pelasgo che parlando prima in greco e poi in siciliano si oppone trionfalmente all'assalto dei soldati di Egitto alle donne è la premessa non certo di un "lieto fine" ma di un utopistico ma vivo potente canto di libertà e di amore.
(La foto è di Maria Pia Ballarino)

Salvatore Tinè

venerdì 10 luglio 2015

Meraviglioso Boccaccio



All'Arena Corsaro per "Meraviglioso Boccaccio" dei Taviani. La "brigata" boccaccesca che fugge da Firenze e dalla peste, la villa in cui si rifugia mi hanno ricordato i carcerati di "Cesare deve morire", la loro unica fuga possibile, quella nell'arte, nella "messa in scena" di loro stessi, del loro dramma. Perciò la villa, pure immersa nei dolcissimi verdeggianti paesaggi toscani è come la prigione del film precedente il luogo da cui soltanto è possibile evadere, fuggire dalla "peste" del tempo, oltre che dal tempo della peste. Il passaggio dal film precedente a questo è allora quello dal dramma alla novella, dall'azione che si svolge dinanzi a noi, ogni volta ripetendosi sebbene sempre nuova e diversa commuovendoci e scuotendoci nel profondo al racconto dell'azione già svoltasi e una volta per sempre. Il cinema forse è dramma e novella insieme, azione e racconto di essa nello stesso momento, nel tempo e fuori del tempo. Ma qui il dramma non esplode mai in forme aperte ed evidenti. Nessuna carnalità, nessuna violenza del desiderio in questa rivisitazione di alcune novelle del "Decamerone". Niente della stessa violenza fisica, della fatale immediata identificazione tra realtà e dramma che come un pugno nello stomaco ci avevano colpiti nella messa in scena da parte dei carcerati dell'assassinio di Giulio Cesare di "Cesare deve morire". Qui è invece con un tocco di delicata, "casta" poesia che i Taviani raccontano alcune delle storie di Boccaccio.  Il racconto degli amori, dei desideri della carne e del corpo di uomini e donne si risolve tutto nelle tenue evidenza delle immagini, senza nessuna violenza fisica, come se tutto ormai di quelle storie fosse ormai risolto e come per sempre pacificato nel tranquillo abbandonato conversare dei giovani della brigata, mentre quanto di "melodrammatico" si nasconde in esse è soltanto evocato, suggerito dalle musiche di Verdi e di Puccini. Questo tempo sospeso è quello dell'arte. Ma esso non può durare per sempre. Così, allo stesso modo in cui i carcerati dovranno tornare, sebbene interiormente mutati, nella realtà delle loro celle, tremenda come la peste di Firenze, così i giovani decideranno, dopo una pioggia purificatrice, di por termine al "raccontare" che li ha salvati, nella loro Firenze.

Salvatore Tinè

giovedì 9 luglio 2015

Verga e la musica.


Proprio mentre leggo le grandi pagine del "Doktor Faustus" sul rovesciarsi della soggettività nell'oggettività, sul loro totale identificarsi nella politica come nell'arte, Peppe mi sottopone un brano di Arturo Pompeati sulla poesia di Giovanni Verga che delle affermazioni di Leverkuhn è forse una esemplificazione: "Poesia quasi incapace di abbandonarsi, tutta suscitata nel profondo, dono di un mondo segreto da interrogare senza violarne la purezza antica e la nobiltà. Pietà contenuta, intenzionalmente per uno scrupolo di impersonalità, ma effettivamente per un rispetto involontario che trattiene l'autore dinanzi ad una realtà così lontana dalle sue esperienze di uomo, e insieme così vicine alle sue simpatie ideali. A questa contenutezza risponde anche la prosa, originalissima, del romanzo. Una prosa che procede per brevi costrutti allacciati empiricamente da 'e' e da 'che', quasi per tentativi di aggirare la materia e includerla in un discorso continuo. In verità da questo procedimento e dal tono dialettale dell'espressione risulta un andamento ritmico che acquista via via un valore sinfonico regolato da una coerenza assoluta, che solo ha il difetto di una innegabile monotonia. Si pena che so a certi prolissi sviluppi di Schubert, benché nel Verga a differenza dell'autore dell'' incompiuta' la prolissità non si avverta mai, e l'uniformità sia interamente negli effetti verbali e fraseologici." Per Leverkuhn solo nella musica si dava l'identità assoluta tra soggettività e oggettività. Verga attinge tale identità nella letteratura, rovesciando l'impersonalità naturalistica nell'oggettività di una sinfonia letteraria, sia pure tutta risolta nel ritmo e nella cadenza, apparentemente monotona, sempre eguale, di rotti frammenti, così risolvendo l'oggettività della realtà nella sua musica. "Scrittore di cose" e non di parole ebbe a definirlo una volta, Pirandello. Ma anche la sua "musica" è fatta di "cose", come forse sempre la vera musica.

Salvatore Tinè