lunedì 30 novembre 2015

Buon giorno, Preside!


Il mito di Giarrizzo ha segnato la storia della Facoltà di Lettere dell'Università di Catania sin dai tempi di Mazzarino e di Cataudella. Negli ultimi decenni quella storia e quella Facoltà hanno continuato a vivere esclusivamente nella figura di Giarrizzo, con la cui scomparsa viene così meno l'ultima memoria vivente che le custodiva. L'immobile maschera triste del suo volto che tutte le mattine vedevo passando per il corridoio della mia stanza mi richiamava sempre alla memoria il peso schiacciante e a tratti insopportabile che questa figura ha rappresentato per tutti coloro che hanno trascorso la loro vita di studenti o di studiosi in quella che si chiamava "Facoltà di Lettere", negli ultimi 50 anni. Quel peso, continuavo a subirlo tutte le volte che al mio "Buon giorno, Preside" il Preside rispondeva, gelidamente, con un vago, quasi scortese, cenno. Ma nei corridoi e nella biblioteca della sua "ex-Facoltà" tristemente mutatasi in "Dipartimento di Scienze Umanistiche", totalmente diversa, culturalmente e direi perfino antropologicamente, dalla sua "creatura" storica, egli continuava ad aggirarsi come l'unico "vivo" in una università ormai spettrale, popolata da inutili, a lui estranei, fantasmi, ignari di lui e della storia che incarnava. E tuttavia il mito è sopravvissuto, anche grottescamente. E direi che diverse generazioni in quella Facoltà si sono formate proprio nel confronto con il mito. In questo senso, Giarrizzo ha incarnato la figura freudiana e lacaniana del Padre. Come Saturno egli ha spesso mangiato, ucciso i suoi figli: ad una continua rivendicazione della funzione di guida intellettuale e politica dello studioso accademico, di stampo illuminista, si è sempre accompagnata in lui una concezione e una pratica cinica e spregiudicata del potere. Ma solo rifiutando il Padre si diventa liberi. "La nostra generazione è quella degli epigoni" ripeteva tristemente negli ultimi anni, evocando i suoi maestri, ovvero Santo Mazzarino, Federico Chabod e Franco Venturi. Una frase che tradiva quanto avesse sofferto e soffrisse ancora il confronto schiacciante con essi, con i suoi padri che anche grazie a lui imparavamo a considerare nostri. E forse, con una punta di malizia, potremmo dire che del peso di quel confronto si è come dire "rifatto" schiacciando i suoi figli mancati. La sua fine è allora quella di una epoca e di una storia che si chiude. Ma è una fine triste.

Salvatore Tinè