martedì 25 ottobre 2016

Per Lenin


Nel "Quaderno 7" Gramsci definisce "la teorizzazione e la realizzazione dell'egemonia fatta da Ilici", cioè da Lenin, un "grande avvenimento 'metafisico'". Si potrebbe partire da questa affermazione di Gramsci per ripensare, cento anni dopo, la Rivoluzione d'ottobre. L'Ottobre rosso è un evento "metafisico" non soltanto perchè ha trasformato radicalmente il mondo ma anche perchè nello stesso tempo ha mutato definitivamente il nostro modo di pensarlo. Esso rappresenta per Gramsci il culmine del lungo e tormentato processo di affermazione della idea e della realtà della "eguaglianza" tra gli uomini: "Nella storia l''uguaglianza' reale, cioè il grado di 'spiritualità' raggiunto dal processo storico della 'natura umana' si identifica nel sistema di associazioni 'private' e 'pubbliche', esplicite ed implicite, che si annodano nello 'Stato' e nel sistema mondiale politico... Si giunge così anche all'eguaglianza o equazione tra 'filosofia e politica', tra pensiero e azione, cioè ad una filosofia della praxis. Tutto è politica, anche la filosofia o le filosofie... e la sola 'filosofia' è la storia in atto, cioè è la vita stessa." Fondate sulla consapevolezza finalmente acquisita del nesso dialettico che lega la filosofia alla storia, il pensiero all'azione, la teoria e la pratica leniniste dell'egemonia rappresentano una tappa fondamentale del processo di unificazione del genere umano. Dopo l'ottobre di Lenin la dialettica del pensiero non è più scindibile da quella aspramente "pratica", storicamente reale delle classi e dei partiti che li rappresentano: nessuna conoscenza oggettiva e universale del mondo è possibile fuori dal terreno della lotta di classe per la sua trasformazione. Gramsci sottolinea, tuttavia, come solo in tal modo il pensiero si realizza come tale, cioè come conoscenza del del mondo nella sua totalità, quindi nel suo rapporto storico con il processo in atto di unificazione del genere umano, ovvero di affermazione dell''"eguaglianza" tra gli uomini, della loro comune "spiritualità". L'Ottobre del '17 e il leninismo hanno rappresentato per Gramsci un grande avvenimento filosofico nella storia del pensiero proprio per il potente impulso che essi hanno impresso, sul piano mondiale, al processo di unificazione del genere umano, riportando per la prima volta in modo consapevole la teoria al solido terreno della prassi e quindi alle esigenze e agli obiettivi concreti che scandiscono la lotta degli uomini e dei popoli per una "eguaglianza" effettiva, immanente alla realtà in atto della storia e della vita. L'egemonia di Lenin è certamente per Gramsci un pensiero del mondo ma anche nello stesso tempo il farsi mondo del pensiero, attraverso la politica e la lotta per l'instaurazione di una universalità non più soltanto utopistica, astrattamente spirituale, ma integrale, totalmente immanente alla vita materiale e morale degli uomini, a quella che Gramsci definisce una "assoluta terrestrità". In questo senso soltanto dopo la Rivoluzione d'ottobre possiamo "pensare" il mondo se per mondo intendiamo la sua totalità, ovvero la sua unità comprendente la natura e la storia, il pensiero e l'azione, le idee, gli ideali universali degli uomini e la dura e aspra lotta per la loro pratica realizzazione.

Salvatore Tinè

domenica 16 ottobre 2016

Per Dario Fo


Trascorro l'intero pomeriggio vedendo a Rai Scuola "Le lezioni sulla commedia dell'arte" di Dario Fo. Rimango sorpreso dalla capacità dell'arte affabulatoria di Fo di incollare me, mia madre e mia sorella per circa 6 ore consecutive davanti alla televisione. Vien fatto di riflettere sul concetto di "lezione". Fo, riprendendo ma soprattutto sviluppando in modo personale il grande insegnamento di Brecht, trasforma, il teatro, per l'appunto, in una "lezione" di teatro. Ma l'apparente paradosso è che soltanto così, ovvero stabilendo un rapporto diretto con gli spettatori e quindi facendo di questi ultimi i veri e propri protagonisti dell'evento teatrale, il teatro trova il suo movimento, il suo ritmo proprio. Il racconto e la "lezione" interrompono continuamente la "recitazione" vera e propria dell'unico attore che si muove in una scena vuota, facendosi tuttavia proprio così essi stessi  momenti fondamentali dello spettacolo, scandendone rigorosamente tempi e ritmi. E' questa apparente interruzione della continuità dello spettacolo a rompere la passività degli spettatori. Questi ultimi in tanto possono "sincronizzarsi" con lo spettacolo e viverlo in quanto l'attore stesso parlando e conversando con loro ne corso della "lezione" ne spiega e disvela la costruzione, ne rivela il montaggio e la tecnica con cui è stato e viene costruito. L'effetto comico scaturisce proprio da questa operazione di montaggio che avviene dinanzi agli spettatori, quasi a confermare la teoria bergsoniana del riso che nel comico vede appunto una interruzione del flusso vitale, la sua "meccanizzazione". Fo ci spiega infatti come il ritmo e il movimento del teatro siano propri di una meccanica, di una vera e propria macchina, creata molto prima che l'arte e la tecnica del cinema scoprissero il montaggio delle inquadrature. In tal senso, la metafora più esatta per dare il senso della concezione del teatro che Fo ci propone è forse quella, chapliniana", della "catena di montaggio". Come la fabbrica fordista frammenta il lavoro dell'operaio meccanizzandolo completamente, allo stesso modo il teatro di Fo disarticola il movimento del corpo dell'attore sulla scena in una serie di gesti staccati ma solo per rimontarli secondo un'altra logica, un altro tempom ovvero un'altra meccanica, per così dire mutata di segno, in grado di liberare il gesto, in tutta la sua potenza espressiva, in tutto il suo slancio vitale e liberatorio. Perfino lo spazio della scena viene disarticolato e ricomposto dal corpo di Fo secondo il diverso tempo che ritma i gesti come l'affabulazione spesso affidata non alla parola significante ma ai puri suoni della voce, L'effetto comico non è in fondo diverso da quello dei gesti meccanici del corpo di Chaplin in "Tempi moderni" la cui vita, insopprimibile, continuava a pulsare pur dentro la macchina che la comprimeva e stritolava. Ma nel teatro di Fo l'effetto comico si fa anche musicale. Una vera e propria musica infatti scaturisce dal tempo puramente meccanico e fisico in cui Fo risolve il teatro, riportandolo alla sua origine pura, assoluta. Il carattere politico del teatro non consiste tanto nei suoi espliciti contenuti ideologici, qui peraltro perfino assenti, ma piuttosto nell'effetto fisico e liberatorio che il puro ritmo musicale dell'affabulazione insieme all'armonia solo sonora, fonetica del grammelot producono immediatamente negli spettatori, nello stesso momento in cui essi sono richiamati ad un rapporto non più inerte e passivo ma attivo e consapevole con il teatro e lo spettacolo. E' in questo rapporto attivo tra spettatori e spettacolo, in questo sincronico "respirare" insieme di attori e spettatori che Fo sembra far consistere la  celebre "epicità" di Brecht. Nella "lezione di teatro", la macchina spettacolare coinvolge gli spettatori svelando la sua tecnica e i suoi trucchi. Lo spettacolo mette in scena se stesso e insieme la sua autocritica. Ma così è la macchina stessa che sta dietro il potere, le sue maschere, i suoi inganni le sue liturgie, il suo "teatro", che viene insieme svelata e denunciata dinanzi alla risvegliata coscienza del pubblico, adesso finalmente anche "attore". L'epicità riporta così il teatro alle sue origini nella "commedia dell'arte" di Fo, celebrandone l'immane potenza critica nei confronti del potere e del teatro del potere.

Salvatore Tinè

lunedì 10 ottobre 2016

I sogni sono sogni.


La moglie del protagonista di "Cafè society" sogna di essere tradita dal marito e chiede a quest'ultimo se le sia stato sempre fedele. "I sogni sono sogni" risponde il marito. Dunque, come in "Eyes wide shut" di Kubrick, sembrerebbe che anche nel film di Woody Allen, tradire la moglie o il marito è sempre un sogno o il suo ricordo. Non a caso "Café society" è ambientato nella Hollywood degli anni '30, ovvero in quella straordinaria fabbrica di sogni che fu il cinema americano nel decennio più tragico del secolo breve. Ma si tratta di una fabbrica che, come intuiva Gramsci, nel carcere, scrivendo "Americanismo e fordismo", stimola e produce i desideri nel momento stesso in cui li nega. E storia di un desiderio represso e negato è la storia d'amore del protagonista ebreo per l'amante dello zio, agente di Hollywood, parodia divertente di quel conflitto tra padre e figlio così tanto studiato dall'ebreo Freud. Ma  la "Traumdeutung" di Allen non ha niente del tragico che connota quella del fondatore della psicanalisi.  Nel suo giovanissimo alter ego protagonista del film, una spiccata inclinazione quasi "poetica" al desiderio e all'evasione dalla realtà è quasi solo l'altra faccia della sua capacità di rassegnazione non priva di un certo spirito pratico americano. Un tratto della "duplicità" "ebraica" del personaggio che in un certo modo lo accomuna alla figura del fratello gangster, il quale poco prima della morte sulla sedia elettrica si convertirà al cristianesimo per giungere prima alla salvezza. Il lento inavvertito scorrere del racconto, l'incantevole e insieme inesorabile passare del tempo che lo scandisce appiana e risolve ogni contrasto, scioglie ogni dialettica, come se il racconto della vita volgesse quest'ultima in un lungo, piacevole ricordo. E così il sogno, come nella splendida dissolvenza incrociata dell'ultima sequenza, ci appare solo come il lento dolcissimo dissolversi nel ricordo di un attimo mancato. Hollywood è la metafora allora del tempo, più ancora che del cinema: arte non della immagine e della realtà che vi si rifletterebbe ma piuttosto della sua dissolvenza, della sua mancanza. L'amplesso mancato con la prostituta nella scena più comica del film ne racchiude in questo senso il nucleo più profondo e inquietante, che tuttavia resta nascosto, dissimulato nella incantevole poesia che ne avvolge ogni immagine.

Salvatore Tinè

mercoledì 5 ottobre 2016

La fionda di Samuele.


Rivedo in Tv "Fuocoammare". Pochi giorni fa Sorrentino dichiarava che l'opera di Rosi non è un film ma un documentario. Colpisce l'incredibile ingenuità di tale affermazione. "Fuocoammare" è un'opera di puro cinema, proprio per la sua capacità di rendere significante, metafora poetica l'immagine nuda e cruda della realtà, della realtà delle cose come di quella degli uomini. Lo stesso racconto, un piccolo romanzo di formazione che vede protagonista un bambino di nome Samuele nato e vissuto a Lampedusa è tutto risolto, oggettivato nelle immagini, spesso perfino nella loro pura fissità fotografica. Il cinema di Rosi sembra infatti voler fissare le immagini, fermarne l'incanto e rappresentare il movimento che in genere si crede ciò che vi è di più essenziale al cinema, o attraverso montaggio che lega tra loro le singole inquadrature in un misterioso gioco di rimandi o attraverso il solo muoversi e vivere dei personaggi per così dire "dentro" immagini ferme  che li comprendono e inglobano. Questa fissità delle inquadrature sembra rimandare del resto a quella stessa dell'isola e della vita che quotidianamente vi si svolge. Neanche la tragedia e l'orrore degli sbarchi sembrano turbarla, come se solo lo sguardo "storico" del regista, in virtù della sua "oggettività" apparentemente documentaristica fosse in grado di accostare, vedere insieme l'odierna tragedia di chi scampato alla morte approda in quell'isola e la vita quotidiana dei marinai e dei pescatori che vi vivono da sempre. Uno sguardo in questo senso antitetico a quello del bambino, il cui "occhio pigro" sembra non accorgersi nemmeno dei tragici sbarchi che avvengono nell'isola, e la cui vita sembra scorrere felice in un rapporto quasi primordiale con l'aspra natura di Lampedusa, ben al di qua della costa che separa la terra dal mare. Eppure il montaggio del film, la sua visione "intellettuale" non cessa di intrecciare i due sguardi. Così la fragile vita che pulsa invisibile nel grembo materno di una donna sbarcata dopo un terribile viaggio nell'isola, che lo sguardo solidale di un medico ci mostra attraverso lo schermo di una ecografia, ci rimanda al respiro affannoso, all'ansia di vita del bambino protagonista del film e ci dice qualcosa del lato non solo misterioso ma forse perfino oscuro e violento del suo puro slancio vitale. E la fionda, arma da gioco prediletta del bambino, metafora del suo io infantile, della sua chiusura e insieme del suo rapporto ludico e aggressivo col mondo che viene scoprendo ogni giorno, rimanda alle "armi" vere che circondano l'isola, alle navi da guerra rievocate dalla nonna del bambino come a quelle che vediamo "vigilare" i confini di Lampedusa nei nostri giorni. La tragedia storica dei migranti nulla muta nella vita dell'isola ma forse soltanto perchè da sempre ne ha fatto parte, come già nascosta nella inconscia, già "naturalizzata", silenziosa memoria collettiva dei suoi marinai. E il silenzio straniante del fondo del mare in cui vediamo un sub cercare i corpi morti dei migranti è forse quello stesso di questa memoria. Lo sguardo storico di Rosi e quello ancora "ingenuo" del bambino cospirano così entrambi a restituirci un unico spazio e insieme in un unico tempo e l'isola nell'eterno rapporto tra mare e terra, tra natura e storia che ha da sempre scandito la sua vita passata e che continua a scandire quella di Samuele si fa struggente metafora poetica di questo convergere di spazio e tempo, della vita degli uomini e della loro storia.

Salvatore Tinè