domenica 16 febbraio 2014

Incantesimi


"L'appagamento sessuale -ha scritto Benjamin- sgrava l'uomo del suo mistero, che non sta nella sessualità ma che nell'appagamento di questa, e forse soltanto in esso, non viene sciolto, ma reciso". Un pensiero di straordinaria profondità. Il mistero della vita non può essere sciolto, ma reciso, tuttavia, sì. Subito dopo, Benjamin aggiunge che è la donna a recidere il vincolo, ovvero a staccare "il cordone ombelicale che il mistero della natura ha intrecciato". Mi pare che Benjamin abbia colto il paradosso del desiderio sessuale: il suo appagamento, ovvero apparentemente il massimo del nostro legame con la terra e la natura ci libera dal vincolo che ci tiene avvinti ad esse. Ci liberiamo dunque dal mistero senza averlo sciolto. E' proprio attraverso la natura che ci liberiamo dall'incantesimo della natura. Ciò che non si comprende si può soltanto recidere. Nel suo grande saggio su "Le affinità elettive" di Goethe Benjamin sostiene che la passione tra Edoardo e Ottilia non è vero amore in quanto priva del momento "etico" della "decisione". Non sembra esistere, per il filosofo tedesco nessuna "innocenza naturale" che non abbia a che fare con l'antipodo della natura, ovvero lo spirito, con quello che Benjamin chiama il "carattere". Il "vero" amore supera, infatti per lui, il mero culto della "bellezza", apparenza non dell'Idea, come in Platone, ma del suo "segreto": in questo senso in esso c'è sempre un che di "violento" e  "distruttivo". Colpevole dunque ogni atteggiamento di mera contemplazione. Anche la decisione "recide" il nostro rapporto con la bellezza senza per questo farci accedere al suo mistero, destinato a restare indisvelato. Eppure,  per Benjamin, è solo attraverso la sua "intensificazione" che l'apparenza del bello può venire trascesa, così come solo attraverso l'appagamento sessuale, ovvero la massima intensificazione del nostro rapporto con la natura, il mistero del nostro rapporto con la vita può venire reciso. Ma v'è un qualche rapporto tra il culmine di tale "intensificazione" della bellezza che pure la trascende e quello della voluttà sessuale che paradossalmente ci libera dall'incantesimo della natura, ovvero  tra il segreto dell'Idea custodito nell'apparenza del bello e quello che si nasconde non tanto nella sessualità quanto nel suo appagamento? Si può dire che l'appagamento sessuale ci liberi dalla contemplazione del bello aprendoci all'indisvelabile del suo segreto e non solo alla morte?

Salvatore Tinè

Salvatore Tinè:

martedì 4 febbraio 2014

Heidegger e il nazismo


Per comprendere il nesso profondo tra la filosofia di Heidegger e la sua adesione politica al nazismo conviene partire da una pagina particolarmente importante della sua “Introduzione alla metafisica” del 1935. Commentando il primo coro dell’Antigone e in particolare quel verso in cui l’uomo viene definito come ciò che vi è di più  “terribile” (deinon),  il pensatore tedesco si sofferma sulla nozione di “violenza” Heidegger preferisce infatti tradurre “deinon” con “violento”

"…deinon significa il violento nel senso di colui che esercita la violenza, che non solo ne dispone, ma che è violento, inquantoché l’uso della violenza è il carattere fondamentale non solo del suo agire, ma del suo stesso essere. Noi conferiamo qui alla parola violenza un significato essenziale che oltrepassa, in linea di principio il significato usuale della parola per cui essa significa per lo più brutalità e arbitrio. La violenza è in tal caso assunta in un ambito in cui il criterio dell’esistere è determinato dalla convezione dell’accomodamento e della mutua assistenza, onde ogni violenza è necessariamente considerata soltanto come perturbamento e violazione."

Dunque soltanto sulla base di una concezione dell’esistenza come “accomodamento” e “mutua assistenza”, la violenza può essere condannata in linea di principio come “violazione”. In realtà essa costituisce per Heidegger addirittura l’essenza non soltanto dell’essere ma anche dell’uomo e quindi del rapporto che lega tra loro l’essente nella sua totalità e l’esistenza umana. Per un verso l’uomo in quanto appartenente all’essere è esposto alla sua violenza; per un altro verso proprio in virtù di tale appartenenza egli esercita la violenza.

"L’essente nella sua totalità, in quanto si impone, è il predominante nel primo senso. Ora, l’uomo è in un primo senso deinon in quanto, appartenendo per essenza all’essere, risulta esposto a questo predominante. Ma l’uomo è in pari tempo deinon perché è colui che esercita la violenza, il violento nel senso suddetto. (Egli raccoglie l’imporsi e lo reca in una apertura). L’uomo è colui che esercita la violenza non in sovrappiù o in concomitanza con altro, ma unicamente nel senso che a ragione del suo agire violento e in quanto situato in esso usa la violenza nei confronti del predominante. Infatti egli è deinon nel duplice senso originariamente unico, di questo parola: egli è to deinotaton, il più violento, in quanto esercita la violenza in seno al predominante."

Heidegger solitamente evocato come un critico radicale di ogni metafisica della “volontà di potenza”, ovvero del “dominio “ della tecnica, appare in queste pagine come un teorico della “violenza” come “apertura” della verità dell’essere e dell’esserci. L’essere è violento, in quanto “predominante”, ovvero in quanto la sua verità non può non manifestarsi se non “imponendosi”. La stessa “tecnica” è da intendersi in questo senso come una manifestazione della verità dell’essere e del suo “violento” “predominare”. La tecnica è violenta non in quanto nega l’essere dell’ente ma al contrario proprio in quanto lo porta alla luce, lo “mette in opera”. “E’ così la techné- scrive – che caratterizza il deinon, il violentante, nel suo fondamentale e decisivo carattere; giacché il far-violenza è un usare violenta contro il predominante: è acquisire all’apparenza, col sapiente combattere, l’essere dianzi precluso, quale essente.” Ogni “evento” in cui la verità dell’essere venga acquisito all’apparenza è dunque violenza. In questo senso anche l’agire cosiddetto “tecnico” è politico, se è vero che è la polis il luogo della verità dell’essere.  Alla volontà di potenza della “soggettività”, alla sua “violenza” Heidegger contrappone una superiore ma non per questo meno “terribile” violenza, quella necessaria all’imporsi della verità dell’essere, ovvero di un nuovo ordine politico. Per un verso la verità dell’essere si impone in quanto per così dire al di qua della stessa differenziazione tra soggetto e oggetto; per un altro verso essa tuttavia può manifestarsi e imporsi soltanto attraverso l’attivismo dell’esserci e quindi in ultima analisi di un “soggetto” politico, la cui violenza storica e politica viene tanto più rafforzata e legittimata proprio dal suo riferirsi alla verità dell’essere e non a una qualche mediazione razionale o compromesso politico. Per il fatto di presentarsi come “essenziale” o “ontologica” la violenza celebrata da Heidegger non è per questo meno terribile e devastante sul piano storico-empirico della violenza che potrebbe definirsi meramente “ontica”. In realtà proprio sulla base della distinzione tra il piano “ontologico” e quello “ontico”, Heidegger rivendica una assoluta identità tra “ontologia” e “politica”. E’ nella “città” infatti che si manifesta, per il filosofo tedesco, l’essere in quanto è la città il luogo della storicità. L’essere è “evento” in quanto “storico” e perciò “politico”.

"Polis viene tradotta con stato e città: ma ciò non rende pienamente il senso. Polis significa piuttosto il luogo, il ‘ci’ (Da) in cui e per cui l’esserci (Da-sein) storicamente sussiste. La polis è il luogo della storia. A siffatto luogo della storia appartengono gli dei, i templi, i preti, le feste, i giochi, i poeti, i pensatori, il re, il consiglio degli anziani, l’assemblea popolare, l’esercito e le navi. Tutto  questo appartiene alla polis, è politico, non perché abbia che fare con un qualche uomo di stato, con un qualche stratega, o con gli affari di stato. Al contrario, tutto ciò è politico, vale a dire situato nella storia, in quanto per esempio i poeti sono solo, ma realmente dei poeti, i pensatori solo ma realmente dei pensatori, i preti solo, ma realmente dei preti, i re solo ma realmente dei re. Ora sono significa che sono nella violenza in quanto attivamente situati nella violenza e divengono eminenti nell’essere storico come creatori, come uomini d’azione. Eminenti in sede storica, divengono in pari tempo apolis, senza città, né sito, solitari, inquietanti, senza scampo frammezzo all’essente nella sua totalità, e, medesimamente senza istituzioni né frontiere, senza casa e senza leggi, per il fatto che in quanto creatori debbono sempre di nuovo fondare tutto ciò.”

Si direbbe che è dunque in quello che Schmitt definiva “lo stato d’eccezione” che l’essere si rivela e che l’ “evento” non sia altro che il passaggio sempre necessariamente violento da un ordine politico e legale ad un altro. Ma tale passaggio per quanto imposto dall’essere non avviene spontaneamente; esso può realizzarsi solo attraverso l’agire politico dell’uomo, teso alla creazione violenta di una nuovo ordine politico. L’uomo è infatti “violentante”, proprio in quanto “creatore”. Infatti proprio in quanto legittimato “solo” sulla base della verità dell’essere, l’agire politico dell’uomo rifiuta ogni garanzia e aiuto. L’agire è perciò sempre distruttivo e “rovinoso”, ostile a qualunque forma di mediazione razionale del conflitto ovvero, come dice Heidegger, di “pacificazione”.

"Il più inquietante (l’uomo) è quello che è perché, fondamentalmente, egli non si cura di ciò che è familiare e non lo custodisce che per eromperne fuori e permettere l’irruzione del predominante. E’ l’essere stesso che getta l’uomo sulla via di un tale trasporto che, costringendolo ad andare oltre se stesso, lo lega all’essere onde porlo in opera, e con ciò mantenere aperto l’essente nella sua totalità. Pertanto, colui che fa violenza non conosce la bontà e la pacificazione (nel senso solito), e neppure l’appagamento e la tranquillità del successo o del prestigio e del riconoscimento di tale prestigio. In tutto questo, il violentante, in quanto creatore, vede solo un’apparenza di compimento che egli disprezza. Nella sua volontà d’inaudito rigetta ogni aiuto. La rovina rappresenta per lui il più profondo e ampio consenso accordato al predominante. Nella distruzione dell’opera compiuta, in quel rendersi conto che essa è un caos (…) reintegra il predominante nel suo ordine. Ma tutto ciò, non sotto forma di semplici ‘stati d’animo’, da cui l’anima del creatore debba lasciarsi trasportare, né sotto l’aspetto di piccoli sentimenti d’inferiorità, bensì solo nella stessa maniera del porre in opera. E’ come storia, che il predominante, l’essere, trova operativamente la sua conferma."

Di qui la critica ad ogni fondazione etica della politica. Perfino “la filosofia del nazionalsocialismo” o quella che si “gabella” per tale, ha preteso di affermare l’”essere” dei “valori”, facendo di essi delle “totalità”. In realtà i valori sono per Heidegger solo delle “mezze misure” addirittura “più perniciose del nulla tanto paventato”. E’ questo in fondo il senso, tutto politico, della critica a Platone. L’idea dell’essere dei valori discende infatti da quella platonica dell’”essere come idea”. E’ questo nesso tra la sfera della politica e quella delle idee che Heidegger vuole distruggere. La distruzione della metafisica cui procede altro non è che una nuova fondazione della politica e insieme la rivendicazione del suo primato come unico luogo della verità dell’essere. Il nazionalsocialismo non è stato in grado di disfarsi di ogni “valore” e “mezza misura”: esso non ha compreso la sua stessa “intima verità e grandezza” da Heidegger identificata nell’”incontro tra la tecnica planetaria e l’uomo moderno”. Ma non nella filosofia o nella sfera dei valori, bensì solo nella violenza dell’agire politico come unico vero luogo della storia quell’incontro poteva o potrà ancora realizzarsi.




Salvatore Tinè