martedì 22 aprile 2014

L'equivoco


L"equivoco" di un amore non nato, il tema della poesia. Il "confine" dei visi è appunto la frontiera, lo schermo che media il rapporto tra un uomo e una donna l'uno all'altro ignoti, insieme dividendoli, metafora non tanto dell'amore quanto del suo carattere  di mera possibilità. L'equivoco è dunque proprio questo "lambirsi", sfiorarsi appena dei visi,  ben al di qua dell'unione tra i corpi e della loro conoscenza che dovrebbe sostanziare l'effettualità di un amore. Perciò il loro sfiorarsi è anche nello stesso tempo lo "sfiorire" di un amore che tuttavia ne custodisce la possibilità. La "povertà" di un amore solo sognato o forse solo alluso solo rinviato e che pur "sfiorendo" appena nato, in un rapido gioco di "sguardi" e di "rimandi", si scioglie nel canto. Nella "voce appena sensibile" della donna "risorge" la bellezza. L'attimo come in bilico nel tempo ed "equivoco", così "lento" pur nell'apparente fulmineità di un gioco di sguardi tra il poeta e una donna in lacrime ma sorridente, bionda ma luttuosa, viene come afferrato dal canto della poesia, perchè è nella "povertà" che la bellezza risorge.

L'equivoco

Di là da un garrulo schermo di bambini
pareva a un tempo piangere e sorridermi.
Ma che mai voleva col suo sguardo
la bionda e luttuosa passeggera?
C'era tra noi il mio sguardo di rimando
e, appena sensibile, una voce:
amore- cantava- e risorta bellezza...
Così, divagando, la voce asseriva
e si smarriva su quelle
amare e dolci allèe di primavera.
Fu il lento barlume che a volte
vedemmo lambire il confine dei visi
e, nato appena, in povertà sfiorire.

Vittorio Sereni

lunedì 14 aprile 2014

Il riso


In un passo del suo saggio su "Il riso" Bergson distingue tra un "automatismo rigido" ed un "automatismo elastico": il riso sarebbe una espressione dell'"automatismo rigido", ovvero incapace di adeguarsi a quello "elastico" su cui si basano la vita e la società. Evidentemente la vita per il filosofo francese sta dalla parte della società, vivere veramente significando adeguarsi ad essa, al suo automatismo supposto "buono", quello che....non fa ridere. Mi viene fatto di pensare all'immortale sequenza di Charlie Chaplin in "Tempi moderni" in cui vediamo l'attore inglese trasformatosi in operaio, cercare di adeguarsi all'"automatismo" della fabbrica fordista, finendo così per trasformarsi egli stesso in "automa". Mi chiedo da che parte starebbe la vita, secondo Bergson: dal lato della catena di montaggio o da quello dell'operaio Chaplin? Si direbbe che ci sia molta più "vita" nell'automa Chaplin, nel movimento estraniato e a scatti del suo piccolo corpo che nella fabbrica che pure lo ha svuotato. Il suo "automatismo" è infatti è molto più" vitale" ed "elastico" della "società" che lo ha prodotto, rappresentata dall'allucinata, onirica fantasia chapliniana come una gigantesca e mostruosa macchina semovente. Eppure esso ci fa ridere. Si potrebbe definire l'opera di Chaplin allo stesso modo in cui Benjamin ha definito una volta il mondo di Kafka, ovvero come un "codice di gesti". Il loro apparente automatismo ci dice certamente del grado spaventoso di reificazione cui il mondo moderno ha costretto l'agire degli uomini, privandolo di ogni chiaro significato E tuttavia è proprio attraverso questo incomprensibile, comicissimo codice gestuale che Chaplin si "salva" sempre dal gigantesco" meccanismo", quello dell'intera organizzazione sociale e non solo della fabbrica che vorrebbe inghiottirlo, nel quale  pure finisce sempre per cadere. Non la parola ma la pura meccanicità del suo gesto, miracolosamente lo libera. In questo senso, solo il cinema muto è comico. Solo attraverso esso Chaplin riesce a salvare se stesso, la sua vita ridotta a quella del suo corpo, alla rigidità della catena di montaggio contrapponendo quella del suo muto codice di gesti. Si sa che secondo una celebre battuta, il giovane Lukacs sarebbe entrato dentro la fabbrica capitalistica con in mano "il Saggio sui dati immediati della coscienza" di Bergson: proprio dentro le sue mura, il filosofo francese gli avrebbe così consentito di scoprire il proletariato come soggetto-oggetto identico della storia, ovvero come la classe in grado di rovesciare l'oggettivo nel soggettivo, la necessità nella libertà. Pensando a Chaplin, mi viene fatto di osservare che si potrebbe entrare in quella fordista-chapliniana con in mano il bergsoniano saggio su "Il riso" per scoprirvi un altro "rovesciamento", quello, comico, della schiavitù meccanica dell'operaio salariato nella libertà vuota ma pura dell'attore-mimo.

Salvatore Tinè

venerdì 11 aprile 2014

Roma città aperta


La stretta di mano tra Don Pietro e il partigiano comunista, l'ingegnere Manfredi in una sequenza di "Roma città aperta" fa capire del "compromesso storico" pure ancora di là da venire molto più che tanti e libri e saggi su Moro e Berlinguer. Deve essere stato Sergio Amidei, intellettuale comunista, ad ispirare i dialoghi dove più chiara e netta emerge la preoccupazione di giustificare ed esaltare in chiave nazionale la "svolta di Salerno" e la conseguente alleanza con Badoglio e la monarchia. "Quanto potrà durare, a liberazione avvenuta, l'alleanza tra voi e i generali badogliani?" chiede maliziosamente Bergmann al partigiano comunista ormai quasi esanime per le terribile torture subite, nell'inutile tentativo di spingerlo a "parlare". L'arco delle forze antifasciste viene mostrato nel film in tutta la sua ampiezza, nella scena in cui Bergmann sfoglia i giornali clandestini, dall'Unità a "Risorgimento liberale". Ma la forza straordinaria dell'arte rosselliniana è nella capacità di mostrare il conflitto in atto dentro la dura, quotidiana vita del "popolo" romano. Si pensi alla sequenza dell'assalto ai forni, che con una evidenza degna del più grande Ejzenstejn ci mostra il nesso che lega la lotta per il pane a quella per la libertà. E' nel "mare" del popolo che come pesci nell'acqua si muovono i cospiratori comunisti, i quadri "intellettuali" della Resistenza. A differenza del "Risorgimento liberale", certo non a caso evocato nel film, la Resistenza, pur ricollegandosi ad esso, è stato un movimento di popolo, fondato sull'alleanza tra i "semplici" e gli intellettuali. Rossellini lo dice esplicitamente in un importante dialogo tra il tipografo che ospita nella sua casa "l'intellettuale" Manfredi e la ragazza-madre che avrebbe dovuto sposare l'indomani e che invece proprio il giorno destinato al suo matrimonio morirà vittima di un'assurda violenza: tra le semplici parole con cui l'uomo cerca di spiegare alla sua compagna il senso della lotta che lo vede affianco al quadro politico nascosto nella loro casa, spiccano non a caso quelle che evocano "un mondo migliore". Eppure, è Don Pietro ad emergere nel film come il protagonista assoluto, ovvero come la figura di "intellettuale" più radicato nelle masse popolari, più in grado di avvertirne bisogni ed esigenze profonde. E' attraverso lui che nell'opera di Rossellini emergono più nettamente i tratti cattolici della sua ideologia populista. Così se il  personaggio del tipografo ha il suo "pendant" intellettuale nel partigiano ateo e comunista, la sua compagna che è riuscita a imporre al promesso sposo il matrimonio in chiesa, lo trova proprio in Don Pietro, suo confessore. Nella terribile scena che vede il sacerdote cattolico costretto ad assistere impotente al terribile spettacolo della tortura del partigiano comunista, la sua immagine ferma insieme e tragicamente dolente sembra voler testimoniare la "verità" del Cristianesimo come religione dei "semplici" di fronte al corrotto "paganesimo" nazista di Bergmann sottolineato da Rossellini perfino con accenti caricaturali. La sua "pietas" cattolica, così orgogliosamente rivendicata in faccia ai sadici torturatori nazisti si spinge fino alla protezione dei disertori e tuttavia il personaggio che viene fuori nel film è quello di un prete la cui profonda quanto semplice umanità si alimenta di uno spirito di combattente, di un pathos di militante. E i bambini del suo oratorio, protagonisti in una grande scena di un eroico attentato, che vediamo assistere composti alla sua esecuzione e poi sflilare mesti sotto un grigio cielo romano nel superbo finale, sono forse la più straordinaria sebbene poeticamente tragica immagine di quel "mondo migliore" per cui si lottava in quelle aspre giornate.

Salvatore Tinè

lunedì 7 aprile 2014

Preistoria


"Non ho mai potuto ammettere-ha detto una volta Lukacs- che l’orrore generato, per esempio dal fascismo sia soltanto una specie di ricaduta all’età della pietra o qualcosa del genere. Il fascismo è l’atrocità e l’inumanità di una forma di capitalismo altamente sviluppato". Nessuna "ricaduta", dunque, come, nessuna continuità, neanche nel segno della "violenza", sembra darsi per Lukacs, tra preistoria e storia, tra il tempo lunghissimo scandito dalle ere della prima e quello segnato dal rapido succedersi delle "epoche" della seconda.  Il senso e la continuità della storia sembrerebbe essere dato solo da tale successione e non anche dalla "continuità" con l'"origine" che pure la precede. Si pensi al vertiginoso "raccordo" di una celebre sequenza di "2001 Odissea nello spazio" di Kubrick nella quale vediamo la pietra della scimmia umanoide trasformarsi prima in arma per uccidere poi in una astronave del futuro: in uno stacco di montaggio Kubrick annullava la storia riportandola tutta alla sua "eterna" origine nella preistoria e insieme ad un futuro paradossalmente successivo al suo compiersi nella violenza della tecnica dispiegata così facendo coincidere l'eternità dell'origine del tempo storico con la stessa immutabilità dello spazio cosmico. Marx ha concettualizzato una volta il passaggio al comunismo come quello dalla "preistoria alla storia": come il futuro anticipato da Kubrick, anche il comunismo di Marx sembrerebbe iniziare solo quando quella che comunemente si intende per "storia", in realtà mero prolungamento e continuazione della preistoria, ovvero per dirla con Engels del processo di "umanizzazione della scimmia" si è già compiuta. In questo senso il futuro del comunismo è il compiersi e insieme il "vero" inizio della storia. Nel suo grande saggio su Kafka, Benjamin ha scritto: "Come Lukacs pensa per epoche, così Kafka per ere." Si potrebbe dire allora parafrasando Benjamin che per Marx la transizione al comunismo sia, kafkianamente, un passaggio "d'era", piuttosto che "d'epoca".

Salvatore Tinè

mercoledì 2 aprile 2014

Casanova


Forse quella dell'illuminismo è stata l'epoca più erotica della storia. Viene fatto di pensarlo, leggendo "Il ritorno di Casanova" di Arthur di Schnitzler e in particolare le pagine dedicate alla sua alla sua grande protagonista femminile, la giovane Marcolina, nelle quali emerge insieme alla sua straordinaria bellezza e sensualità, anche l'acutezza della sua intelligenza e la sua grande cultura illuminista. Viene in mente una grande pagina dei "Minima moralia" di Adorno in cui la sensualità di Schiller viene contrapposta alla sensibilità di Goethe e nello stesso tempo accostata all'esercizio del pensiero che attraverso il concetto annulla la differenza tra le cose così come l'erotismo di Don Giovanni o Casanova la differenza tra una donna e l'altra. Ciò che renderebbe la loro "azione" non meno pura e assoluta e e perciò non meno sadica e "violenta" di quella del pensiero. Anche Schnitzler accosta l'intelligenza di Marcolina perfino superiore a quella di Casanova e in particolare l'orientamento illuminista e volteriano del suo pensiero alla sua sensualità. Ma l'identificazione della sfera della sessualità a quella del pensiero non viene condotta nel segno della violenza, ovvero del pensiero che annulla l'oggetto come nella pagina di Adorno. Pur sedotta con l'inganno, Marcolina non ci appare come la vittima di uno stupro; non infatti la potenza del suo pensiero come quella del suo corpo giovane, Casanova sembra annullare presentandosi nel suo letto come il suo amante giovane, quando piuttosto la stessa "differenza" tra "tempo e eternità", tra "giovinezza" e "vecchiaia". Si direbbe che proprio nell'atto di congiungersi con il corpo giovane di Marcolina, Casanova sia riuscito a dissolvere la violenza sessuale celata nel cinico calcolo con il quale lo ha conquistato. La sua ultima notte d'amore è in questo senso la "prima" in cui la sua sessualità pura e astratta come il suo pensiero si è fatta sensibile e concreta. "Il pensiero diventava raccoglimento, l'ebbrezza più profonda stato di veglia senza pari ...Stringeva fra le braccia la donna alla quale poteva dare tutto se stesso per sentirsi inesauribile: - sul cui seno l'attimo dell'ultimo abbandono e quello del rinato desiderio confluivano in uno solo d'inattesa delizia dell'anima. Su quelle labbra non erano una sola cosa vita e morte, tempo e eternità? Non era lui un dio-? Giovinezza e vecchiaia solo una favola inventata dagli uomini? - Patria e terra straniera, splendore e miseria, gloria e oblio -irreali distinzioni ad uso di uomini inquieti, solitari, frivoli - e diventate assurde quando si era Casanova e si era trovata Marcolina?" Schnitzler sembra suggerirci che mai come nell'ebbrezza dell'amplesso siamo "illuministicamente" desti. Mi piace immaginare che gli occhi di Casanova e di Marcolina, siano, per dirla con il titolo di un grande film tratto da un altro racconto dello scrittore austriaco, "wide shut", chiusi ma anche "sbarrati" ovvero ma nello stesso tempo, "chiusi spalancati".

Salvatore Tinè