mercoledì 5 giugno 2019

Tradimenti.

Nel titolo del film di Bellocchio è certamente contenuta una importante indicazione ai fini della comprensione del racconto che vi si svolge e dei suoi possibili significati quasi sempre impliciti e talvolta perfino sfuggenti ma forse mai ambigui. Non solo tuttavia e non tanto perchè “traditore” viene spesso definito dai suoi amici e nemici mafiosi il boss di Cosa Nostra, Tommaso Buscetta, il celebre superpentito della mafia, protagonista dell’opera di Bellocchio, quanto per la più complessa riflessione sul tema del “tradimento” in quanto tale che viene implicitamente dipanandosi attorno al racconto della vita di Buscetta. Muovendo dalla scelta di rottura con l’organizzazione criminale da parte del boss piuttosto che dall’inizio della sua vita o dal periodo della sua giovanile adesione a Cosa nostra, il racconto è certamente parziale ma proprio per questo finisce per problematizzare e mettere fortemente in dubbio la stessa sincerità delle dichiarazioni con le quali il boss motiva la sua decisione di rompere con la mafia e di collaborare con lo stato. Buscetta rifiuta l’accusa di tradimento mossagli dai mafiosi, accusando loro di avere calpestato e perciò “tradito”, soprattutto dopo la vittoria dei Corleonesi e la conseguente svolta stragista da loro imposta, le regole e gli stessi “principi” dell’organizzazione criminale cui ha legato per sempre la sua vita. E tuttavia non possiamo affatto escludere, che la sua scelta, nelle sue più sofferte e profonde motivazioni, abbia finito di fatto per riportarlo, perfino al di là della sua intelligenza e coscienza etica, proprio alle ragioni e ai bisogni quella normale e perfino banale dimensione di vita piccolo-borghese, dalla quale la sua terribile esistenza di mafioso e di “uomo d’onore” lo aveva definitivamente strappato. Tuttavia in questo tentativo di impossibile recupero di una dimensione di vita che era stata negata e rifiutata per sempre, all’atto di diventare un uomo d’onore, il Buscetta mafioso e il Buscetta piccolo-borghese, ovvero il Buscetta “pentito” e “traditore” e il Buscetta “uomo d’onore” si confrontano tra loro e insieme si confondono come sdoppiandosi e rispecchiandosi l’uno nell’altro. Il rimorso per la morte violenta dei figli “abbandonati” così atrocemente sofferto ci appare cosi completamente “normale” nella sua evidente umanità e tuttavia non riusciamo ad identificarci totalmente in esso proprio per la sua altrettanto evidente “compatibilità” con l’apparente assolutizzazione delle leggi della del sangue e della famiglia caratteristica dell’universo mafioso. Il suo amore per le donne così spesso rimproveratagli dagli altri capi storici di Cosa nostra è un altro elemento di continuità della sua vita piccolo-borghese, certo non del tutto compatibile con la terribile disciplina imposta dall’organizzazione e la sua barbara cultura della morte e tuttavia piuttosto che evocare lo stereotipo del “gallo” siculo appare soltanto come un tentativo tanto disperato quando banale di riempire la terribile solitudine patita sia dentro Cosa nostra che fuori di essa e il suo vuoto di senso: soltanto il rovescio, come confessa a Falcone, dell’idea cara ai mafiosi secondo cui “comandare è meglio che fottere”. La sua stessa decisione di collaborare con la giustizia e il conseguente “patto” con Falcone cui rivelerà insieme con la “esistenza” anche la natura e l’organizzazione di Cosa nostra, si lega ancora profondamente ad una logica di vendetta interna all’universo mafioso sebbene in una forma che sembra trascenderlo affidandosi alla rivelazione della “verità” attraverso la parola, e non più attraverso il codice della violenza e del sangue: la stretta di mano con Falcone suggella un patto, fondato su uno calcolo di reciproca convenienza, da due opposte sponde, non certo un impossibile convergenza di intenti e di motivazioni, sulla cui base soltanto può basarsi una “vera” amicizia. E’ qui in fondo la persistente “mafiosità” del Buscetta pentito, coerente col suo testardo rifiuto dell’accusa di avere “tradito”: ogni rapporto tra persone è possibile solo se mediato dalle regole formali del patto e dal vincolo di fedeltà che esso determina. E tuttavia il “patto” con Falcone ha cambiato anche interiormente e per sempre Buscetta. La consapevolezza del suo potere solo sopravvivere ad una scelta tanto radicale quanto “impossibile” quale quella di rompere con Cosa Nostra e collaborare con lo stato è l’unico elemento propriamente tragico del suo destino. Esso è tuttavia insufficiente a farne un eroe tragico. Se prima, da “uomo d’onore” egli poteva uccidere e esponendo se stesso al rischio di morire adesso egli può soltanto sopravvivere evitando la morte. Le maschere del suo volto che è costretto a cambiare continuamente per sfuggire ai suoi terribili nemici, in continuità con una certa cura estetica della propria immagine a cui aveva sempre tenuto e con la teatralità stessa del personaggio, sono insieme la metafora del suo sopravvivere senza una effettiva, piena identità. “Morire nel proprio letto”, tranquillamente spegnendosi, è l’unico desiderio, così normalmente piccolo-borghese, cui può aspirare ancora se riuscirà a sopravvivere alla rottura con l’orrido e squallido universo di Cosa nostra. Eppure lucida è in lui la consapevolezza del destino questa volta classicamente tragico e ancora una volta motivo di rimorso per lui, come già i figli abbandonati in Sicilia alla vendetta mafiosa, del giudice Falcone. Nella solitudine di quest’ultimo, Buscetta vede certo rispecchiata anche la sua. Ma il suo destino di mafioso gli rende impossibile anche il riscatto di una morte tragica come quella cui consapevolmente va incontro Falcone. Del resto, è lo stesso maxiprocesso, così splendidamente raccontato da Bellocchio, a rivelare l’assenza di ogni vera tragedia nell’universo mafioso, il cui enorme vuoto e squallore può rappresentarsi, nel grande teatro della vera aula bunker, semmai solo come una gigantesca commedia. Una commedia, certo triste, anche se non manca di farci ridere, dentro la quale anche Buscetta sarà costretto a recitare, sia nella lotta ingaggiata con gli ormai nemici boss di Cosa nostra, sia nel difficile, ambiguo e complesso rapporto con quegli esponenti dello stato che con Cosa nostra hanno stabilito un “patto” di coesistenza totalmente diverso da quello stretto da lui con Falcone: un "patto" che forse in questo caso sarebbe forse più esatto definire una.... "trattativa". Ma c'è una scena che getta tuttavia una luce tragica anche sulla commedia del maxi-processo ed è paradossalmente la sequenza forse più comica e onirica del film, quella che riguarda un altro processo, ovvero il processo ad Andreotti. In una pausa di esso vediamo forse il più emblematico esponente dello stato italiano proprio accanto a Buscetta e in mutande in attesa del vestito che  dovrà indossare davanti ai giudici. Ma non ricordo se è forse l'unica in cui vediamo Buscetta sorridere.

Salvatore Tinè

mercoledì 27 marzo 2019

Vita anonima

"La mia vita è monotona, se arde/un calmo sole alle persiane verdi./ Si fa docile sguardo, calmo amore/ anonimo, poesia di quattro versi." Mi addormento trascrivendo questi quattro versi di Sandro Penna.  Mi piacciono in essi questo calmo sole che solo tuttavia arde e solo sul suo sfondo questo calmo amore in cui si svolge e volge la monotonia della nostra vita cui solo attenuato e filtrato da verdi persiane  qualcosa perviene da quell'ardore. Questo calmo monotono amore che più non arde, fattosi docile sguardo, pura, anonima, impersonale contemplazione è poi la poesia stessa, la poesia essenziale, che in pochi versi racchiude quella vita.

Salvatore Tiné

mercoledì 6 marzo 2019

Noi, Heidegger e i Greci

Ascolto l'intervento di Cacciari alla presentazione di un recente libro di Mazzarella su Heidegger e il nazismo. Colpiscono l'assoluta banalità ma anche l'incredibile contraddittorietà del discorso di Cacciari volto a dimostrare la sostanziale estraneità di Heidegger al nazismo, soprattutto in ordine alla questione dell'anti-semitismo. Cacciari ricorda una banalità e cioè che il presunto "anti-semitismo" di Heidegger affonda le sue radici in tradizioni di pensiero fortemente critiche verso l'ebraismo come anche in tradizioni che avrebbero sostenuto in chiave anti-cristiana il persistente legame del cristianesimo con l'ebraismo. Bella scoperta! Ma a parte il fatto che alcune di queste tradizioni sono dichiaratamente di segno politico reazionario, egli non ci spiega per quale motivo misterioso l'ovvio rapporto con esse del pensiero di Heidegger sarebbe in contraddizione o non avrebbe nulla a che fare con il legame di quest'ultimo con il nazismo. Contraddicendosi, Cacciari dice anche che i grandi pensieri sono tali solo quando sono tra loro in lotta: Heidegger avrebbe optato in modo radicale per le origini greche dell'Europa ed ingaggiato così una lotta estrema contro la tradizione dell'ebraismo e del cristianesimo. Gli sfugge tuttavia che questa lotta "estrema" è per l'appunto per Heidegger il nazismo. Non a caso del resto la grecità che il pensatore tedesco reinterpreta a modo suo e rivendica ha determinati e particolari caratteri, definendo i quali soltanto si capisce perchè Heidegger identifichi il "nuovo inizio" di quella grecità nientemeno che con la barbarie nazista. Si tratta, com'è noto, della "grecità" dei presocratici, secondo Heidegge ancora al di qua di quella concezione del "logos" come argomentazione razionale, ovvero come conoscenza dialettica delle idee che sarebbe stata propria dei greci solo dopo Platone. Pensatore di formazione cattolica e prete mancato, Heidegger propone questa lettura della grecità nel contesto di un rapporto tormentatissimo e drammatico con la tradizione ebraico-cristiana, nella quale finisce paradossalmente per vedere una delle radici non soltanto dell'umanesimo moderno, ma anche delle idee del moderno universalismo, quelle da cui si sono in effetti generate la Rivoluzione francese e la Rivoluzione d'ottobre. Ha quindi un senso tutto politico, molto al di là della contrapposizione del Logos e dell'Essere di Parmenide al dio-persona trascendente degli ebrei o del cristianesimo, la sua esaltazione della grecità che non a caso incontra tutti i motivi del neo-paganesimo nazista. Del resto è chiaro che nonostante il suo continuo insistere sulla concretezza dell'esserci, dell'esistenza finita del singolo, il rapporto pur sempre "essenziale" di quest'ultimo con l'Essere ripropone nel suo pensiero un'altra forma, per quanto paradossale e disperata, di trascendenza, che con il grandioso monismo dei presocratici ha poco o niente a che vedere: la stessa idea del "sacrificio" del singolo per la verità dell'Essere ha molto più a che fare con il sacrificio del Cristo che con la tragedia greca, totalmente fraintesa da Heidegger.
Ma come diavolo si fa a considerare irrilevante o insignificante per la comprensione anche filosofica, anche speculativa, della concezione hedeggeriana del rapporto o della contrapposizione tra cristianesimo o tradizione ebraico-cristiana e grecità il fatto che quest'ultima e quindi il suo recupero nell'epoca contemporanea siano stati identificati da Heidegger nientemeno che col regime di Hitler e quindi anche col disegno nazista di pianificazione dello sterminio degli ebrei? Sarebbe come dire che la contrapposizione tra grecita e cristianesimo nei termini peculiari in cui viene argomentata dal giovane Hegel del periodo di Berna non abbia nulla a che vedere con la sua entusiastica adesione al programma politico della Rivoluzione francese! Il tema è certo lo stesso che affronta Heidegger ma il modo in cui viene affrontato da Hegel sul piano filosofico è talmente diverso che radicalmente diverse sono le conseguenze politiche, storiche che inevitabilmente il filosofo di Stoccarda ne ricava. Hegel vede infatti un ritorno della grecità proprio nella Rivoluzione francese. Heidegger vede invece in quella rivoluzione come del resto nella a lui contemporanea Rivoluzione d'ottobre il trionfo dell'ebraismo! Si tratta appunto, direbbe lo stesso Cacciari, di pensieri in lotta, in lotta tra loro!

Salvatore Tinè