venerdì 28 marzo 2014

Kafka e la musica




"Se veri e propri misteri sono racchiusi nella musica- ha scritto Walter Benjamin- questo rimane un mondo muto, da cui la sua armonia non si leverà mai. Ma a quale mondo è dedicata la musica se non a questo, a cui promette più che una mera conciliazione: la redenzione?" Era proprio questa nozione della musica come "speranza" e "redenzione" che Benjamin coglieva nella "tavola" posta da George nella casa natale di Beethoven a Bonn: "Prima che voi cresciate a questa lotta/ io ve la canto dalle stelle sopra/ Prima che voi prendiate corpo in questa stella/ vi invento il sogno delle eterne stelle." Paradossale la citazione benjaminiana di questi versi nel finale del grande saggio su "Le affinità elettive" dedicato proprio ad un romanzo in cui come rilevava lo stesso Benjamin, gli amanti suoi protagonisti, Ottilia ed Edoardo morivano insieme senza mai essere "cresciuti alla lotta". Ma diversamente che per George, per Benjamin proprio per i morti, ovvero per coloro che non potranno più "prendere corpo", ci è data la speranza, la "fede nell'immortalità" non potendo mai "accendersi" per lui, "alla propria esistenza". Si direbbe dunque che la speranza nella redenzione evocata dalla musica riguardi solo i morti. Muto, dunque, estraneo alla musica, il mondo dei vivi. L'affermazione che chiude il testo di Benjamin sembra scritta da Kafka: "solo per chi non ha più speranza ci è data la speranza." Ma in realtà nel mondo totalmente reificato che Kakfa oggettiva in immagini straniate i vivi non sono più distinguibili dai morti: in esso come ha ben visto Adorno "il confine tra l'umano e il mondo delle cose si cancella". "Un mondo senza musica" si potrebbe in questo senso definire quello di Kafka, per usare un'espressione con la quale De Benedetti definì una volta l'universo pirandelliano. Un mondo al quale il grande scrittore praghese non oppone nient'altro che, come dice Adorno, "un muto grido di battaglia". Pure come rileva lo stesso Adorno "proprio perchè disdegna ogni effetto musicale", la sua resistenza al mito solo "muta", apparentemente inerme e indifesa, "dà l'effetto della musica." C'è dunque una essenziale differenza tra il "muto" cedere alle potenze del mito, di Ottilia e Edoardo "mai cresciuti alla lotta" e "l'effetto musicale" della pure altrettanto muta resistenza a quelle potenze dei personaggi di Kafka, forse l'unica possibile speranza di chi "è cresciuto alla lotta", ovvero tra un silenzio "mortale" come quello delle Sirene che non cantano di un grande racconto di Kafka e un silenzio dall'effetto musicale, forse quello stesso che Ulisse, tra tutti gli eroi certo il più intelligente nella lotta contro il mito, finge forse di ascoltare.

Salvatore Tinè

lunedì 24 marzo 2014

Sul finale de "La dolce vita"








Salvatore Tinè: Con grande emozione leggo, stamattina, sul giornale, queste dichiarazioni di Martin Scorsese, pronunciate ieri alla proiezione, al Festival del cinema di Roma, della copia restaurata e con alcune sequenze inedite de La dolce vita. "Fellini - ha detto il grande regista americano - modificò ne “La dolce vita”, il modo di guadare un film. Si poteva raccontare una storia senza una trama, senza un inizio e una fine. L'impatto emotivo che ebbe su di me fu enorme, le prove sono i miei film. L'immagine che ho più cara è la traiettoria verso il basso nello sguardo finale di Mastroianni, l'accettazione nei suoi occhi, la natura tragica che perdona. Quanto riflette di noi stessi, quanti interrogativi morali solleva?" Ho voluto rivedere, dopo aver letto queste parole di Scorsese, la scena finale del film e in effetti mi è parsa di una bellezza incantevole, pur nel suo significato amarissimo, nella sua immensa tristezza, forse perfino tragica e lo sguardo triste e stanco ma dolcissimo di Marcello ha perfino qualcosa di chapliniano oltre ad essere ovviamente molto molto "felliniano".

Giuseppe Tinè: E' difficilissimo leggere il sorriso (così trasparente!) di Paoletta qualche istante prima della dissolvenza: è difficilissimo dire che cosa realmente esprima. E' difficilissimo come è difficilissimo dire che cosa esprima il sorriso di Chaplin nell'ultima inquadratura di Luci della città. C'è un mistero chapliniano, in fondo, in questo sorriso di Paola. Entrambi i film si chiudono (in dissolvenza) su di un sorriso...

Salvatore Tinè: Mi ero soffermato maggiormente sulla faccia di Mastroianni, sul suo volto stanco avvilito, tristissimo. C'è una grande consapevolezza, amarissima, del suo degrado morale. Il sorriso di Paola rappresenta una purezza inattingibile per lui e insieme l'unico possibile senso della vita. Ma appunto è come se questo senso possibile non potesse riguadarlo. E' in questa consapevolezza resa in modo così efficace da Mastroianni che emerge la dignità morale di un personaggio che pure appare ormai esaurito, stremato dalla sua vita priva ormai di senso e di scopo. Il volto ma anche i gesti assurdamente clowneschi delle mani con cui cerca di comunicare alla ragazza la sua resa ci dicono forse che La dolce vita è un film sulla "tragicità" della nostra vita moderna - molto più che sulla sua "dolcezza". Perciò bisogna aspettare l'ultima inquadratura per vedere un poco di luce, l'unica immagine di purezza in tutto il film.

Giuseppe Tinè: Nel sorriso di Paola c'è quasi una tenerezza (forse persino un'esilissima vena d'affettuosa, benevola, dolcissima ironia) verso Marcello: come di chi "vegli", sollecita, su d'una persona. Sì, Paola sembra quasi "vegliare" su di lui, come un angelo custode: la sua purezza è luminosa e "intelligente". E per questo, nell'ultima inquadratura, si trasfigura quasi in un simbolo. E quel gesto della mano è un gesto, a suo modo, "consapevole". Nella sua innocenza c'è un'intelligenza. Non trovi?

Salvatore Tinè: Forse sì. Ma non ne sono così sicuro. Ritengo, tuttavia, più intense le espressioni di Mastroianni.

Giuseppe Tinè: Le espressioni di Mastroianni sono molto intense, certo, ma anche più facilmente "leggibili". Appartengono, per così dire, alla "storia" di Marcello. L'espressione di Paola mi pare alluda a qualcosa di più profondo, starei per dire: a qualcosa di 'superiore'... Paola si volta: i suoi occhi inseguono Marcello, ma sembrano a un certo punto quasi incontrare lo sguardo dello spettatore, 'staccarsi' dal racconto e 'fissarsi' - ma solo per un attimo - alla nostra visione con i caratteri di un simbolo... La macchina da presa indugia su di lei, e la dissolvenza pare come "fermarne" quei caratteri... Il mare - sfocato sullo sfondo - sembra fasciarla e insieme sollevarla in un'aura diversa da quella che respiriamo in tutto il film. Naturalmente si tratta di una sensazione sottilissima, che Fellini è stato maestro nel suggerirci appena… Non credi?

Salvatore Tinè: Credo che quel sorriso, sia come dicevi benissimo tu, quello di un angelo custode. Del resto in una sequenza del film, è lo stesso Marcello a dire alla ragazza che il suo sorriso o lei stessa (non ricordo), ricordava quello di certi angioletti raffigurati in alcune chiese umbre. Non so fino a che punto quel sorriso esprima anche una consapevolezza: io credo che esprima soprattutto il candore e la purezza ovvero l'esatta antitesi della Roma labirintica, ambigua, tentacolare, galleria dantesca e a tratti perfino kafkiana di personaggi strani e grotteschi, che Fellini ci racconta in un grande sterminato affresco. Forse la "dolce vita" è proprio quella dello sguardo della ragazza, uno sguardo puro, candido ma che proprio per questo non giudica né condanna. Certo potrebbe anche essere, come in fondo suggerisci tu, un sorriso che "perdona". Ciò che non sarebbe certo in contraddizione con la formazione molto cattolica tipicamente "romagnola" di Fellini. Il cattolicesimo è per eccellezza la religione del "perdono"... Un "perdono" che finisce magari per degenerare nella "vendita delle indulgenze". Lutero docet... Peraltro sto pensando che il tema del perdono viene sfiorato anche da Scorsese, anche lui italo-americano di formazione cattolica, innamorato di Pasolini...

Giuseppe Tinè: E' suggestiva e penetrante la tua interpretazione. Però non so se la "dolcezza" cui si allude nel titolo del film sia quella che traspare dal volto di Paola. La "dolcezza" della vita di Marcello è il frutto d'un abbandono, d'un rilassarsi, che è anche uno sprofondare... Certo, lo sguardo di Paola è dolce, dolcissimo. Ma la sua è la dolcezza della bontà, ed è soprattutto - a me pare - una freschezza, una "giovinezza" dell'anima purissime, 'alte', inalterabili. Ma sulla tua lettura in chiave religiosa di questo finale sono d'accordo. Il gesto di Paola, quella mano che si apre e chiude (in modo, credo, volutamente "studiato"; certamente non naturale, non spontaneo, non realistico) ha qualcosa di "religioso". E' un gesto composto: religiosamente composto. E si direbbe alluda ad una sorta di "benedizione". Che ne pensi?

Salvatore Tinè: Sì, sono d'accordo: la "benedizione" in fondo credo che sia molto legata al perdono. Certo, sono d'accordo con te anche sulla ambiguità del titolo del film. E' un titolo indubbiamente molto importante che dice tanto sul senso, sull'atmosfera poetica del film. Non c'è dubbio che la "dolcezza" sia della vita così come viene rappresentata in tutto il film, anche quando ad agire e a parlare sono personaggi cinici, squallidi, ambigui. Ma appunto lo sguardo di Fellini cerca sempre di cogliere l'umanità anche di questi personaggi. La vita in questo senso ha sempre una sua "umanità" e anche una sua poetica dolcezza. Direi che la la grandezza di Fellini consista proprio in questo fondere il momento poetico e quello etico-religioso. In questo senso il sorriso di Paola, la ricerca di una moralità pura che dietro la sua immagine, sono un poco la sintesi del film, ne compendiano appunto il significato insieme poetico e morale e perfino religioso. Forse è questo il barocchismo di Fellini. Niente a che vedere con significato "luttuoso" che Benjamin dava al "barocco". Solo nel Fellini più tardo forse il barocco diventa veramente funebre, luttuoso: la confusione, la moltiplicazione delle immagini è anche insieme la loro luttuosa rovina e non più anche il tentativo delle immagini di trasformarsi da profane, mondane in segni per quanto misteriosi del divino.

Giuseppe Tinè: 
Molto profondo quello che dici sulla "luttuosa rovina" barocca delle immagini nel tardo Fellini. Il barocco esplode in Otto e mezzo, dove la religione (cattolica) è già diventata oppressione, è l'incubo del piccolo Guido... Film profondamente laico, nel quale pare si sia spenta ormai (esplosa, com'è, appunto, e quasi 'disintegrata' nel "barocco" delle immagini) qualsivoglia 'tentazione' religiosa. Nel girotondo finale che chiude Otto e mezzo non aleggia infatti nulla di "religioso". La "bella confusione" della vita è accettata, e "ricomincia" proprio alla fine, ma con gli stessi attori, gli stessi personaggi che abbiamo già visti, incontrati e conosciuti nel corso del film: entro un orizzonte, dunque, integralmente “laico”, entro l'orizzonte di questa unica vita, la cui confusione è, pur sempre, a suo modo, "bella". Questa volta nessun angelo custode, nessuna immagine di purezza, nessuna ipotesi di trascendenza chiudono il film. E nessuna "grazia", nessun "miracolo" vengono invocati. Non è un caso che le ultime immagini del film siano quelle del bambino che suona il suo piffero inseguito da un faro di luce, circondato tutt'intorno a sé da una vastissima oscurità, entro la quale si perdono lui e le sue note.

[31 ottobre-1° novembre 2010]

sabato 8 marzo 2014

Vita giusta



"Il bolscevismo ha abolito la vita privata", ha detto una volta Walter Benjamin, forse risalendo dal comunismo "moderno" di Marx e di Lenin alle sue remote scaturigini platoniche, ovvero all'idea dell'abolizione dell'"oikos" come fondamentale premessa di una vera "polis". Bisognerebbe scagliare questa affermazione contro l'idea, oggi, così in voga, e così bene argomentata da Giorgio Agamben, che la "nuda vita", ovvero heideggerianamente la nuda fatticità dell'Esserci sia, nello "stato d'eccezione divenuto regola", il luogo stesso della politica. Forse l'effettivo stato d'eccezione, invocato da Benjamin contro il fascismo in sua celebre tesi sulla filosofia della storia, è proprio quell'abolizione della "vita privata" conseguente a quella della proprietà privata che il bolscevismo aveva già secondo Benjamin realizzato in Unione Sovietica. In realtà l’esclusione-inclusione della “nuda vita” nella sfera della politica e del diritto da parte della “decisione sovrana” è un “falso” stato d’eccezione: giustamente Benjamin individuava nel potere della polizia, ovvero nell’indistinzione tra violenza che pone il diritto e violenza che lo mantiene, il tratto essenziale, normale e tutt’altro che “eccezionale”, della democrazia. Si direbbe che questa apparente “eccezione”, ovvero la riduzione della vita a “nuda vita” è la verità del diritto e del potere nella democrazia borghese. E’ proprio questo nesso tra potere e “nuda vita” che il vero stato d’eccezione, abolendo ogni vita privata e perciò privata di senso, recide. In fondo la lettura deformante che Agamben propone della concezione benjaminiana dello stato d’eccezione confonde politica e diritto, mostrandosi del tutto subalterna alla logica violenta del potere di cui presume di essere la critica: se il regno del diritto presuppone infatti la riduzione della vita a mera vita, quello della politica è il regno della vita giusta. Abolendone il carattere privato il bolscevismo ha dato alla vita una forma. Non tuttavia la forma vuota del diritto ma quella politica della “vita giusta”.

Salvatore Tinè