"Il bolscevismo ha abolito la vita privata", ha detto una volta Walter Benjamin, forse risalendo dal comunismo "moderno" di Marx e di Lenin alle sue remote scaturigini platoniche, ovvero all'idea dell'abolizione dell'"oikos" come fondamentale premessa di una vera "polis". Bisognerebbe scagliare questa affermazione contro l'idea, oggi, così in voga, e così bene argomentata da Giorgio Agamben, che la "nuda vita", ovvero heideggerianamente la nuda fatticità dell'Esserci sia, nello "stato d'eccezione divenuto regola", il luogo stesso della politica. Forse l'effettivo stato d'eccezione, invocato da Benjamin contro il fascismo in sua celebre tesi sulla filosofia della storia, è proprio quell'abolizione della "vita privata" conseguente a quella della proprietà privata che il bolscevismo aveva già secondo Benjamin realizzato in Unione Sovietica. In realtà l’esclusione-inclusione
della “nuda vita” nella sfera della politica e del diritto da parte della “decisione
sovrana” è un “falso” stato d’eccezione: giustamente Benjamin individuava nel
potere della polizia, ovvero nell’indistinzione tra violenza che pone il
diritto e violenza che lo mantiene, il tratto essenziale, normale e tutt’altro
che “eccezionale”, della democrazia. Si direbbe che questa apparente “eccezione”,
ovvero la riduzione della vita a “nuda vita” è la verità del diritto e del
potere nella democrazia borghese. E’ proprio questo nesso tra potere e “nuda
vita” che il vero stato d’eccezione, abolendo ogni vita privata e perciò privata di senso, recide. In fondo la lettura deformante che Agamben propone
della concezione benjaminiana dello stato d’eccezione confonde politica e
diritto, mostrandosi del tutto subalterna alla logica violenta del potere di
cui presume di essere la critica: se il regno del diritto presuppone infatti la
riduzione della vita a mera vita, quello della politica è il regno della vita
giusta. Abolendone il carattere privato il bolscevismo ha dato alla vita una forma. Non
tuttavia la forma vuota del diritto ma quella politica della “vita giusta”.
Salvatore Tinè
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