lunedì 23 giugno 2014

Il rosso e il nero





Ripenso a "Il rosso e il nero" appena finito di leggere, con la serena malinconia che segue sempre la "fine" di ogni "esperienza" nella vita, e particolarmente alle sue ultime pagine che serenamente, felicemente, raccontando negli ultimi giorni della vita di Julien ritornano alle prime, come chiudendo il cerchio della vita del giovane protagonista. Ripenso ad una pagina di Sciascia che evocava la "precocità" di Stendhal: una "precocità" che mi pare trasposta nella scrittura, nella letteratura proprio attraverso il riassumersi della vita di Julien, di tutta la sua vita, ovvero del suo senso più intimo e profondo nella sua giovinezza. Si parla tanto di "felicità" nel romanzo di Stendhal ed essa mi appare risplendere, fulgida, proprio perchè inconscia, ingenuamente ignara di sé, nel sublime scatto vitale di Julien. L'eroe de "Il rosso e il nero" crede di inseguire il potere e l'ambizione ma non si accorge che è in realtà la felicità e l'amore che cerca e per questo non si accorge di averli cercati e trovati e di viverli. Forse è la maledizione di quella "precocità" che sembra condividere con lo scrittore che lo ha creato. Pur guardandosi vivere, pur nel calcolo più freddo delle proprie scelte e azioni, Julien non cessa un attimo di vivere. Anche nei momenti di solitudine e di meditazione la sua malinconia non ha niente di amletico. La sua coscienza di sé non lo sdoppia, nè lo estrania dalla vita, dal suo incantevole fluire: Julien è sempre e completamente se stesso anche quando per orgoglio o ambizione controlla e reprime i suoi impulsi o le sue passioni; anche quando il suo misurarsi con il potere lo costringe ad accettarne in parte le logiche, a volgere la lotta contro di esso che desidererebbe ingaggiare in campo aperto, in spietata ma accorta competizione. E' questa sua "coerenza" che ne fa un autentico eroe pure in in mondo che Stendhal rappresenta, attraverso lo "specchio" della forma-romanzo, del tutto immerso nella "cronaca", non mosso da alcuna autentica forza storica ma solo dagli intrighi occulti di un potere pervasivo, triste e soffocante, quello "mediocre" anacronistico, cadaverico della Francia della Restaurazione, per molti tratti simile in fondo a quello odierno, anch'esso espressione di un mondo storico scaturito da un'altra Restaurazione, non meno  triste e tragica di quella che dovette patire Stendhal. Pure, in questo mondo in cui per una tragica ironia del destino al protagonista del libro è toccato di vivere, Julien ha saputo vivere e amare la vita e per questo è stato amato, da due donne così diverse e diversamente ribelli come madame Renal e Matilde de La Mole. Gli stessi ricordi così intimamente coltivati di ciò che non ha vissuto di quell'età rivoluzionaria ormai consegnata alla storia, si fanno calda vita presente, motivo stesso della sua esuberante esistenza. Se non fosse morto giovane, sarebbe solo "sopravvissuto" alla felicità e al suo amore per la vita. Ma a differenza di noi e forse dello stesso Stendhal, un eroe non può sopravvivere, ma solo morire, precocemente, felicemente.

Salvatore Tinè.











sabato 14 giugno 2014

Scusate il ritardo


C'è una tristezza di fondo in "Scusate il ritardo", dalla prima all'ultima inquadratura. Come se il tentativo di fuga, ovvero di "ricominciare", che animava il protagonista del primo film del comico napoletano, fosse definitivamente fallito. Di qui forse il suo "ritardo" di cui si "scusa" nel titolo. Troisi ritorna a Napoli, nella sua casa, nella sua famiglia, tra i suoi amici di sempre, ritrovandovi solo protezione e conforto ma nessuna felicità, nessuno scatto vitale. Partirà forse la sua compagna, stanca della sua incomprensibile, infantile malinconia, mentre lui resterà lì dove è nato e vissuto. Il suo aspettare sempre l'amore di lei, nell'incapacità di dare una espressione, una forma che non sia puramente fisica, gestuale ai suoi sentimenti è fondo quel "ritardo" cui allude il titolo del film. I suoi sublimi tempi comici sono scanditi da questo "ritardo" che rende tutti i suoi dialoghi con gli altri personaggi dei surreali monologhi, in cui proprio l'impaccio, il blocco della parola come della stessa recitazione sembrano liberare la gestualità. Così proprio quando Troisi esprime al massimo della sua tensione il bisogno di comunicare e perfino di amare, la sua apertura agli altri si esprime in una paradossale chiusura e perfino in un'apparente stanchezza o indolenza. Il suo stesso corpo così statico, cosi impedito e dolente, pur nella sua incessante, nervosa espressività, sembra caratterizzarsi per una cronica inadeguatezza alla fatica e alla disciplina del lavoro, come se la sua condizione sociale di permanente disoccupazione permanente si fosse mutata mutata in una interna, costitutiva incapacità del corpo ad ogni suo impiego utile e produttivo, in una sorta di costitutiva, ontologica "disoccupazione" del corpo. Se non crede più nella "Madonna che piange" e nei suoi miracoli, non per ciò aderisce al "valore" del "lavoro", all'idea della sua capacità di cambiare veramente la vita, di liberare il corpo e scioglierne i desideri. Se il protagonista di "Ricomincio da tre" lasciava Napoli non per "emigrare" ma per "viaggiare", quello di "Scusate il ritardo" ritorna nella sua Napoli per recitarvi la parte più classica e tradizionale del "disoccupato" napoletano. Ma è soltanto attraverso  lo sguardo e la visione della macchina da presa che Troisi riprende e ferma questa condizione "sociale" in tutta la sua realtà presente, insieme fissandola ed elevandola a "destino" della "napoletanità". Perciò egli non può che riprendere se stesso, imprigionato dentro inquadrature strettissime, quasi claustrofobiche: il suo corpo vive infatti solo dentro i contorni dell'inquadratura che lo chiude e lo isola, unica materia del cinema, unico possibile oggetto del suo sguardo.

Salvatore Tinè.

giovedì 5 giugno 2014

Massimo Troisi, vent'anni dopo.


"Massimo Trosi: Il mio cinema secondo me" è un'ottima introduzione al cinema di Massimo Troisi: e' un interessante documentario in cui le immagini della vita e dei film del grande attore napoletano scorrono mentre ascoltiamo la sua voce fuori campo. Troisi ci parla della sua concezione del teatro, della comicità, del cinema, come un critico di se stesso, in un italiano perfino colto, lontanissimo dal napoletano strettissimo e incomprensibile dei suoi personaggi. Per la prima volta, l'attore napoletano ci parla da "intellettuale" della sua arte e tuttavia dal complesso del racconto della sua vita personale e artistica emerge un radicale, assoluto rifiuto di qualunque dimensione "intellettuale" dell'arte e forse perfino "artistica". "Si è registi nella vita quotidiana, non sul set", dice ad un certo punto. Un critico che compare nel film accosta giustamente il suo cinema a quello di Nanni Moretti: come il regista de "La messa è finita", anche Troisi svuota il cinema della sua enfasi, di ogni dimensione spettacolare, di ogni "artisticità" per concentrare lo sguardo della macchina da presa esclusivamente su un corpo, lo stesso corpo del regista. "Non mi interessa la tecnica del cinema". L'occhio di Troisi è in questo senso l'antitesi stessa dello sguardo "tecnologico", "artificiale" della macchina da presa, così come di ogni visione banalmente visionaria del cinema. Mi viene fatto di pensare, pensando a Troisi che il cinema, in fondo, molto più dello stesso teatro "scopre" il corpo: la macchina da presa gira attorno ad esso, addosso ad esso, per la prima volta rendendolo completamente visibile. Un'autoscopia del corpo: si potrebbe forse definire così l'arte cinematografica di Massimo Troisi, capace non soltanto di muoversi e recitare sulle tavole di un palcoscenico, ma anche di guardarsi recitare, volgendo su se stesso lo sguardo e solo così mostrandosi senza residui, in tutta la potenza della mera espressività fisica del suo corpo e insieme in tutta la sua debolezza, fragilità. Significative in tal senso le testimonianze degli attori a proposito della estrema difficoltà di recitare con Troisi, sincronizzando i loro tempi di recitazione con quelli del tutto imprevedibili, incalcolabili della sua: la regia dell'attore si risolve tutta nella sua recitazione ed anche quando dirige da "regista" l'attore lo fa recitando, come nella finzione. "Ho raccontato la mia inadeguatezza, la mia timidezza" dice Troisi: ma, bisogna aggiungere, che egli l'ha raccontata, mostrandola completamente, impudicamente. La timidezza che si mostra, ma restando tale: è in questo puro mostrarsi che si nasconde in fondo quella "ricerca di una purezza assoluta" di cui parla Lello Arena nel film. Il napoletano strettissimo risolto nella mera musica di un ritmo continuamente interrotto e ripreso finisce così per annullare la parola nella "smorfia" del volto, nella "lingua" pura, assoluta, del gesto. Il cinema è la "verità" del teatro.

Salvatore Tinè