martedì 15 novembre 2016

Fai bei sogni


"Fai bei sogni"- dice la madre al bambino pochi attimi prima della sua morte. Comincia così il film "Fai bei sogni" di Bellocchio. La morte della madre come un vero e proprio blocco della crescita, del processo del divenire adulti è il suo tema. I continui e angosciosi "flashback" che riportano il protagonista del film, un affermato giornalista de "La stampa" di Torino, alla sua esperienza di orfano, sono la metafora visiva di questo blocco. L'incapacità di accettare la sconvolgente "fatticità" della morte della madre che segna la vita del bambino continuerà a condizionare anche la sua vita futura. L'inconscio è al fondo una negazione della progressiva linearità del tempo, l'angoscioso ritorno di ciò che si ripete continuamente perchè non è mai stato accettato o assunto nella sua realtà incancellabile. L'idea che la morte sia un mistero, prima ancora che un fatto è in fondo alla base delle fedi, delle religioni. E paradossalmente sarà un prete che dopo una lezione sull'origine dell’universo e della vita, proverà a spiegare al bambino che dietro il suo incalzante domandare sulla "vita eterna" c'è soltanto la ricerca della madre morta, la non accettazione della sua scomparsa.  In fondo la religione scaturisce proprio dal medesimo atteggiamento del bambino protagonista del film: ovvero dal tentativo di proteggersi dal dolore, dalla sua apparente assurdità, piuttosto che guardarlo in faccia, accettarne l'esistenza per affrontarlo e provare a dare ad esso un senso che non sia soltanto illusorio, mera consolazione. La passione del protagonista per il calcio indotta dal padre e forse unica vera “comunicazione” con il genitore ci dice di questo blocco infantile del protagonista. La folla di tifosi che esulta nella intensa scena che vede il padre stringere a sé il figlio dopo un gol del Torino è una moltitudine “bambina”, una folla di adulti immaturi che “storicizza”, universalizza, visivamente, il dramma del bambino che vediamo esultare solo forzatamente.  Ne "I pugni in tasca", il protagonista uccideva la madre, in "Fai bei sogni" il bambino anche divenuto adulto continua a ricordarla e a sognarla, non cessando di interrogarsi sul "mistero" della sua morte sebbene senza mai il coraggio di penetrare veramente dentro di esso, dentro la sua verità che il padre e la madrina hanno deciso di tenergli nascosta. Perciò il ricordo si volge sempre in sogno e questo in incubo. Sarà forse una donna, un medico conosciuto durante un terribile "attacco di panico", a salvarlo, aiutandolo a sciogliersi, ad accorgersi del suo inconscio fino a quel momento soltanto rimosso e bloccato, a "lasciarsi andare" e a “lasciare andare” la madre. Nella scena forse più bella del film la vediamo fissare con lo sguardo calmo e distaccato di un medico  gli occhi del protagonista. Dire sempre la verità ai propri pazienti si rivela così come l’unica terapia possibile e paradossalmente molto più efficace e “rassicurante” dell’ansia protettiva della madre e dei suoi “bei sogni”. In fondo lo sguardo di quella donna è la metafora di quello del cinema, così come la televisione che il bambino è solito guardare prima di addormentarsi con la madre è la metafora dei nostri “bei sogni”. La tarda scoperta del suicidio della madre si porrà così come la premessa fondamentale di un cambiamento possibile nella vita bloccata del protagonista del film, ponendolo di fronte al problema delle ragioni  e perfino della legittimità morale del gesto estremo di quella donna e di quella madre. Un gesto in cui l’”egoismo” della madre sembra inestricabilmente intrecciarsi e confondersi col “coraggio” della donna. Non a caso la scena in cui vediamo la donna che lo ha “salvato” tuffarsi coraggiosamente dall’alto di un trampolino nella vasca di una piscina evoca immediatamente l’immagine della madre che si è lanciata dal quinto piano di casa sua. Due immagini che sembrano sovrapporsi ed evocare insieme proprio quel coraggio del “lasciarsi andare” di cui il protagonista si mostra quasi sempre incapace. Perciò ossessivamente, angosciosamente la figura della madre ritorna, ma forse per la prima volta forse come protagonista e non più solo filtrata dal ricordo del figlio, nell'ultima sequenza del film che la vede spaventare il bambino giocando con lui a nascondersi. Terribile presagio o metafora della sua morte e forse anche del suo suicidio, il suo giocare a nascondino con il figlio ritorna nella memoria e nell’inconscio di quest'ultimo insieme come un dolce ricordo e un sogno angoscioso. Sintomo della verità insopportabile e rimossa, i “bei sogni” sono i nostri incubi.


Salvatore Tinè

martedì 25 ottobre 2016

Per Lenin


Nel "Quaderno 7" Gramsci definisce "la teorizzazione e la realizzazione dell'egemonia fatta da Ilici", cioè da Lenin, un "grande avvenimento 'metafisico'". Si potrebbe partire da questa affermazione di Gramsci per ripensare, cento anni dopo, la Rivoluzione d'ottobre. L'Ottobre rosso è un evento "metafisico" non soltanto perchè ha trasformato radicalmente il mondo ma anche perchè nello stesso tempo ha mutato definitivamente il nostro modo di pensarlo. Esso rappresenta per Gramsci il culmine del lungo e tormentato processo di affermazione della idea e della realtà della "eguaglianza" tra gli uomini: "Nella storia l''uguaglianza' reale, cioè il grado di 'spiritualità' raggiunto dal processo storico della 'natura umana' si identifica nel sistema di associazioni 'private' e 'pubbliche', esplicite ed implicite, che si annodano nello 'Stato' e nel sistema mondiale politico... Si giunge così anche all'eguaglianza o equazione tra 'filosofia e politica', tra pensiero e azione, cioè ad una filosofia della praxis. Tutto è politica, anche la filosofia o le filosofie... e la sola 'filosofia' è la storia in atto, cioè è la vita stessa." Fondate sulla consapevolezza finalmente acquisita del nesso dialettico che lega la filosofia alla storia, il pensiero all'azione, la teoria e la pratica leniniste dell'egemonia rappresentano una tappa fondamentale del processo di unificazione del genere umano. Dopo l'ottobre di Lenin la dialettica del pensiero non è più scindibile da quella aspramente "pratica", storicamente reale delle classi e dei partiti che li rappresentano: nessuna conoscenza oggettiva e universale del mondo è possibile fuori dal terreno della lotta di classe per la sua trasformazione. Gramsci sottolinea, tuttavia, come solo in tal modo il pensiero si realizza come tale, cioè come conoscenza del del mondo nella sua totalità, quindi nel suo rapporto storico con il processo in atto di unificazione del genere umano, ovvero di affermazione dell''"eguaglianza" tra gli uomini, della loro comune "spiritualità". L'Ottobre del '17 e il leninismo hanno rappresentato per Gramsci un grande avvenimento filosofico nella storia del pensiero proprio per il potente impulso che essi hanno impresso, sul piano mondiale, al processo di unificazione del genere umano, riportando per la prima volta in modo consapevole la teoria al solido terreno della prassi e quindi alle esigenze e agli obiettivi concreti che scandiscono la lotta degli uomini e dei popoli per una "eguaglianza" effettiva, immanente alla realtà in atto della storia e della vita. L'egemonia di Lenin è certamente per Gramsci un pensiero del mondo ma anche nello stesso tempo il farsi mondo del pensiero, attraverso la politica e la lotta per l'instaurazione di una universalità non più soltanto utopistica, astrattamente spirituale, ma integrale, totalmente immanente alla vita materiale e morale degli uomini, a quella che Gramsci definisce una "assoluta terrestrità". In questo senso soltanto dopo la Rivoluzione d'ottobre possiamo "pensare" il mondo se per mondo intendiamo la sua totalità, ovvero la sua unità comprendente la natura e la storia, il pensiero e l'azione, le idee, gli ideali universali degli uomini e la dura e aspra lotta per la loro pratica realizzazione.

Salvatore Tinè

domenica 16 ottobre 2016

Per Dario Fo


Trascorro l'intero pomeriggio vedendo a Rai Scuola "Le lezioni sulla commedia dell'arte" di Dario Fo. Rimango sorpreso dalla capacità dell'arte affabulatoria di Fo di incollare me, mia madre e mia sorella per circa 6 ore consecutive davanti alla televisione. Vien fatto di riflettere sul concetto di "lezione". Fo, riprendendo ma soprattutto sviluppando in modo personale il grande insegnamento di Brecht, trasforma, il teatro, per l'appunto, in una "lezione" di teatro. Ma l'apparente paradosso è che soltanto così, ovvero stabilendo un rapporto diretto con gli spettatori e quindi facendo di questi ultimi i veri e propri protagonisti dell'evento teatrale, il teatro trova il suo movimento, il suo ritmo proprio. Il racconto e la "lezione" interrompono continuamente la "recitazione" vera e propria dell'unico attore che si muove in una scena vuota, facendosi tuttavia proprio così essi stessi  momenti fondamentali dello spettacolo, scandendone rigorosamente tempi e ritmi. E' questa apparente interruzione della continuità dello spettacolo a rompere la passività degli spettatori. Questi ultimi in tanto possono "sincronizzarsi" con lo spettacolo e viverlo in quanto l'attore stesso parlando e conversando con loro ne corso della "lezione" ne spiega e disvela la costruzione, ne rivela il montaggio e la tecnica con cui è stato e viene costruito. L'effetto comico scaturisce proprio da questa operazione di montaggio che avviene dinanzi agli spettatori, quasi a confermare la teoria bergsoniana del riso che nel comico vede appunto una interruzione del flusso vitale, la sua "meccanizzazione". Fo ci spiega infatti come il ritmo e il movimento del teatro siano propri di una meccanica, di una vera e propria macchina, creata molto prima che l'arte e la tecnica del cinema scoprissero il montaggio delle inquadrature. In tal senso, la metafora più esatta per dare il senso della concezione del teatro che Fo ci propone è forse quella, chapliniana", della "catena di montaggio". Come la fabbrica fordista frammenta il lavoro dell'operaio meccanizzandolo completamente, allo stesso modo il teatro di Fo disarticola il movimento del corpo dell'attore sulla scena in una serie di gesti staccati ma solo per rimontarli secondo un'altra logica, un altro tempom ovvero un'altra meccanica, per così dire mutata di segno, in grado di liberare il gesto, in tutta la sua potenza espressiva, in tutto il suo slancio vitale e liberatorio. Perfino lo spazio della scena viene disarticolato e ricomposto dal corpo di Fo secondo il diverso tempo che ritma i gesti come l'affabulazione spesso affidata non alla parola significante ma ai puri suoni della voce, L'effetto comico non è in fondo diverso da quello dei gesti meccanici del corpo di Chaplin in "Tempi moderni" la cui vita, insopprimibile, continuava a pulsare pur dentro la macchina che la comprimeva e stritolava. Ma nel teatro di Fo l'effetto comico si fa anche musicale. Una vera e propria musica infatti scaturisce dal tempo puramente meccanico e fisico in cui Fo risolve il teatro, riportandolo alla sua origine pura, assoluta. Il carattere politico del teatro non consiste tanto nei suoi espliciti contenuti ideologici, qui peraltro perfino assenti, ma piuttosto nell'effetto fisico e liberatorio che il puro ritmo musicale dell'affabulazione insieme all'armonia solo sonora, fonetica del grammelot producono immediatamente negli spettatori, nello stesso momento in cui essi sono richiamati ad un rapporto non più inerte e passivo ma attivo e consapevole con il teatro e lo spettacolo. E' in questo rapporto attivo tra spettatori e spettacolo, in questo sincronico "respirare" insieme di attori e spettatori che Fo sembra far consistere la  celebre "epicità" di Brecht. Nella "lezione di teatro", la macchina spettacolare coinvolge gli spettatori svelando la sua tecnica e i suoi trucchi. Lo spettacolo mette in scena se stesso e insieme la sua autocritica. Ma così è la macchina stessa che sta dietro il potere, le sue maschere, i suoi inganni le sue liturgie, il suo "teatro", che viene insieme svelata e denunciata dinanzi alla risvegliata coscienza del pubblico, adesso finalmente anche "attore". L'epicità riporta così il teatro alle sue origini nella "commedia dell'arte" di Fo, celebrandone l'immane potenza critica nei confronti del potere e del teatro del potere.

Salvatore Tinè

lunedì 10 ottobre 2016

I sogni sono sogni.


La moglie del protagonista di "Cafè society" sogna di essere tradita dal marito e chiede a quest'ultimo se le sia stato sempre fedele. "I sogni sono sogni" risponde il marito. Dunque, come in "Eyes wide shut" di Kubrick, sembrerebbe che anche nel film di Woody Allen, tradire la moglie o il marito è sempre un sogno o il suo ricordo. Non a caso "Café society" è ambientato nella Hollywood degli anni '30, ovvero in quella straordinaria fabbrica di sogni che fu il cinema americano nel decennio più tragico del secolo breve. Ma si tratta di una fabbrica che, come intuiva Gramsci, nel carcere, scrivendo "Americanismo e fordismo", stimola e produce i desideri nel momento stesso in cui li nega. E storia di un desiderio represso e negato è la storia d'amore del protagonista ebreo per l'amante dello zio, agente di Hollywood, parodia divertente di quel conflitto tra padre e figlio così tanto studiato dall'ebreo Freud. Ma  la "Traumdeutung" di Allen non ha niente del tragico che connota quella del fondatore della psicanalisi.  Nel suo giovanissimo alter ego protagonista del film, una spiccata inclinazione quasi "poetica" al desiderio e all'evasione dalla realtà è quasi solo l'altra faccia della sua capacità di rassegnazione non priva di un certo spirito pratico americano. Un tratto della "duplicità" "ebraica" del personaggio che in un certo modo lo accomuna alla figura del fratello gangster, il quale poco prima della morte sulla sedia elettrica si convertirà al cristianesimo per giungere prima alla salvezza. Il lento inavvertito scorrere del racconto, l'incantevole e insieme inesorabile passare del tempo che lo scandisce appiana e risolve ogni contrasto, scioglie ogni dialettica, come se il racconto della vita volgesse quest'ultima in un lungo, piacevole ricordo. E così il sogno, come nella splendida dissolvenza incrociata dell'ultima sequenza, ci appare solo come il lento dolcissimo dissolversi nel ricordo di un attimo mancato. Hollywood è la metafora allora del tempo, più ancora che del cinema: arte non della immagine e della realtà che vi si rifletterebbe ma piuttosto della sua dissolvenza, della sua mancanza. L'amplesso mancato con la prostituta nella scena più comica del film ne racchiude in questo senso il nucleo più profondo e inquietante, che tuttavia resta nascosto, dissimulato nella incantevole poesia che ne avvolge ogni immagine.

Salvatore Tinè

mercoledì 5 ottobre 2016

La fionda di Samuele.


Rivedo in Tv "Fuocoammare". Pochi giorni fa Sorrentino dichiarava che l'opera di Rosi non è un film ma un documentario. Colpisce l'incredibile ingenuità di tale affermazione. "Fuocoammare" è un'opera di puro cinema, proprio per la sua capacità di rendere significante, metafora poetica l'immagine nuda e cruda della realtà, della realtà delle cose come di quella degli uomini. Lo stesso racconto, un piccolo romanzo di formazione che vede protagonista un bambino di nome Samuele nato e vissuto a Lampedusa è tutto risolto, oggettivato nelle immagini, spesso perfino nella loro pura fissità fotografica. Il cinema di Rosi sembra infatti voler fissare le immagini, fermarne l'incanto e rappresentare il movimento che in genere si crede ciò che vi è di più essenziale al cinema, o attraverso montaggio che lega tra loro le singole inquadrature in un misterioso gioco di rimandi o attraverso il solo muoversi e vivere dei personaggi per così dire "dentro" immagini ferme  che li comprendono e inglobano. Questa fissità delle inquadrature sembra rimandare del resto a quella stessa dell'isola e della vita che quotidianamente vi si svolge. Neanche la tragedia e l'orrore degli sbarchi sembrano turbarla, come se solo lo sguardo "storico" del regista, in virtù della sua "oggettività" apparentemente documentaristica fosse in grado di accostare, vedere insieme l'odierna tragedia di chi scampato alla morte approda in quell'isola e la vita quotidiana dei marinai e dei pescatori che vi vivono da sempre. Uno sguardo in questo senso antitetico a quello del bambino, il cui "occhio pigro" sembra non accorgersi nemmeno dei tragici sbarchi che avvengono nell'isola, e la cui vita sembra scorrere felice in un rapporto quasi primordiale con l'aspra natura di Lampedusa, ben al di qua della costa che separa la terra dal mare. Eppure il montaggio del film, la sua visione "intellettuale" non cessa di intrecciare i due sguardi. Così la fragile vita che pulsa invisibile nel grembo materno di una donna sbarcata dopo un terribile viaggio nell'isola, che lo sguardo solidale di un medico ci mostra attraverso lo schermo di una ecografia, ci rimanda al respiro affannoso, all'ansia di vita del bambino protagonista del film e ci dice qualcosa del lato non solo misterioso ma forse perfino oscuro e violento del suo puro slancio vitale. E la fionda, arma da gioco prediletta del bambino, metafora del suo io infantile, della sua chiusura e insieme del suo rapporto ludico e aggressivo col mondo che viene scoprendo ogni giorno, rimanda alle "armi" vere che circondano l'isola, alle navi da guerra rievocate dalla nonna del bambino come a quelle che vediamo "vigilare" i confini di Lampedusa nei nostri giorni. La tragedia storica dei migranti nulla muta nella vita dell'isola ma forse soltanto perchè da sempre ne ha fatto parte, come già nascosta nella inconscia, già "naturalizzata", silenziosa memoria collettiva dei suoi marinai. E il silenzio straniante del fondo del mare in cui vediamo un sub cercare i corpi morti dei migranti è forse quello stesso di questa memoria. Lo sguardo storico di Rosi e quello ancora "ingenuo" del bambino cospirano così entrambi a restituirci un unico spazio e insieme in un unico tempo e l'isola nell'eterno rapporto tra mare e terra, tra natura e storia che ha da sempre scandito la sua vita passata e che continua a scandire quella di Samuele si fa struggente metafora poetica di questo convergere di spazio e tempo, della vita degli uomini e della loro storia.

Salvatore Tinè

domenica 25 settembre 2016

Un borghese fuorviato


La pagina di "Tonio Kroeger" in cui il suo protagonista con "stupore" e "delusione", dinanzi all'altare del suo amore deve riconoscere che la sua fiamma si è innavertitamente spenta e che la fedeltà è impossibile su questa terra, per poi alzare le spalle e continuare per la sua strada, mi pare tra le più belle e alte del libro. Mi viene in mente Faust che per continuare la sua strada deve lasciare Margherita e tuttavia non perchè la fiamma del suo amore si sia spenta ma perchè quell'amore pure immenso non può contenere l'ansia di conoscenza e di infinito che non cessa di spingerlo sempre in avanti, oltre ogni limite, ogni ambito che rischi di chiudere e circoscrivere la sua tensione di vita e di conoscenza. Ma diverso è il caso di Kroeger nel cui cuore la fiamma dell'amore si è già spenta, quando egli decide di continuare per la sua strada. "Sentiva in sé la voglia e le forze di compiere a modo suo nel mondo una quantità di grande cose". Se in Faust è proprio la fiamma dell'amore a spingerlo inesorabilmente all'infedeltà verso di esso, in Tonio è invece il suo affievolirsi a spingerlo a gettarsi nel mondo. E tuttavia la strada che la sua infedeltà gli apre dinanzi sembra condurlo non tanto verso la solida realtà del mondo quando verso un mondo di "possibilità", colte soltanto in una vaga, inattingibile lontananza: "Seguì la via che doveva seguire, con un passo indolente e diseguale, fischiettando e guardando lontano, la testa reclinata su una spalla,e se sbagliava strada, ciò accadeva perchè per certuni non esiste la strada giusta. Quando gli domandavano che cosa pensasse di fare nel mondo, dava risposte vaghe, perchè soleva dire (e lo aveva già scritto) che portava in sé la possibilità di mille forme di esistenza, insieme con la segreta consapevolezza che, in fondo, si trattava di altrettante impossibilità". E' chiaro che il mondo cui già qui si allude è quello dell'arte, della creazione artistica, non certo quello della vita e del fare umani culmine supremo del cammino di Faust.  All'amica pittrice Lisaveta, Kroeger dirà non a caso che bisogna "trovarsi rispetto all'umano in un rapporto di strana lontananza, di non partecipazione, per essere in grado, e anzi sentirsi tentati di rappresentarlo, di giocare con esso, di riprodurlo con gusto ed efficacia". Di qui la rivelazione dell'essenza "amletica" della sua incapacità di amare e di amare la vita: "vedere chiaro anche attraverso il velo di lacrime del sentimento, riconoscere, notare, osservare e dover mettere da parte con un sorriso quel che si è osservato, ancora nei momenti in cui le mani si stringono, labbra si incontrano, in cui lo sguardo umano, accecato dalla sensazione, si spegne." Così all'apparenza il mondo dell'arte si contrappone al mondo "tout court" e l'incapacità di vivere e amare, una sostanziale infedeltà alla vita, trova nella "loquacità amletica" dell'artista, come splendidamente viene definita dallo stesso Kroeger, il suo unico risarcimento. Ma sarà l'amica Lisaveta a cogliere il vero nucleo ridicolo di tale risarcimento, ovvero la sua essenza borghese che ridicolmente, comicamente si dissimula dietro le forme e gli inganni dell'arte. "Lei è semplicemente un borghese" dice all'amico per aggiungere un attimo dopo averlo colpito duramente: "Lei è un borghese su una strada falsa-un borghese fuorviato". E' da questa consapevolezza della sua natura borghese che prende le mosse il viaggio di Kroeger, un viaggio a ritroso, alla ricerca della sua natura e quindi delle sue origini, volto quindi a ritrovare il mondo lasciato, la fedeltà ad esso. Cosi la strada verso la Danimarca di Amleto non potrà che passare per la sua città natale  e il suo viaggio tornare al suo "punto di partenza". La splendida lettera a Lisaveta che conclude il racconto ci svela il senso dell'odissea di questo novello Ameto che è in fondo Kroeger. "Quello che ho fatto è niente; non è molto, anzi non è nulla. Farò di meglio, Lisaveta: questa è una promessa. Mentre scrivo, il mare strepita ed io chiudo gli occhi. Guardo in un mondo non ancora nato, soltanto sbozzato, che cerca ordine e forma; vedo brulicare ombre di figure umane che mi fanno cenni perchè spezzi la malia che le tiene prigioniere, perchè le liberi e le redima; tragiche e ridicole, e alcune che sono l'uno e l'altro insieme - e queste mi sono specialmente care. Ma il mio amore più profondo e segreto appartiene ai biondi dagli occhi azzurri, ai luminosamente vivi, agli esseri felici, amabili e comuni. Non rida di quest'amore, Lisaveta; esso è buono e fecondo. Ha in sé un desiderio struggente, un'indivia mesta, un po' di disprezzo e una grande, pura beatitudine."
Dunque la fine del viaggio è il suo ricominciamento e il suo senso di nuovo una promessa e tuttavia non più inafferrabile e lontana come le mere possibilità destinate a volgersi in "impossibilità" che si stagliavano davanti al giovane Kroeger all'inizio del suo cammino di borghese sviato.  L'acquisita coscienza dell'artista di non aver fatto ancora niente è la garanzia della solidità e concretezza di quella promessa e che un mondo non ancora nato, perchè ancora privo di "ordine" e "forma", potrà tuttavia nascere. Il borghese fuorviato ha ritrovato la strada ma il cammino è soltanto all'inizio e non è detto che sarà ancora lui a percorrerlo.

Salvatore Tinè

martedì 13 settembre 2016

Io, Bertolt Brecht.



Mentre leggo Brecht mi fermo un attimo a riflettere sulla sua poesia. Nella poesia l'io parla a se stesso e di se stesso. Brecht invece parla a noi, a noi tutti e di noi tutti. Eppure il suo "io" e la sua voce si impongono con una forza, una chiarezza e una nettezza di accento inconfondibili. Non ingannino i contenuti ideologici della sua poesia. La loro forza è tutta nell'io che li fa propri, che in essi si cala completamente facendone materia della sua esistenza tutta umana e terrestre. "Nei terremoti futuri- dice in una sua splendida poesia- io spero/ che non si spenga il mio virginia per l'amarezza,/ io, Bertolt Brecht, sbattuto nelle città d'asfalto/ dai neri boschi, nel grembo di mia madre, in tenera età". Spesso aspra e dura come l'asfalto delle città in cui ci trasporta, la sua poesia non vuole salvarci e neanche indicarci illusorie vie di fuga o d'evasione dal mondo terribile in cui viviamo e neanche dalla umana, amara fatica quotidiana del vivere che continua a scandire i nostri giorni anche nei grandi "terremoti" della storia. Tutta concreta e terrena dunque la "speranza" evocata da Brecht in quei versi, ovvero tutta immanente al suo "io". Ma la potenza tutta lirica e poetica di questo "io" scaturisce dal nome e cognome che lo accompagna. "Io, Bertolt Brecht" dice il poeta, presentandosi a noi, con tutta la concreta unicità umana della sua personale identità che soltanto il suo nome e cognome possono restituirci. Intanto la sua poesia parla a noi, in quanto in essa ci parla non un astratto "io" poetico ma un individuo concreto, in tutta la irripetibile, fisica, completamente terrestre "parzialità" del suo punto di vista, della sua vita umana sulla nuda terra. Il comunismo di Brecht altro non è allora che l'umana universalità di questo semplice ma potentissimo perchè umanissimo grido "io, Bertolt Brecht". "Bello è prendere la parola nella lotta di classe" dice un suo grande bellissimo verso. Ecco cosa è la poesia: "prendere parola nella lotta di classe". Nella dura concretezza della lotta, fuori dalla quale non si esce se non illusoriamente, Brecht come tutti noi da quella lotta chiamato a prendere parte ad essa, "prende la parola". La "bellezza" di questa "presa di parola" è certo anche, classicamente, la bellezza della "parola poetica". Ma qui tale bellezza si è tutta risolta in quella del "prendere parola". Perciò essa perde per la prima volta forse nella storia della letteratura universale, ogni sua equivoca magia, ogni pretesa di verità assoluta o metafisica per farsi "parola" tutta umana, tutta calata nelle necessità della vita e della lotta per essa Nella presa di parola "il virginia" di Brecht dunque non si spegne per l'amarezza. Debole e insieme potentissima come la protezione del grembo materno, la parola presa ci conforta ma solo per continuare a vivere e a lottare.

Salvatore Tinè

domenica 24 luglio 2016

La palla di Deineka


Il "calciatore" di Deineka in suo quadro del 1932 sembra volare come la palla che calcia ma verso il cielo, ovvero lo spazio del futuro. E come un sole del futuro (sebbene non ancora rosso come la maglietta del ragazzo) la palla calciata sembra fermarsi nell'azzurro del cielo accanto al campanile della chiesa. Come pochi altri forse Deineka ha "oggettivato" nella pittura, attraverso il disegno e il colore, la poesia del movimento ma ancor più la sua essenza, il suo "assoluto". Non si tratta di una astratta mistica del movimento banalmente, genericamente "futuristica". Certo, in Deineka il movimento delle cose, come degli uomini ha il tono, il carattere del sogno, della favola, del gioco infantile, leggero come la palla scagliata in alto dalla gamba del ragazzo, oltre il campanile di quella chiesa che si staglia soltanto sullo sfondo del quadro, simbolo della tradizione, del passato, di una storia la cui enorme pesantezza ci si è ormai lasciata alle spalle. Eppure nella pura oggettività del gesto del "calcio" ogni astratta, romantica, puramente soggettiva "interiorità" si è come dissolta: l'interno si è fatto esterno e la "favola" ha assunto la concreta fisicità del reale. Il calciatore sovietico è il Discobolo greco fattosi contemporaneo. Perciò l'immagine del giovane calciatore è quella del comunismo, oggettivazione della sua essenza e non solo dello slancio proteso verso di esso, quello che animò un intero popolo nell'epoca storica vissuta da Deineka. Una società nella quale "l'estrinsecazione delle doti creative" dell'uomo si fa "assoluta": così Marx definiva, senza nominarlo, il comunismo. Non più soltanto "qualcosa di divenuto", in essa, per Marx, l'uomo "è nel movimento assoluto del divenire". Certo proprio tale carattere "assoluto" del "divenire rende anacronistica ogni culto della "forma compiuta". delimitata, del tipo di quella dominante nel mondo antico. Ma è proprio in questo "assoluto" che il divenire, il movimento, ormai fine in sè, e non più mezzo alla valorizzazione del capitale, è destinato ad attingere nel mondo contemporaneo la sua forma. E tuttavia non più quella fissata in eterno, mera idea sebbene fattasi sensibile, ma una forma immanente allo stesso movimento, da esso prodotta, in una unità non più separabile ma indissolubile, ontologica. In questo senso, movimento assoluto è il gesto del calciatore di Deineka, unità del divenire e del divenuto, ancora forma. Il gioco del calcio, la sua "tecnica" è allora non solo immagine, metafora del comunismo come divenire assoluto ma della stessa "tecnica", della stessa ripetitiva, perfetta "meccanicità" assunta dal lavoro moderno. Benjamin ha notato una volta la paradossale affinità tra il lavoro meccanizzato e il gioco. Entrambi si svolgono infatti all'insegna della ripetizione. Il gesto del calcio è eterno come la forma proprio perchè si ripete. Non quindi ad una tanto utopistica quanto estetizzante contrapposizione della leggerezza del gioco alla durezza del lavoro industriale allude Deineka nel suo quadro quanto alla loro sostanziale identità, in essa individuando insieme all'essenza della tecnica quella del comunismo.

Salvatore Tinè

domenica 26 giugno 2016

Il sorriso di Leonardo


Un rapidissimo riferimento alla "Monna Lisa" di Leonardo mi colpisce rileggendo il saggio di Benjamin su "Le affinità elettive". Benjamin accosta e insieme contrappone la bellezza di Ottilia, "l'apparenza che si spegne", alla "magnificenza" dell'Elena goethiana e a quella della donna ritratta nell'immenso quadro di Leonardo. Eppure quella "magnificenza", il suo "segreto" scaturiscono per lui proprio dalla "contesa" tra l'apparenza che si spegne e quella "trionfale della bellezza abbagliante." Mi pare una indicazione di enorme rilievo per capire in profondo il capolavoro di Leonardo. Ma come intendere ne "La Gioconda" quella "contesa"? Il trionfo della luce nel quadro è forse il risolversi, totale fondersi in essa del reale. Il reale, infatti, è luce per Leonardo, ovvero "fenomeno" in senso etimologico, apparenza che si rivela, essenza disvelantesi solo nella luce del fenomeno. La luce è l'unico movimento possibile nella stasi, nell'equilibrio apparentemente perfetto tra la figura della donna, la sua "forma" e lo spazio in cui si risolve: movimento interno dunque, di là da ogni dramma, da ogni azione. E tuttavia quella luce è anche apparenza che si spegne, come la mitica bellezza di Ottilia. Il suo rivelarsi infatti è pur sempre il manifestarsi di un segreto che tale rimane anche nel suo risplendere nella luce. La "natura naturans" tante volte richiamata a proposito del quadro di Leonardo è questo segreto, che tale rimane anche se indisgiungibile dalla sua manifestazione. Perciò la tanto decantata rinascimentale serenità del quadro rinvia a quel segreto che niente ha di inquietante o enigmatico. Perfino nel suo spegnersi la luce non perde niente della sua non trionfale non abbagliante ma chiara, trasparente evidenza. E' in essa infatti, nella sua pura evidenza che pulsa la vita segreta, quella che lenta affiora dal corpo di Monna Lisa per trascorrere poi nell'umida terra e nei fiumi sullo sfondo. E' a questa interna contesa tra la vita e il suo rivelarsi che il calmo sguardo contemplante di Leonardo, il suo non ironico "sorriso" ci riporta. Nessuna critica, allora, in questo sguardo, potremmo dire parafrasando le pagine di Benjamin su Goethe, ma neanche nessuna "idolatria della natura" indifferente al suo segreto e alla sua verità.

Salvatore Tinè

domenica 22 maggio 2016

Le confessioni


"Le confessioni" di Roberto Andò ha il pregio di affrontare il tema dell'economia, del suo potere sempre più "totalitario" nel mondo contemporaneo con quello di Dio. In questo senso, sarebbe forse sbagliato o riduttivo interpretarlo come l'ennesima, scontata critica del capitalismo finanziario e "globale" in nome delle ragioni dell'"etica" e quindi della religione. In realtà c'è un nesso tanto profondo quanto misterioso tra "economia" e "teologia", tra la logica del "profitto" della prima e quella della "salvezza" della seconda. Si tratta di due logiche totalmente "astratte", nonostante siano proprio esse a decidere delle nostre vite e dei destini del mondo. Il serrato confronto tra i due protagonisti del film, ovvero il presidente del FMI e il monaco da lui convocato per confessarsi, vede così confrontarsi quelle due logiche per un verso drammaticamente contrapposte e per un altro misteriosamente convergenti. Difficile capire quale delle due finirà per prevalere. Già mortalmente malato, il grande banchiere cerca di "guadagnare" il perdono confessandosi con il monaco, rifiutandosi tuttavia di rivelare la manovra economica segreta che un vertice di ministri economici è in procinto di discutere e che scaricherebbe sui più poveri gli enormi debiti accumulati, come se da quel monaco e non direttamente da Dio egli potesse ottenere la salvezza, così pagando il suo "debito". Il suo suicidio, conseguente alla sua solo parziale confessione, appare così come la conferma, la metafora della condizione di angosciosa incertezza e di caos permanente che caratterizza il dominio dell'economia di mercato come l'economia della salvezza. Dando a credere di possedere un segreto a cui non ha avuto in realtà accesso, il monaco proverà a mettere in crisi le "coscienze" dei potenti riuniti per decidere la manovra ma forse nulla accadrà. Il "feticismo del denaro" è altrettanto astratto e imprevedibile, pur nella logica "matematica" di cui si ammanta, del Dio che agostinianamente si nasconde nel buio della confessione, "grido dell'anima" destinato a restare segreto e inaccessibile come il potere del denaro e delle grandi banche.

Salvatore Tinè

mercoledì 6 aprile 2016

Sotto il cielo di aprile


"Sotto il cielo di aprile la mia pace/ è incerta." dice il primo verso di una poesia di Penna. E' forse tra gli incipit più belli che io conosca. Si pensa sempre che la poesia debba fissare, fermare qualcosa di preciso, di "certo". Qui invece è qualcosa di "incerto", o meglio qualcosa di colto in un passaggio, in un mutamento non ancora definitosi, precisatosi, che la poesia fissa. Forse perchè c'è un incanto e non soltanto un mistero nell'"incerto", qualcosa che turba la "pace" di un "cielo di aprile" proprio perchè insieme la costituisce. Le acque dormono ancora "ma come ad occhi aperti." Come dire che la "pace" non è ancora attinta e che la sua "incertezza" rimanda all'attimo che lega ancora il sonno alla veglia, il dormire al guardare, la vita colta in un attimo incerto al nostro totale abbandonarci, addormentarci in essa. Eppure un attimo dopo il "vento", il flusso potente della vita ha già "disperso" il suo cuore. Era questa perdita l'agognata certezza della pace? La giovinezza dei ragazzi, il bianco delle loro camicie "stampate" sul verde è un'altra immagine prima pura, candida e poi sensuale, verdeggiante di quel medesimo flusso. Al poeta, già solo, non resterà che un lampo di quel flusso e la vita continuerà dopo di lui, "stampata", fissata per sempre sul verde dei prati. La poesia è un "lampo" della vita, non la vita stessa.
Salvatore Tinè

lunedì 28 marzo 2016

Paisà


Vado a letto alle 4 del mattino per rivedere per intero e nella versione restaturata "Paisà" di Roberto Rossellini. Il film mi appare come un'opera epica. I vari episodi, solo apparentemente autonomi e come slegati fra loro, non raccontano vicende individuali o sentimentali, ma la realtà collettiva un popolo, di una nazione, colta tuttavia nel convulso movimento della storia, in un suo momento tragico ma proprio per questo decisivo, carico di futuro e di speranza. I personaggi, sempre rappresentati nella loro epica oggettività, sempre "tipi", si direbbe, e mai individui, ci appaiono totalmente immersi nella corrente della storia, nell'inferno della guerra. Ma è la forza del popolo, la sua prorompente vitalità collettiva, la sua superiore dignità morale che, tuttavia, si impone in ogni immagine. Non v’è dubbio che l’ideologia dell’autore sia populista. Ma tale ideologia è tutta risolta nella immediata, impressionante verità delle immagini. Il film risale la penisola dalla coste della Sicilia fino al delta del Po. Ma è la risalita civile e morale dell'Italia che ci racconta: nell'inferno della guerra totale, è il paese che risale, che resiste e risorge, nella regioni liberate dagli anglo-americani come in quelle dove combattono i partigiani. Come nessun altro film, forse, "Paisà" ha saputo raccontare il carattere popolare della Resistenza. I partigiani che come veri soldati combattono eroicamente sulle rive del Po sono popolo come il bambino napoletano che scalzo, smarrito tra i vicoli e le piazze di una Napoli ridotta a un enorme cumulo di macerie, ruba le scarpe al poliziotto americano. Nessuna differenza sembra darsi più tra la realtà e la sua rappresentazione. L'occhio di Rossellini non "vede" la realtà dall’esterno ma è come gettato in essa, finendo così per gettare anche noi spettatori dentro il suo ritmo serrato incessante, senza soste. Il movimento delle sequenze, delle inquadrature non ci lascia mai, neanche un istante e perfino nella sosta apparente dell'episodio del convento la guerra continua, continuiamo a sentirla, fuori da quelle mura rassicuranti. "Si può trovare la pace senza isolarsi dal mondo" dice uno dei cappellani militari americani che trova rifugia in quell'oasi di pace. Non a caso il film non finisce con la fine della guerra e l'ultima immagine, quella dei partigiani annegati nelle acque del Po, è la più terribile. Ma nella sua aspra secchezza essa non ci suggerisce un’impotente etica del sacrificio, ma all’opposto la forza del popolo, anche quando, come nell’ultimo episodio, questa forza sembra incarnarsi e vivere soltanto nei partigiani e nel loro momentaneo soccombere. La lotta e il combattimento degli uomini scandiscono il ritmo della storia, ma ne rivelano anche il cammino e la verità morale.

 Salvatore Tinè

sabato 5 marzo 2016

Tempo di guerra


All'Alfieri di Catania rivedo "Fuocoammare". Il film lo capisco molto meglio che la prima volta in cui l'ho visto e mi pare anche molto più bello. Credo che tutti dovrebbero vederlo, perchè è un film assolutamente politico pur essendo assolutamente poetico. La nonna del bambino protagonista che rievoca mentre fuori tuona la vita dei marinai di Lampedusa in "tempo di guerra" mentre fuori tuona e il "tempo" è "brutto", prima che Rosi ci mostri le navi militari vicino le coste dell'isola parla del "nostro" tempo di guerra. Così come la terribile immagine del film che ci mostra i cadaveri degli immigrati dentro la stiva di un barcone parla della "Auschwitz" quotidiana del nostro tempo. La tragedia e l'orrore si sono fatti quotidiani per quanto spesso "Invisibili" al nostro occhio "pigro" come quello del bambino. Ma quello di Rosi non è un cinema politico ma, si direbbe pasolinianamente, "di poesia": una cinema che trasforma in metafora la realtà soltanto mostrandocela, lasciando che si manifesti da sé ad uno sguardo che ad essa vi si predisponga, senza pregiudizi, senza schemi interpretativi già consolidati. Non c'è retorica "solidarietà" nelle parole del medico dell'isola costretto a ispezionare i corpi dei bambini arrivati morti nell'isola, ma solo la semplice umanità di un medico che dà un senso umano al suo mestiere, quando visita un corpo vivo e sano come quando ispeziona il corpo di un bambino morto. Il mare non è una strada, dice un giovane nigeriano ma è possibile attraversarlo, arrivando a destinazione. Il mare dispensa vita e morte insieme. Perciò nel film esso si fa metafora non solo del tempo in quanto tale ma anche del ritmo di vita e morte del nostro "tempo di guerra".

Salvatore Tinè

lunedì 29 febbraio 2016

Fuocoammare


Al "Greenwich" di Roma per "Fuocoammare" di Gianfranco Rosi. Il film mi piace molto. C'è una idea di cinema in esso, che cerca di cogliere la verità delle cose nelle "cose stesse". La vita quotidiana dei marinai e dei pescatori di Lampedusa che sembra scorrere eguale a se stessa da sempre e la tragedia dei migranti del nostro tempo che sbarcano sulle coste di quell'isola procedono parallelamente come ignorandosi, due "isole" nell'isola. Rosi sembra lasciare al giudizio di chi guarda il film il "senso" possibile di questo loro sempre mancato incontro. Non è chiaro infatti cosa accomuni veramente la vita di un bambino, figlio di un marinaio, sulle coste di quell'isola, la sua insopprimibile vitalità e quella dei tanti bambini africani che sbarcano a Lampedusa vivi o già morti. Eppure sembrerebbe proprio questo accostamento, in apparenza puramente "documentaristico", tra la normale "quotidianità" della vita di un bambino nato in quell'isola e l'altrettanto "normale" quotinianità della tragedia dei bambini che vi sbarcano, il vero tema del film. L'occhio pigro del bambino di Lampedusa è in questo senso una metafora di questa "invisibilità" della tragedia quando essa si fa quotidiana e insieme così prossima a noi. Il cinema è documentario, perchè è l'occhio non più "pigro" che si getta nella realtà più immediata e vicina e proprio per questo più "invisibile", facendosi tutt'uno con essa. Questo senso della prossimità dello sguardo, e non certo la sua presunta neutrale oggettività, mi pare costituire il tono poetico di fondo dell'opera di Gianfranco Rosi, la "pietas" profonda che la attraversa. Così, via via, il respiro affannoso, l'"ansia" del bambino che scorazza con la sua fionda primordiale per le campagne dell'isola, indotta dalla sua stessa prepotente vitalità, rimanda a quel rischio del mare che lo splendido "rap" gridato da un giovane immigrato africano, identifica con lo stesso "rischio" del vivere. Come il sub che vediamo immergersi nelle acque dell'isola, anche lo sguardo di Rosi sembra volersi "immergere" nella realtà e cercarvi anche attraverso le immagini di più assoluto dolore le scaturigini più profonde della vita e della speranza che sempre vi si accompagna. In una sequenza del film vediamo un medico dell'isola cercare di individuare il sesso di uno dei bambini ancora dentro l'utero di una giovane donna immigrata e che l'assurdo viaggio per mare ha finito per aggrovlgliare tra loro. Ed è a questa immagine di vita superstite eppure iniziale che ci riporta alla fine del film a quella stessa dei corpi morti degli immigrati aggrovigliati tra loro nella stiva di una nave.

Salvatore Tinè

lunedì 8 febbraio 2016

L'abbiamo fatta grossa


"L'abbiamo fatta grossa" di Carlo Verdone ha un bellissimo inizio: un attore drammatico che per un eccesso di identificazione col personaggio che interpreta si blocca. Insomma recitiamo soltanto nella vita: potrebbe essere questo il senso del film che vede recitare insieme Verdone e Albanese, il primo nei panni di un investigare, il secondo in quelli di un attore in crisi. "L'abbiamo fatta grossa" è infatti un'avventurosa girandola di continui mascheramenti e colpi di scena in cui la tragedia e la farsa, come il teatro e la vita finiscono per identificarsi. L'astratta e surreale maschera comica di Albanese dà perfino un favolistico ad un film comico seppure senza lieto fine. Mai forse Verdone era riuscito a toccare come in questo film con la sua regia e non solo con la solita maschera "buona" del suo personaggio sempre timido e ingenuo, le corde della purezza e della poesia. Come quello dell'attore interpretato da Albanese anche il suo personaggio vive ai margini di un mondo assurdo e feroce: il comico si nasconde in questa estrema, irriducibile vitalità di chi nella solitudine e nella precarietà vive ai margini, continuando a "recitare" la vita. Ai margini di un mondo dominato dal denaro, dal suo potere e dal suo potere di corruzione ma anche dalla sua fantasmatica inattingibilità, come sembrano volerci suggerire le gags sulle banconote non "scambiabili" di 500 euro e le tragicomiche peripezie di una valigetta involontariamente rubata piena di soldi. Non a caso Verdone e Albanese finiranno in carcere, nel luogo estremo della marginalità e dell'esclusione, la loro avventura. Il film inizia con il blocco sulla scena di Albanese e termina con la recitazione in carcere da parte di quest'ultimo del celeberrimo passo del "Macbeth" di Shakespeare in cui la vita viene "definita la storia narrata da un idiota senza significato." Come nessun altro, il drammaturgo inglese ci ha insegnato come il tragico si mescoli al comico e la vita al teatro. Perciò i due personaggi apparentemente ostili e opposti l'uno all'altro si scopriranno identici: l'attore si farà "investigatore" e l'investigatore attore e entrambi finiranno addirittura per fingersi una coppia gay. Non vedremo i due comici uscire dal carcere in cui come nella "storia narrata da un idiota" assurdamente e ingiustamente sono finiti e tuttavia una loro comicissima e liberatoria pernacchia, geniale metafora dell'impotenza e insieme della potenza del comico, "libera" almeno per un attimo i due comici e con loro noi stessi. Perfino dietro le sbarre di un carcere, il teatro può essere "il luogo della redenzione" per dirla con Benjamin.

Salvatore Tinè

giovedì 21 gennaio 2016

Orestiade


Al Verga di Catania per le Coefore/Eumenidi di Eschilo. Esco felice dal teatro, dopo uno spettacolo pensato per coinvolgere direttamente la platea degli spettatori, fare di essa lo stesso Tribunale dell'Areopago con la cui istituzione da parte di Atena si chiude l'immensa trilogia di Eschilo. Ma nello spettacolo di De Fusco la finale assoluzione di Oreste è seguita da uno struggente canto di speranza intonato davanti ai giudici-spettatori, da uomini e dei. De Fusco accentua al massimo con una imponente messa in scena la grandiosità del testo di Eschilo, l'enormità dei temi che scandiscono una vicenda terribile volgendo al futuro, nel senso della speranza in una nuova possibile rifondazione politica e non più soltanto religiosa della "Giustizia", l'apparente "lieto fine". Splendida l'interpretazione di Oreste da parte di Giacinto Palmarini per la moderna evidenza con cui ci restituisce tutta l'umana fragilità di Oreste, eroe deciso all'azione e insieme schiacciato dall'urto delle sovrastanti potenze del mito e degli dei. Eppure è piuttosto il declino di tale potenze, il loro finale risolversi nella promessa di una giustizia tutta umana e "terrestre" che De Fusco sembra volerci suggerire non solo nell'emozionante finale ma anche nella lunga scena del processo ad Oreste e del dibattimento. La superiore "visione" umana del cinema cui ci rimandano le immagini filmiche proiettate sulla scena ha sostituito per sempre lo sguardo dall'alto degli dei. La luce che improvvisamente illumina il pubblico, al momento in cui Atena sceglie tra i "migliori cittadini" coloro che saranno chiamati ad un giudizio insolubile perfino per gli dei, rompe la separazione tra scena e pubblico evidenziando la natura tutta politica del dibattito e dello scontro tra uomini e dei che scandisce l'Orestiade. Si direbbe che è proprio la rottura di tale separazione a segnare insieme alla nascita di una giustizia politica, perchè decisa dagli uomini, quella del teatro come luogo della "polis" per eccellenza. In questo senso la splendida visione cinematografica della distruzione della statua di Atena davanti ad Oreste "supplice" è da intendersi non in senso "pessimistico" ma come l'immagine del declino degli dei e dell'avvento di una giustizia fondata sugli uomini e sulla libertà della loro decisione razionale.

giovedì 14 gennaio 2016

Per Franco Citti



Se ne va Franco Citti. Proprio quest'anno, poche ore dopo essere passato da Ponte Testaccio dove moriva Accattone, ho rivisto il primo film di Pasolini. Non credo di esagerare se dico che il volto di Franco Citti e i tantissimi primi piani su di esso che scandiscono il film sono non solo ciò che più fortemente si è impresso nella mia memoria personale di quell'opera ma anche ciò che di più bello e di più poeticamente puro, assoluto Pasolini ci abbia regalato. La morte di Accattone per incidente sul Ponte Testaccio chiudeva circolarmente il film che iniziava con il suo tuffo sul Tevere da Ponte Sant'Angelo, una sfida alla morte e insieme una sorta di battesimo purificatorio. La morte sfidata e perciò stesso evocata dell'inizio e quella subita e insieme cercata e voluta della fine racchiudono il senso di una "vita violenta": Ma la rabbiosa, disperata, amorale vitalità di Accattone è tutta risolta nel volto e nel corpo esausto e sofferente di Franco Citti, forse il più "cattolico" e "cristologico" dei tanti corpi che affollano le immagini del cinema di poesia pasoliniano: non a caso è la croce di un angelo che vediamo accanto ad Accattone prima del suo tuffo nel Tevere e un segno della croce accompagna e commenta l'immagine del volto e del corpo morenti di Franco Citti sul ponte Testaccio, nell'ultima inquadratura del film.

Salvatore Tinè

sabato 9 gennaio 2016

Un'arcana affinità


"Uno vicino all'altra, riposano insieme gli amanti. Aleggia pace sulle loro tombe, e dalla volta li guardano figure d'angeli serene, d'arcana affinità: e che momento felice, quando un giorno si ridesteranno insieme." E' la conclusione de "Le affinità elettive" di Goethe, nel segno della speranza, della "redenzione". Meno evidente che in altre pagine, appare in questa chiusa del libro, il cosiddetto "paganesimo" dello scrittore tedesco, il suo "spinozismo", la sua celebrazione dell'identità tra Dio e Natura. Meno evidente, ma forse non meno presente. Quella "redenzione" potrebbe intendersi, infatti, in un senso tutt'altro che "cristiano" o "ebraico-cristiano". Non ad una salvezza ultraterrena essa allude ma ad una "redenzione" della stessa Natura, finalmente riconciliata con l'uomo, con l'umanità, con l'umanità finalmente "ridestata", cosciente di sé, risvegliatasi dal "sonno" del "mito", emancipata dalle sue potenze. Una "redenzione" certo, ma nel segno della storia,  dell'avvento, cioè, di quel "comunismo" che spinozianamente il giovane Marx definiva compiuto "naturalismo" perchè compiuto "umanismo". E' questa identità da riportare alla coscienza, ancora da compiersi sebbene già data, "l'arcana affinità" che unisce Ottilia ed Edoardo, la stessa che, ancora oscura e inconscia perchè soltanto "elettiva" li ha portati all'amore e alla morte.

Salvatore Tinè

Chiedi a Lui


"Sottomissione e riconoscimento" è il titolo di una splendida poesia di Giudici. E' un dialogo con lei ma anche con lui, con Dio. Il poeta ha messo ora lei al posto di lui, sostituendo la "vita" alle cartesiane "cogitationes" che lo hanno fino a quel momento assorbito. Il passaggio da Lui a Lei è pur sempre uno scambio di "persona", per il quale tuttavia è la propria "persona" ad essere scambiata. E' lo stesso senso di colpa che lo porta ora a confessare a lei il suo permanente desiderio di "servitù" e la donna appare non meno di "Dio" senza misura, inattingibile e perfino invisibile anche quando viene toccata, afferrata con le mani, come se il suo corpo nonostante il suo apparente "esserci", non fosse conoscibile e godibile che a pezzi mai nel suo intero, nella sua totalità, a qualsivoglia "immagine" finita irriducibile. "Cerco di rivoltarti /Stringerti - ma cosa chiedo/ Ai tuoi occhi/Un te stessa invisibile benché/Ti tocco pezzo a pezzo mi ripeto 'sei qui'/ Ti misuro nel chiuso delle mie mani" Eppure, a dispetto di tale clamorosa diseguaglianza, asimmettria dei sessi non meno incolmabile di quella che separa l'uomo dalla persona divina, un'ansia di rispecchiamento, di riconoscimento nella donna tanto amata quanto "sconosciuta", segna il rapporto con lei, come la chiusa della poesia ci rivela. "Dov'era lui- ci sei tu." Ma è difficile non pensare che il "lui" non sia più Dio ma piuttosto lo stesso Giudici, il suo stesso "io", il suo cartesiano "essere certo" di sé. Dove c'è Lei-insomma- ( "vita del nostro morire") non ci siamo più noi.
Salvatore Tinè

SOTTOMISSIONE E RICONOSCIMENTO
Cerco di ridurti
A mia immagine - ma fossi
Tu la pace che è il tuo corpo
Quando 'fammi il mare' ti supplico
Sotto o sopra la pancia - non si sa bene chi dei due
E' acqua o barca
Cerco di rivoltarti
Stringerti - ma cosa chiedo
Ai tuoi occhi
Un te stessa invisibile benché
Ti tocco pezzo a pezzo mi ripeto 'sei qui'
Ti misuro nel chiuso delle mie mani
Cerco di fermarti
Nel caso che 'è così bello' sospiri
E ti vorresti poi mordere la lingua
Di troppa tenerezza -
O sul prato di Vienna il singhiozzante
Tuo inciampare di fiamminga
E ore e ore battere
Le tue peregrinazioni - parlare
Tuoi pensieri - a un immaginario telefono di legno
Un tuo segno sperare - nel mio
Essere certo imprigionarti
Sconosciuta come Dio
Quando ti dico- vita
Del mio morire
Un tempo era lui che assorbiva tutte le mie cogitazioni
La sua camminata misurava ogni passo della mia
E per questo nessuno o nessun'altra poteva
Abitare nel cuore che per lui solo batteva
Il che potrebbe spiegarsi con un mio antico bisogno
Di colpa di confessione e di servitù
Esso rimane e passano persone sulla scena
Dov'era- ci sei tu
(G. Giudici, "Il male dei creditori")

martedì 5 gennaio 2016

Le amiche


Rivedo "Le amiche". L'ultima immagine mi pare quella che riassume questo film: di Carlo nascosto alla stazione di Torino guarda Clelia lasciare definitivamente la città. Un incontro mancato che non può non richiamare quello tra Alain Delon e la Vitti che che chiude "L'eclisse". Eppure qui siamo ancora molto al di qua di quella totale, inquietantissima "eclisse" dei sentimenti che chiudeva la cosiddetta "trilogia dell'incomunicabilità". E' ancora piuttosto il tema della solitudine al centro del film, indagata da Antonioni in una chiave tutta femminile. In questo senso quello di Clelia mi pare il personaggio più vero e riuscito. Rifiuta un amore non per cinismo o aridità ma per il sentimento della propria vita e della propria libertà. Il medesimo sentimento che l'ha strappata per sempre dalle radici nella sua Torino, rendendo così impossibile il suo amore per un uomo "semplice" a quelle stesse radici rimasto legato. Quando invece l'amore delle altre "amiche" resiste, come nel caso dell'artista Nene che per amore resta a Torino rinunciando a fuggire in America, è la sua tristezza ad emergere nelle parole e nelle immagini di Antonioni. Il suicido di Rosetta è il momento della verità nel film: esso mette a nudo insieme ai sentimenti delle amiche la loro solitudine e precarietà. Così la carezza di Nene, nell'ultima scena che la vede con il suo amatissimo pittore Lorenzo, anticipa la carezza dell'ultima scena de "L'avventura" e non è certo l'immagine di una riconciliazione ma quella di un amore tanto sofferto e perfino materno quanto colpevole e triste.

Salvatore Tinè

domenica 3 gennaio 2016

Primo amore.


L'amore come rinnovamento e insieme straniamento. Il "primo amore" è solo quello vero perchè in esso ci scopriamo al fondo per la prima e forse anche ultima volta stranieri a noi stessi, "schiavi" avvinti ad un segreto racchiuso dentro di noi, proprio perchè parte di noi, come il nostro stesso "sangue". E' la violenza di questo straniarsi, di questa perdita di noi stessi e della libertà, in una pace solo apparente che Ungaretti sembra evocare in "Primo amore". Questa estraneità dell'intimo, ovvero di ciò che è più interno a noi stessi è il "primo amore".
Era una notte urbana,
Rosea e sulfurea era la poca luce
Dove, come da un muoversi dell'ombra,
Pareva salisse la forma.
Era una notte afosa
Quando improvvise vidi zanne viola
In un'ascella che fingeva pace.
Da quella notte nuova ed infelice
E dal fondo del mio sangue straniato
Schiavo loro mi fecero segreti.