mercoledì 5 ottobre 2016
La fionda di Samuele.
Rivedo in Tv "Fuocoammare". Pochi giorni fa Sorrentino dichiarava che l'opera di Rosi non è un film ma un documentario. Colpisce l'incredibile ingenuità di tale affermazione. "Fuocoammare" è un'opera di puro cinema, proprio per la sua capacità di rendere significante, metafora poetica l'immagine nuda e cruda della realtà, della realtà delle cose come di quella degli uomini. Lo stesso racconto, un piccolo romanzo di formazione che vede protagonista un bambino di nome Samuele nato e vissuto a Lampedusa è tutto risolto, oggettivato nelle immagini, spesso perfino nella loro pura fissità fotografica. Il cinema di Rosi sembra infatti voler fissare le immagini, fermarne l'incanto e rappresentare il movimento che in genere si crede ciò che vi è di più essenziale al cinema, o attraverso montaggio che lega tra loro le singole inquadrature in un misterioso gioco di rimandi o attraverso il solo muoversi e vivere dei personaggi per così dire "dentro" immagini ferme che li comprendono e inglobano. Questa fissità delle inquadrature sembra rimandare del resto a quella stessa dell'isola e della vita che quotidianamente vi si svolge. Neanche la tragedia e l'orrore degli sbarchi sembrano turbarla, come se solo lo sguardo "storico" del regista, in virtù della sua "oggettività" apparentemente documentaristica fosse in grado di accostare, vedere insieme l'odierna tragedia di chi scampato alla morte approda in quell'isola e la vita quotidiana dei marinai e dei pescatori che vi vivono da sempre. Uno sguardo in questo senso antitetico a quello del bambino, il cui "occhio pigro" sembra non accorgersi nemmeno dei tragici sbarchi che avvengono nell'isola, e la cui vita sembra scorrere felice in un rapporto quasi primordiale con l'aspra natura di Lampedusa, ben al di qua della costa che separa la terra dal mare. Eppure il montaggio del film, la sua visione "intellettuale" non cessa di intrecciare i due sguardi. Così la fragile vita che pulsa invisibile nel grembo materno di una donna sbarcata dopo un terribile viaggio nell'isola, che lo sguardo solidale di un medico ci mostra attraverso lo schermo di una ecografia, ci rimanda al respiro affannoso, all'ansia di vita del bambino protagonista del film e ci dice qualcosa del lato non solo misterioso ma forse perfino oscuro e violento del suo puro slancio vitale. E la fionda, arma da gioco prediletta del bambino, metafora del suo io infantile, della sua chiusura e insieme del suo rapporto ludico e aggressivo col mondo che viene scoprendo ogni giorno, rimanda alle "armi" vere che circondano l'isola, alle navi da guerra rievocate dalla nonna del bambino come a quelle che vediamo "vigilare" i confini di Lampedusa nei nostri giorni. La tragedia storica dei migranti nulla muta nella vita dell'isola ma forse soltanto perchè da sempre ne ha fatto parte, come già nascosta nella inconscia, già "naturalizzata", silenziosa memoria collettiva dei suoi marinai. E il silenzio straniante del fondo del mare in cui vediamo un sub cercare i corpi morti dei migranti è forse quello stesso di questa memoria. Lo sguardo storico di Rosi e quello ancora "ingenuo" del bambino cospirano così entrambi a restituirci un unico spazio e insieme in un unico tempo e l'isola nell'eterno rapporto tra mare e terra, tra natura e storia che ha da sempre scandito la sua vita passata e che continua a scandire quella di Samuele si fa struggente metafora poetica di questo convergere di spazio e tempo, della vita degli uomini e della loro storia.
Salvatore Tinè
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