domenica 16 ottobre 2016

Per Dario Fo


Trascorro l'intero pomeriggio vedendo a Rai Scuola "Le lezioni sulla commedia dell'arte" di Dario Fo. Rimango sorpreso dalla capacità dell'arte affabulatoria di Fo di incollare me, mia madre e mia sorella per circa 6 ore consecutive davanti alla televisione. Vien fatto di riflettere sul concetto di "lezione". Fo, riprendendo ma soprattutto sviluppando in modo personale il grande insegnamento di Brecht, trasforma, il teatro, per l'appunto, in una "lezione" di teatro. Ma l'apparente paradosso è che soltanto così, ovvero stabilendo un rapporto diretto con gli spettatori e quindi facendo di questi ultimi i veri e propri protagonisti dell'evento teatrale, il teatro trova il suo movimento, il suo ritmo proprio. Il racconto e la "lezione" interrompono continuamente la "recitazione" vera e propria dell'unico attore che si muove in una scena vuota, facendosi tuttavia proprio così essi stessi  momenti fondamentali dello spettacolo, scandendone rigorosamente tempi e ritmi. E' questa apparente interruzione della continuità dello spettacolo a rompere la passività degli spettatori. Questi ultimi in tanto possono "sincronizzarsi" con lo spettacolo e viverlo in quanto l'attore stesso parlando e conversando con loro ne corso della "lezione" ne spiega e disvela la costruzione, ne rivela il montaggio e la tecnica con cui è stato e viene costruito. L'effetto comico scaturisce proprio da questa operazione di montaggio che avviene dinanzi agli spettatori, quasi a confermare la teoria bergsoniana del riso che nel comico vede appunto una interruzione del flusso vitale, la sua "meccanizzazione". Fo ci spiega infatti come il ritmo e il movimento del teatro siano propri di una meccanica, di una vera e propria macchina, creata molto prima che l'arte e la tecnica del cinema scoprissero il montaggio delle inquadrature. In tal senso, la metafora più esatta per dare il senso della concezione del teatro che Fo ci propone è forse quella, chapliniana", della "catena di montaggio". Come la fabbrica fordista frammenta il lavoro dell'operaio meccanizzandolo completamente, allo stesso modo il teatro di Fo disarticola il movimento del corpo dell'attore sulla scena in una serie di gesti staccati ma solo per rimontarli secondo un'altra logica, un altro tempom ovvero un'altra meccanica, per così dire mutata di segno, in grado di liberare il gesto, in tutta la sua potenza espressiva, in tutto il suo slancio vitale e liberatorio. Perfino lo spazio della scena viene disarticolato e ricomposto dal corpo di Fo secondo il diverso tempo che ritma i gesti come l'affabulazione spesso affidata non alla parola significante ma ai puri suoni della voce, L'effetto comico non è in fondo diverso da quello dei gesti meccanici del corpo di Chaplin in "Tempi moderni" la cui vita, insopprimibile, continuava a pulsare pur dentro la macchina che la comprimeva e stritolava. Ma nel teatro di Fo l'effetto comico si fa anche musicale. Una vera e propria musica infatti scaturisce dal tempo puramente meccanico e fisico in cui Fo risolve il teatro, riportandolo alla sua origine pura, assoluta. Il carattere politico del teatro non consiste tanto nei suoi espliciti contenuti ideologici, qui peraltro perfino assenti, ma piuttosto nell'effetto fisico e liberatorio che il puro ritmo musicale dell'affabulazione insieme all'armonia solo sonora, fonetica del grammelot producono immediatamente negli spettatori, nello stesso momento in cui essi sono richiamati ad un rapporto non più inerte e passivo ma attivo e consapevole con il teatro e lo spettacolo. E' in questo rapporto attivo tra spettatori e spettacolo, in questo sincronico "respirare" insieme di attori e spettatori che Fo sembra far consistere la  celebre "epicità" di Brecht. Nella "lezione di teatro", la macchina spettacolare coinvolge gli spettatori svelando la sua tecnica e i suoi trucchi. Lo spettacolo mette in scena se stesso e insieme la sua autocritica. Ma così è la macchina stessa che sta dietro il potere, le sue maschere, i suoi inganni le sue liturgie, il suo "teatro", che viene insieme svelata e denunciata dinanzi alla risvegliata coscienza del pubblico, adesso finalmente anche "attore". L'epicità riporta così il teatro alle sue origini nella "commedia dell'arte" di Fo, celebrandone l'immane potenza critica nei confronti del potere e del teatro del potere.

Salvatore Tinè

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