lunedì 8 febbraio 2016

L'abbiamo fatta grossa


"L'abbiamo fatta grossa" di Carlo Verdone ha un bellissimo inizio: un attore drammatico che per un eccesso di identificazione col personaggio che interpreta si blocca. Insomma recitiamo soltanto nella vita: potrebbe essere questo il senso del film che vede recitare insieme Verdone e Albanese, il primo nei panni di un investigare, il secondo in quelli di un attore in crisi. "L'abbiamo fatta grossa" è infatti un'avventurosa girandola di continui mascheramenti e colpi di scena in cui la tragedia e la farsa, come il teatro e la vita finiscono per identificarsi. L'astratta e surreale maschera comica di Albanese dà perfino un favolistico ad un film comico seppure senza lieto fine. Mai forse Verdone era riuscito a toccare come in questo film con la sua regia e non solo con la solita maschera "buona" del suo personaggio sempre timido e ingenuo, le corde della purezza e della poesia. Come quello dell'attore interpretato da Albanese anche il suo personaggio vive ai margini di un mondo assurdo e feroce: il comico si nasconde in questa estrema, irriducibile vitalità di chi nella solitudine e nella precarietà vive ai margini, continuando a "recitare" la vita. Ai margini di un mondo dominato dal denaro, dal suo potere e dal suo potere di corruzione ma anche dalla sua fantasmatica inattingibilità, come sembrano volerci suggerire le gags sulle banconote non "scambiabili" di 500 euro e le tragicomiche peripezie di una valigetta involontariamente rubata piena di soldi. Non a caso Verdone e Albanese finiranno in carcere, nel luogo estremo della marginalità e dell'esclusione, la loro avventura. Il film inizia con il blocco sulla scena di Albanese e termina con la recitazione in carcere da parte di quest'ultimo del celeberrimo passo del "Macbeth" di Shakespeare in cui la vita viene "definita la storia narrata da un idiota senza significato." Come nessun altro, il drammaturgo inglese ci ha insegnato come il tragico si mescoli al comico e la vita al teatro. Perciò i due personaggi apparentemente ostili e opposti l'uno all'altro si scopriranno identici: l'attore si farà "investigatore" e l'investigatore attore e entrambi finiranno addirittura per fingersi una coppia gay. Non vedremo i due comici uscire dal carcere in cui come nella "storia narrata da un idiota" assurdamente e ingiustamente sono finiti e tuttavia una loro comicissima e liberatoria pernacchia, geniale metafora dell'impotenza e insieme della potenza del comico, "libera" almeno per un attimo i due comici e con loro noi stessi. Perfino dietro le sbarre di un carcere, il teatro può essere "il luogo della redenzione" per dirla con Benjamin.

Salvatore Tinè

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