lunedì 29 febbraio 2016

Fuocoammare


Al "Greenwich" di Roma per "Fuocoammare" di Gianfranco Rosi. Il film mi piace molto. C'è una idea di cinema in esso, che cerca di cogliere la verità delle cose nelle "cose stesse". La vita quotidiana dei marinai e dei pescatori di Lampedusa che sembra scorrere eguale a se stessa da sempre e la tragedia dei migranti del nostro tempo che sbarcano sulle coste di quell'isola procedono parallelamente come ignorandosi, due "isole" nell'isola. Rosi sembra lasciare al giudizio di chi guarda il film il "senso" possibile di questo loro sempre mancato incontro. Non è chiaro infatti cosa accomuni veramente la vita di un bambino, figlio di un marinaio, sulle coste di quell'isola, la sua insopprimibile vitalità e quella dei tanti bambini africani che sbarcano a Lampedusa vivi o già morti. Eppure sembrerebbe proprio questo accostamento, in apparenza puramente "documentaristico", tra la normale "quotidianità" della vita di un bambino nato in quell'isola e l'altrettanto "normale" quotinianità della tragedia dei bambini che vi sbarcano, il vero tema del film. L'occhio pigro del bambino di Lampedusa è in questo senso una metafora di questa "invisibilità" della tragedia quando essa si fa quotidiana e insieme così prossima a noi. Il cinema è documentario, perchè è l'occhio non più "pigro" che si getta nella realtà più immediata e vicina e proprio per questo più "invisibile", facendosi tutt'uno con essa. Questo senso della prossimità dello sguardo, e non certo la sua presunta neutrale oggettività, mi pare costituire il tono poetico di fondo dell'opera di Gianfranco Rosi, la "pietas" profonda che la attraversa. Così, via via, il respiro affannoso, l'"ansia" del bambino che scorazza con la sua fionda primordiale per le campagne dell'isola, indotta dalla sua stessa prepotente vitalità, rimanda a quel rischio del mare che lo splendido "rap" gridato da un giovane immigrato africano, identifica con lo stesso "rischio" del vivere. Come il sub che vediamo immergersi nelle acque dell'isola, anche lo sguardo di Rosi sembra volersi "immergere" nella realtà e cercarvi anche attraverso le immagini di più assoluto dolore le scaturigini più profonde della vita e della speranza che sempre vi si accompagna. In una sequenza del film vediamo un medico dell'isola cercare di individuare il sesso di uno dei bambini ancora dentro l'utero di una giovane donna immigrata e che l'assurdo viaggio per mare ha finito per aggrovlgliare tra loro. Ed è a questa immagine di vita superstite eppure iniziale che ci riporta alla fine del film a quella stessa dei corpi morti degli immigrati aggrovigliati tra loro nella stiva di una nave.

Salvatore Tinè

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