martedì 21 aprile 2015
L'epigrafe al primo aforisma di "Strada a senso unico" di Walter Benjamin: "Questa strada si chiama VIA ASJA LACIS dal nome di colei che da INGEGNERE l'ha aperta dentro l'autore". Ecco la strada che apre l'amore per una donna, viene fatto di pensare, leggendo l'aforisma: una strada a "senso unico" aperta dentro di noi, ma forse, come quella che porta, porterà (sebbene non noi), al comunismo, anche fuori di noi. Chiamiamo "utopia" il convergere di queste due strade.
Salvatore Tinè
sabato 18 aprile 2015
Mia madre
“Mia madre” di Nanni Moretti. Difficile
scrivere del film subito dopo averlo visto. E' forse l'opera più intimamente,
soffertamente autobiografica del regista romano. Più infatti che in ogni altro
film l'autobiografismo spesso perfino scopertamente "diaristico" di
Moretti, scava qui nel dolore, nella sofferenza più lancinante. Non lo strazio
fisico del dolore che esplode come in un grido, come ne "La stanza del
figlio" ma la tristezza, la cupezza di un dolore muto e fondo dominano
infatti in "Mia madre". Felice tuttavia la
scelta di Moretti di "distanziare" una materia sentimentale così
forte e incandescente decidendo di raccontarla attraverso il filtro di un
personaggio femminile, una regista, che sta girando un film di forte impegno
politico e sociale sul tema del lavoro e della lotta per la sua difesa e
dignità. La madre malata e morente è una
professoressa di latino e greco, una donna solida e forte nella cui vita i valori
antichi di quelle lingue “morte” hanno continuato a vivere, dando valore e
senso alla sua vita di donna e di madre. Difficilissimo, tuttavia appare alla
figlia, sotto il peso e la fatica del dolore. il
compito di raccogliere e continuare a far vivere questa preziosa eredità
materna, che si imporrà alla morte della madre, come “ripetendo” ma in un mondo
e in contesto del tutto stravolti e mutati ciò di cui lei era stata capace. Di
qui la fatica di insegnare alla propria figlia la lingua e le “parole” latine
della propria madre. Ancora una volta Moretti ci ricorda come in “Palombella
rossa” che “le parole sono importanti”. La malattia e la morte scandiscono le
scene che raccontano la vita della regista, mentre nelle sequenze che raccontano
il set e quindi il suo "lavoro" la vita si intreccia strettamente
fino a confondersi con la finzione, con l'artificio del cinema. Viene in mente
Cocteau che una volta definì il cinema "la morte al lavoro". E
Moretti in alcune sequenze che vedono come protagonista l'attore John Turturro
nei panni dell'attore e quindi di se stesso sembra parlarci proprio nel
contesto di un film che riporta la morte "nel" cinema, della morte
"del" cinema. La scena in cui sullo sfondo di una Roma notturna e
deserta per niente felliniana, Turturro accenna al motivo di Rota che
commentava "Le tentazioni del dottor Antonio" gridando dal finestrino
il nome di Peppino De Filippo non ci parla tanto della nostalgia del cinema ma
della sua morte, ovvero della perdita del suo senso, della sua funzione ridotta
a mera finzione. Fuori dal set, l'ingegnere interpretato da Moretti, fratello
della regista sembra per tutto il film molto più "dentro" la realtà
che la sorella. La sua "razionalità" da "ingegnere" si
contrappone ma teneramente all'incoercibile tendenza della sorella a negare la
realtà o a fuggire da essa nell'evasione del cinema, come al suo apparente
egoismo, alla sua inadeguatezza e fragilità. Ma alla fine anche l'ingegnere
"getta la spugna" e lascia il lavoro in una scena tristissima in cui
sembra che sia piuttosto Moretti a gettare la maschera oltre che la spugna.
Impossibile non ricordare la scena in cui felice ballava per strada nel
"Caro diario" dello "splendido quarantenne" guardando la
scena di "Mia madre" in cui John Turturro festeggia con la troupe con
un ballo sensualissimo che sa di amore e di vita. Il cinema si fa così ancora
una volta "diario". Un diario che come tale non può non raccontare la
perdita e il dolore ma il cui ritmo è pur sempre quello lento e eguale della
fatica di vivere e del quotidiano lavoro. Moretti lascia il lavoro sfinito,
annientato dall'immane dolore della perdita ma è con il "domani"
evocato dall'ultima parola della madre già morta che il film si concluderà.
Salvatore Tiné
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