Rivedo La notte di Michelangelo Antonioni, riproposto dalla Rai per ricordare
Jeanne Moreau. Mi viene in mente guardandolo “Deserto rosso” un film che il suo
stesso autore definì “senza sentimenti”. “La notte”, infatti, mi appare un film
senza personaggi. O meglio una storia in cui i personaggi pur apparendo quasi
come fantasmi, come brochiani "sonnambuli" potrebbero anche non esserci. La storia d’amore
tra lo scrittore Giovanni e sua moglie
Lidia è già finita all’inizio del film anche se Antonioni ce lo dice alla fine.
Nessuno sviluppo psicologico dunque può darsi, nessun tempo interiore può
svolgersi. Perciò il film può svolgersi
solo attraverso immagini, immagini riempite di cose, di oggetti. Ecco forse il
tema, l’unico veramente nuovo e originale di questa opera di Antonioni: quello
della “reificazione”, ovvero della realtà ridotta a cose, al loro feticismo,
per dirla col vecchio Marx, private ormai di ogni senso apparente, come di ogni
significato che le trascenda. Il cinema ha detto Lukacs è l’unica arte in cui “l’atmosfera
emana direttamente dagli oggetti”. In questo senso nessuno come Antonioni ne ha
colto meglio, il senso, l’essenza stessa. Se il cinema è “movimento”, si tratta
di un movimento di cose, di un tempo fatto di cose, più che di sentimenti, di
stati d’animo. Il cinema è in questo senso l’arte meno proustiana che possa
immaginarsi. Certo le immagini della Milano del boom economico che scorrono
davanti al nostro sguardo come in un flusso continuo ci mostrano una realtà
composta di “cose” prevalentemente artificiali, ovvero prodotte dall’uomo, dal
lavoro da lui progettato e pianificato. Lo sguardo di Antonioni appare ora
angosciato, ora affascinato dalle forme eleganti degli edifici e delle strade
che scandiscono un paesaggio urbano senza più “luoghi” e storia. Nel tempo vuoto dentro il quale scorre la vita
a Milano la realtà appare completamente solida e concreta, tutta rappresa nelle
cose e nelle forme che le chiudono. Niente
di più apparentemente lontano ed estraneo al lavoro “immateriale” dell’apatico
e svuotato scrittore “in crisi” protagonista del film, Giovanni Pontano. Nulla
sappiamo dei motivi “interiori” della sua crisi. Antonioni non vi accenna mai,
forse perché sarebbe inutile analizzarli in un universo in cui il “lavoro”
della scrittura appare totalmente anacronistico rispetto a quello finalizzato
alla produzione di cose e merci che avvolge e domina l’intero spazio della
città. E tuttavia la prospettiva di Antonioni non è banalmente pessimistica. “Io
non ho bisogno di scrivere, mi basta guardare” fa dire alla giovane Valentina,
proprio nel corso di un colloquio con lo scrittore. Nel mondo totalmente
mercificato del capitalismo, lo “sguardo” sulle cose può consentire di
cogliervi un senso, perfino “umano” nel loro apparentemente autonomo mostrarsi
e imporsi alla nostra vita e al nostro tempo. E’ quanto in fondo sembra
suggerirci anche l’assurdo vagabondare senza meta della moglie in crisi dello
scrittore lungo le strade della periferia di Milano: il suo sguardo sulle cose
è animato dal senso di un’apertura ad esse, dalla tensione di una ricerca o di
un’attesa e non solo da una vana ansia di fuga. E lo stesso vuoto scorrere del
tempo nella città così efficacemente restituito da Antonioni ora attraverso il
ritmo straniante del montaggio, ora attraverso lente inquadrature, non manca di
proiettarci proprio in virtù della permanente precarietà e inafferrabilità del
presente e del cancellarsi di ogni passato e memoria che lo scandiscono verso
un futuro possibile, non ancora conoscibile. “Io voglio organizzare il futuro”
dice a Giovanni l’industriale lombardo, padre della giovane ragazza, che vorrebbe
assumerlo nella sua azienda. Non sappiamo se lo scrittore accetterà la
proposta. Né Antonioni ci dice o può dirci se il senso della solidità del
lavoro e delle cose in fondo ancora legato ai valori di una certa storia e
tradizione che emerge dalle parole dell’industriale potrà costituire la base di un qualche futuro
o sia solo un modo di accettare un presente incompreso e incomprensibile. Del resto "la notte" è la metafora visiva della possibilità di un tempo altro rispetto a quello vuoto del "giorno" lungo il quale si svolge la prima parte del film: tra la fine di un giorno e l'inizio dell'altro, la notte sospende il tempo e solo in questa sospensione qualcosa può ancora veramente accadere, non solo nel mondo immobile delle "cose" ma perfino nella svuotata interiorità dei personaggi. Così nella catastrofe finale, alle prime luci dell'alba, la moglie
dello scrittore gli rivelerà la fine del suo amore, ponendo fine ad un altro
frammento del suo passato da lui del resto già dimenticato. L’interminabile lettera d’amore dello scrittore alla
moglie che quest’ultima legge al marito che niente ricorda di essa è una
metafora terribile di un tempo senza più memoria o di una memoria senza più
tempo. Finita la notte, ripreso il ritmo eguale del tempo, più nessun amore sembra scorrere tra i loro corpi tesi
ed esausti, come sperduti nell'enorme spazio di un parco nella luce livida di
un’alba angosciosa. Eppure è col loro disperato avvinghiarsi, che termina il
film.
Salvatore Tinè