martedì 1 agosto 2017

La notte


Rivedo La notte di Michelangelo Antonioni, riproposto dalla Rai per ricordare Jeanne Moreau. Mi viene in mente guardandolo “Deserto rosso” un film che il suo stesso autore definì “senza sentimenti”. “La notte”, infatti, mi appare un film senza personaggi. O meglio una storia in cui i personaggi pur apparendo quasi come fantasmi, come brochiani "sonnambuli" potrebbero anche non esserci. La storia d’amore tra lo scrittore Giovanni  e sua moglie Lidia è già finita all’inizio del film anche se Antonioni ce lo dice alla fine. Nessuno sviluppo psicologico dunque può darsi, nessun tempo interiore può svolgersi.  Perciò il film può svolgersi solo attraverso immagini, immagini riempite di cose, di oggetti. Ecco forse il tema, l’unico veramente nuovo e originale di questa opera di Antonioni: quello della “reificazione”, ovvero della realtà ridotta a cose, al loro feticismo, per dirla col vecchio Marx, private ormai di ogni senso apparente, come di ogni significato che le trascenda. Il cinema ha detto Lukacs è l’unica arte in cui “l’atmosfera emana direttamente dagli oggetti”. In questo senso nessuno come Antonioni ne ha colto meglio, il senso, l’essenza stessa. Se il cinema è “movimento”, si tratta di un movimento di cose, di un tempo fatto di cose, più che di sentimenti, di stati d’animo. Il cinema è in questo senso l’arte meno proustiana che possa immaginarsi. Certo le immagini della Milano del boom economico che scorrono davanti al nostro sguardo come in un flusso continuo ci mostrano una realtà composta di “cose” prevalentemente artificiali, ovvero prodotte dall’uomo, dal lavoro da lui progettato e pianificato. Lo sguardo di Antonioni appare ora angosciato, ora affascinato dalle forme eleganti degli edifici e delle strade che scandiscono un paesaggio urbano senza più “luoghi” e storia.  Nel tempo vuoto dentro il quale scorre la vita a Milano la realtà appare completamente solida e concreta, tutta rappresa nelle cose e nelle forme che le chiudono.  Niente di più apparentemente lontano ed estraneo al lavoro “immateriale” dell’apatico e svuotato scrittore “in crisi” protagonista del film, Giovanni Pontano. Nulla sappiamo dei motivi “interiori” della sua crisi. Antonioni non vi accenna mai, forse perché sarebbe inutile analizzarli in un universo in cui il “lavoro” della scrittura appare totalmente anacronistico rispetto a quello finalizzato alla produzione di cose e merci che avvolge e domina l’intero spazio della città. E tuttavia la prospettiva di Antonioni non è banalmente pessimistica. “Io non ho bisogno di scrivere, mi basta guardare” fa dire alla giovane Valentina, proprio nel corso di un colloquio con lo scrittore. Nel mondo totalmente mercificato del capitalismo, lo “sguardo” sulle cose può consentire di cogliervi un senso, perfino “umano” nel loro apparentemente autonomo mostrarsi e imporsi alla nostra vita e al nostro tempo. E’ quanto in fondo sembra suggerirci anche l’assurdo vagabondare senza meta della moglie in crisi dello scrittore lungo le strade della periferia di Milano: il suo sguardo sulle cose è animato dal senso di un’apertura ad esse, dalla tensione di una ricerca o di un’attesa e non solo da una vana ansia di fuga. E lo stesso vuoto scorrere del tempo nella città così efficacemente restituito da Antonioni ora attraverso il ritmo straniante del montaggio, ora attraverso lente inquadrature, non manca di proiettarci proprio in virtù della permanente precarietà e inafferrabilità del presente e del cancellarsi di ogni passato e memoria che lo scandiscono verso un futuro possibile, non ancora conoscibile. “Io voglio organizzare il futuro” dice a Giovanni l’industriale lombardo, padre della giovane ragazza, che vorrebbe assumerlo nella sua azienda. Non sappiamo se lo scrittore accetterà la proposta. Né Antonioni ci dice o può dirci se il senso della solidità del lavoro e delle cose in fondo ancora legato ai valori di una certa storia e tradizione che emerge dalle parole dell’industriale  potrà costituire la base di un qualche futuro o sia solo un modo di accettare un presente incompreso e incomprensibile. Del resto "la notte" è la metafora visiva della possibilità di un tempo altro rispetto a quello vuoto del "giorno" lungo il quale si svolge la prima parte del film: tra la fine di un giorno e l'inizio dell'altro, la notte sospende il tempo e solo in questa sospensione qualcosa può ancora veramente accadere, non solo nel mondo immobile delle "cose" ma perfino nella svuotata interiorità dei personaggi. Così nella catastrofe finale, alle prime luci dell'alba, la moglie dello scrittore gli rivelerà la fine del suo amore, ponendo fine ad un altro frammento del suo passato da lui del resto già dimenticato. L’interminabile lettera d’amore dello scrittore alla moglie che quest’ultima legge al marito che niente ricorda di essa è una metafora terribile di un tempo senza più memoria o di una memoria senza più tempo. Finita la notte, ripreso il ritmo eguale del tempo, più nessun amore sembra scorrere tra i loro corpi tesi ed esausti, come sperduti nell'enorme spazio di un parco nella luce livida di un’alba angosciosa. Eppure è col loro disperato avvinghiarsi, che termina il film.

Salvatore Tinè