Nel titolo del film di Bellocchio è certamente contenuta una importante indicazione ai fini della comprensione del racconto che vi si svolge e dei suoi possibili significati quasi sempre impliciti e talvolta perfino sfuggenti ma forse mai ambigui. Non solo tuttavia e non tanto perchè “traditore” viene spesso definito dai suoi amici e nemici mafiosi il boss di Cosa Nostra, Tommaso Buscetta, il celebre superpentito della mafia, protagonista dell’opera di Bellocchio, quanto per la più complessa riflessione sul tema del “tradimento” in quanto tale che viene implicitamente dipanandosi attorno al racconto della vita di Buscetta. Muovendo dalla scelta di rottura con l’organizzazione criminale da parte del boss piuttosto che dall’inizio della sua vita o dal periodo della sua giovanile adesione a Cosa nostra, il racconto è certamente parziale ma proprio per questo finisce per problematizzare e mettere fortemente in dubbio la stessa sincerità delle dichiarazioni con le quali il boss motiva la sua decisione di rompere con la mafia e di collaborare con lo stato. Buscetta rifiuta l’accusa di tradimento mossagli dai mafiosi, accusando loro di avere calpestato e perciò “tradito”, soprattutto dopo la vittoria dei Corleonesi e la conseguente svolta stragista da loro imposta, le regole e gli stessi “principi” dell’organizzazione criminale cui ha legato per sempre la sua vita. E tuttavia non possiamo affatto escludere, che la sua scelta, nelle sue più sofferte e profonde motivazioni, abbia finito di fatto per riportarlo, perfino al di là della sua intelligenza e coscienza etica, proprio alle ragioni e ai bisogni quella normale e perfino banale dimensione di vita piccolo-borghese, dalla quale la sua terribile esistenza di mafioso e di “uomo d’onore” lo aveva definitivamente strappato. Tuttavia in questo tentativo di impossibile recupero di una dimensione di vita che era stata negata e rifiutata per sempre, all’atto di diventare un uomo d’onore, il Buscetta mafioso e il Buscetta piccolo-borghese, ovvero il Buscetta “pentito” e “traditore” e il Buscetta “uomo d’onore” si confrontano tra loro e insieme si confondono come sdoppiandosi e rispecchiandosi l’uno nell’altro. Il rimorso per la morte violenta dei figli “abbandonati” così atrocemente sofferto ci appare cosi completamente “normale” nella sua evidente umanità e tuttavia non riusciamo ad identificarci totalmente in esso proprio per la sua altrettanto evidente “compatibilità” con l’apparente assolutizzazione delle leggi della del sangue e della famiglia caratteristica dell’universo mafioso. Il suo amore per le donne così spesso rimproveratagli dagli altri capi storici di Cosa nostra è un altro elemento di continuità della sua vita piccolo-borghese, certo non del tutto compatibile con la terribile disciplina imposta dall’organizzazione e la sua barbara cultura della morte e tuttavia piuttosto che evocare lo stereotipo del “gallo” siculo appare soltanto come un tentativo tanto disperato quando banale di riempire la terribile solitudine patita sia dentro Cosa nostra che fuori di essa e il suo vuoto di senso: soltanto il rovescio, come confessa a Falcone, dell’idea cara ai mafiosi secondo cui “comandare è meglio che fottere”. La sua stessa decisione di collaborare con la giustizia e il conseguente “patto” con Falcone cui rivelerà insieme con la “esistenza” anche la natura e l’organizzazione di Cosa nostra, si lega ancora profondamente ad una logica di vendetta interna all’universo mafioso sebbene in una forma che sembra trascenderlo affidandosi alla rivelazione della “verità” attraverso la parola, e non più attraverso il codice della violenza e del sangue: la stretta di mano con Falcone suggella un patto, fondato su uno calcolo di reciproca convenienza, da due opposte sponde, non certo un impossibile convergenza di intenti e di motivazioni, sulla cui base soltanto può basarsi una “vera” amicizia. E’ qui in fondo la persistente “mafiosità” del Buscetta pentito, coerente col suo testardo rifiuto dell’accusa di avere “tradito”: ogni rapporto tra persone è possibile solo se mediato dalle regole formali del patto e dal vincolo di fedeltà che esso determina. E tuttavia il “patto” con Falcone ha cambiato anche interiormente e per sempre Buscetta. La consapevolezza del suo potere solo sopravvivere ad una scelta tanto radicale quanto “impossibile” quale quella di rompere con Cosa Nostra e collaborare con lo stato è l’unico elemento propriamente tragico del suo destino. Esso è tuttavia insufficiente a farne un eroe tragico. Se prima, da “uomo d’onore” egli poteva uccidere e esponendo se stesso al rischio di morire adesso egli può soltanto sopravvivere evitando la morte. Le maschere del suo volto che è costretto a cambiare continuamente per sfuggire ai suoi terribili nemici, in continuità con una certa cura estetica della propria immagine a cui aveva sempre tenuto e con la teatralità stessa del personaggio, sono insieme la metafora del suo sopravvivere senza una effettiva, piena identità. “Morire nel proprio letto”, tranquillamente spegnendosi, è l’unico desiderio, così normalmente piccolo-borghese, cui può aspirare ancora se riuscirà a sopravvivere alla rottura con l’orrido e squallido universo di Cosa nostra. Eppure lucida è in lui la consapevolezza del destino questa volta classicamente tragico e ancora una volta motivo di rimorso per lui, come già i figli abbandonati in Sicilia alla vendetta mafiosa, del giudice Falcone. Nella solitudine di quest’ultimo, Buscetta vede certo rispecchiata anche la sua. Ma il suo destino di mafioso gli rende impossibile anche il riscatto di una morte tragica come quella cui consapevolmente va incontro Falcone. Del resto, è lo stesso maxiprocesso, così splendidamente raccontato da Bellocchio, a rivelare l’assenza di ogni vera tragedia nell’universo mafioso, il cui enorme vuoto e squallore può rappresentarsi, nel grande teatro della vera aula bunker, semmai solo come una gigantesca commedia. Una commedia, certo triste, anche se non manca di farci ridere, dentro la quale anche Buscetta sarà costretto a recitare, sia nella lotta ingaggiata con gli ormai nemici boss di Cosa nostra, sia nel difficile, ambiguo e complesso rapporto con quegli esponenti dello stato che con Cosa nostra hanno stabilito un “patto” di coesistenza totalmente diverso da quello stretto da lui con Falcone: un "patto" che forse in questo caso sarebbe forse più esatto definire una.... "trattativa". Ma c'è una scena che getta tuttavia una luce tragica anche sulla commedia del maxi-processo ed è paradossalmente la sequenza forse più comica e onirica del film, quella che riguarda un altro processo, ovvero il processo ad Andreotti. In una pausa di esso vediamo forse il più emblematico esponente dello stato italiano proprio accanto a Buscetta e in mutande in attesa del vestito che dovrà indossare davanti ai giudici. Ma non ricordo se è forse l'unica in cui vediamo Buscetta sorridere.
Salvatore Tinè