domenica 17 novembre 2013

Il tè nel deserto


Ieri mattina, un carissimo amico e collega mi diceva che cambiare casa è un modo per sfuggire alla morte: "non ci voglio morire" diciamo sempre quando una casa non ci piace più. Mi è venuto fatto di pensare alla distinzione tra "viaggiatore" e "turista" nel "Tè nel deserto" di Bertolucci: il turista è quello che appena arrivato a destinazione pensa un attimo dopo a quando tornare a casa mentre il viaggiatore appena arrivato pensa che a casa non vi tornerà più. Il protagonista maschile del film in effetti non tornerà più a casa ma finirà per morire nel deserto, sotto il cui "cielo" pure cercava "riparo", "protezione", come suggerisce il titolo originale del film e quello del romanzo da cui è tratto. Forse allora non è tanto per sfuggire alla morte che decide di partire con la moglie per l'Africa ma piuttosto per cercarla. Lo stesso potrebbe forse dirsi per la moglie, la quale tuttavia nel deserto, morto il marito, finirà per "rinascere". Il finale del film in questo senso non è molto diverso, nel suo significato di fondo, da quello di un altro film di Bertolucci, "Ultimo tango a Parigi": anche lì, la ragazza finirà per liberarsi del suo amante più maturo e sfatto uccidendolo, con un colpo di pistola. Come non ricordare le sue parole finali, forse quelle che immagina che dovrà dire alla polizia circa l'"identità", il "nome" stesso dell'assassinato: "io non lo conoscevo, è un pazzo". L'amore è sempre tra due "sconosciuti", che disperatamente cercano di conoscersi e riconoscersi. Estranei l'uno all'altra come l'Africa ad entrambi, i due viaggiatori americani del "Tè nel deserto" non meno di quanto non lo siano l'americano fallito e la giovane parigina in quello squallido ma magico interno sulla Rive Gauche in "Ultimo tango". "Ho percorso l'Asia, l'Africa e l'Indonesia e finalmente ti ho trovata. Io ti amo", dice l'amante alla ragazza prima di essere ucciso da lei. Molti anni dopo Bertolucci avrebbe girato un film, appunto "Il tè nel deserto" in cui racconterà un'altra storia d'amore, quella di un uomo che con la sua donna decide di abbandonare la propria casa, quindi "ogni" casa e di partire proprio per quell'Africa evocata nelle ultime parole del protagonista maschile di "Ultimo tango", in una disperata, autodistruttiva ricerca dell'amore "assoluto". Se l'intera vicenda di "Ultimo tango" si era svolta nel chiuso di un angusto appartamento, metafora dell'amore come mortale "chiusura" e "incomunicabilità", alla fine, tuttavia, vedremo Marlon Brando morire "sopra" i tetti di Parigi, sotto il suo "cielo", finalmente sotto la sua "protezione". Diversa invece la morte del protagonista maschile ne "Il tè nel deserto", nel chiuso di una capanna, al riparo da una terribile tempesta del deserto, con il conforto delle cure e dell'amore "materno", protettivo della moglie. La capanna nel deserto sarà la sua ultima "casa", quella in cui morire. Solo la moglie finalmente "sola", finalmente "senza casa", quindi diversa, "estranea" non più solo al marito ma anche a se stessa, come la ragazza di "Ultimo tango" troverà non la morte ma insieme alla solitudine, ora assoluta, forse la "libertà".

Salvatore Tinè

Love

Una sinfonia dell'amore: verrebbe fatto di definirlo "To the wonder" di Terrence Malick. Le immagini, che si succedono in un montaggio frenetico, ci parlano dell'amore passionale, dei corpi, quello che nasce dalla terra, dalle radici stesse della vita, dell'"albero della vita" ma anche dell'amore inteso nel suo senso più ampio e "metafisico", "l'amore che ci ama, che viene dal nulla e da tutte le cose" come dice una voce fuori campo nel film. L'amore dunque come "senso della terra" avrebbe detto Nietzsche ma anche insieme come vitale, elevazione, tensione verso una qualche "trascendenza", verso l'"invisibile" che pure "splende" attraverso le cose: nel film c'è sempre, quasi ad ogni inquadratura come una luce dorata che sembra avvolgere tutto, le cose come gli uomini: una luce tutt'uno con lo spazio dentro i quale i personaggi del film si muovono, vagandovi come smarriti, in un movimento perenne e spasmodico. in questo senso "l'amore che ci ama" è loro inattingibile, se non indirettamente attraverso l'ininterrotto fluire delle cose e dei sentimenti o il loro ciclico ritornare. Inattingibile proprio nella sua terribile, "meravigliosa", sovrastante evidenza. L'amore "ci ama" ma insieme si impone a noi, con violenza. Ben Affleck sembra incarnare proprio l'uomo sopraffatto dalla paura di amare, sempre al di qua dell'azzardo, del rischio cui sempre si accompagna l'amore per l'altro, il farsi uno del due evocato dalle parole scritte nell'acqua della della sua compagna e nelle quali pure prorompe purissima quasi infantile una sete d'amore, la stessa di cui il suo bianco corpo danzante si fa metafora visiva. Ma anche la figura di padre Quintana è straordinaria: la sua crisi, il vacillare della sua fede nel Dio-Amore del Cristianesimo si accompagna e si intreccia con l'esplodere della crisi sentimentale dei due protagonisti, ovvero del volgersi del loro amore in odio. L'amore è il rischio più terribile perchè tensione verso l'"eterno" ma proprio in quanto tale è quanto di più esposto alla contingenza, alla ricorrente distruttività del tempo, come alla precarietà delle cose e dei sentimenti. La dualità Europa-America evocata dalla storia d'amore tra un americano e una parigina si fa così metafora dell'amore come contraddizione e paradosso, perenne, spasmodica tensione tra gli opposti: le "spirituali" vertiginose architetture gotiche della vecchia Europa sono lo scenario dell'esplodere del loro amore, del suo "inizio" mentre paradossalmente saranno proprie le sconfinate selvagge praterie dell'Oklahoma e i cieli immensi dell'infanzia di Affleck lo spazio dentro cui il loro amore conoscerà il declino e forse la fine. Ma il ritorno di lei, sola ma libera nella "sua" Europa è forse un altro "inizio", se è vero che l'amore viene sempre dal nulla e non cessa di amarci.

Salvatore Tiné