mercoledì 18 marzo 2015
Leggendo "L'anima e le forme".
Ne "L'anima e le forme", Lukacs sembra considerare non solo l'artista ma anche ogni uomo sempre indeciso tra vita e forma. Si può vivere veramente, "autenticamente" ma "nella" vita, ovvero senza rinuncia, di là dal "non-senso" del presente e tuttavia "nel" presente, non nell'attesa che anticipi un futuro inattingibile, solo sognato ma che lo colga ora, nella chiusa perfezione di un attimo, finalmente desti? Che sia questa "domanda" il nucleo" tragico di quel grandissimo libro? La "possibilità oggettiva" di "Storia e coscienza di classe" è in fondo una coscienza non ancora "desta". Il suo risveglio è l'attualità della rivoluzione: vita, ("processo") certo e tuttavia condensata in un "atto", ovvero non in azione soltanto ma in "azione presente". L'atto è certo un "novum" e tuttavia e insieme l'attualità, l'attualizzarsi di una già data "possibilità", di un "passato" forse perfino "eterno" che si fa presente per la prima volta, "forma" che scaturisce dal processo ma senza derivarne, insieme presupposto e prodotto di esso. Lukacs sembra non riuscire mai veramente a rendere "dialettica" questa tensione che resta insostenibile tra vita e forma, tra processo e atto. Il partito comunista cui aderisce con tutto stesso è in fondo l'unica possibile mediazione sebbene non dialettica tra i due poli in cui Lukacs continua e continuerà per tutta la sua vita di uomo, di intellettuale e di comunista a dibattersi. Il partito come figura della coscienza di classe fino al momento del suo risveglio, e perciò contraddittoriamente ma non dialetticamente insieme espressione e prefigurazione dell'attualità della rivoluzione, forma "assoluta" certo ma proprio perciò in tensione con la vita, di là da essa, verità ancora in cerca della vita.
Salvatore Tinè
martedì 17 marzo 2015
Addio Tadziu! Che tu sia benedetto!
Con Peppe rivediamo una delle scene più belle di “Morte a Venezia”: “Addio Tadziu”- dice Aschenbach al fanciullo che gli è appena passato accanto- Che tu sia benedetto”. Mi vengono in mente le grandi pagine di Mann, gli innamoramenti dei suoi personaggi, interminatamente solitari, così a lungo coltivati nella solitudine della mente e dell’arte e perciò così lungamente amati nella nostra memoria di essi come in quella ad essa inestricabilmente intrecciata dei nostri già remoti amori solitari. Penso ad Hans Castorp, al suo incontro con Claudia, in una notte di carnevale, all’indimenticabile, improvvisa carezza sul ciuffo biondo di quell’ingenuo e appassionato giovane, della giovane donna, fino a quell’onirico momento, mai veramente conosciuta ma solo amata, sognata. Forse solo nell’amore, nella purezza e nell’inattingibile ambiguità del suo mistero, l’arte può “benedire” la vita, come Aschenbach nel suo “addio” a Tadziu.
Salvatore Tinè
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