martedì 30 giugno 2015
Falstaff
La battaglia di Shrewsbury nel "Falstaff" di Orson Welles è forse una delle sequenze più grandi della storia del cinema. Essa divide in due parti il film, segnando la perdita dell'innocenza del suo protagonista, il principe Hal, futuro Enrico V. Lo stesso vecchio Falstaff vi partecipa ma alla sua maniera, reclutando nella sua compagna i peggiori e corrompendo i migliori. La sua vecchiaia è al di qua e insieme al di là della guerra. Immerso nella terrestrità della vita come i cadaveri di soldati intrecciati tra loro affondati nel fango della battaglia, con tutta l'obesità e la pesantezza del suo corpo, Falstaf continua a giocare, a recitare divertendosi perfino nell'inferno della guerra, fuori dalle sue amate taverne. Padre adottivo del principe Hal, è l'antitesi perfetta in questo senso del vero padre di quest'ultimo, un Enrico IV superbamente interpretato da John Gilgoud, ennesima shakesperiana incarnazione del potere, della sua violenza come della ideologia che lo giustifica e glorifica. Hal dovrà tradire il padre adottivo per diventare re e raccogliere così l'eredita del padre usurpatore. Il tradimento inevitabile, come scritto nel "destino", è il preludio della morte di Falstaff. Ma esso è anticipato nella sequenza in cui il vecchio Sir John recita parodiandola la parte di Enrico IV davanti al futuro Enrico V e quest'ultimo quella del suo "vero" padre così beffando e insultando quello adottivo. "La rivolta contro il padre non è una tragedia ma una commedia", ha detto una volta Franz Kafka. Ma qui la commedia prefigura la tragedia sia pure parodiandola e come rifiutandola: parodia della rappresentazione del potere, il Falstaff attore, padre finto e insieme vero, sembra smascherarne con il suo più sano che cinico buon senso l'ideologia e il nulla che vi si nasconde. Alla tragedia del potere e della guerra per esso Orson Welles mai così aderente al personaggio che interpreta contrappone la commedia e quindi la poesia della vita. Così prima della sua morte, ci mostra Falstaff godere del suo ultimo bacio, tra le calde braccia di Doll Tearsheet, velato da un'ombra di senile malinconia. Non vedremo tuttavia la morte di Falstaff, la quale viene soltanto raccontata dagli amici e dalle donne vecchie e giovani della sua taverna, in una grande sequenza, di grande, "shakesperiana" poesia. Immagine in movimento e racconto, cinema e teatro, silenzio e parola, commedia e tragedia: come poche volte nella storia del cinema, Welles li ha fusi insieme, in una sintesi perfetta.
Salvatore Tinè
venerdì 26 giugno 2015
Touch of evil
Uno splendido piano-sequenza apre "Touch of evil" di Orson Welles. L'esplosione della bomba che lo chiude è preceduta da un bacio tra un uomo e una donna in viaggio di nozze in una città al confine tra gli USA e il Messico. L'esplosione è un assassinio e le vicende della indagine su di esso vedranno contrapporsi non tanto i poliziotti e gli assassini quanto piuttosto i poliziotti tra loro, un ispettore messicano e un poliziotto americano. La violenza di quest'ultimo è al di là della legge cui si invece non cessa di appellarsi il messicano, convinto che la giustizia non possa prescindere dal diritto. Il confine tra gli Usa e il Messico ci rinvia così anche a quello tra bene e male, tra violenza e diritto. Nei panni del violento e razzista Quinlan, nella sua debordante e mostruosa obesità, Welles ci appare come la metafora visiva dell'impero americano e insieme del suo ormai irreversibile declino. Solo all'estremità dei suoi confini la realtà dell'impero si rende visibile di là dalla sua retorica del diritto e dagli infingimenti della ideologia: la mostruosa, kafkiana "metamorfosi" di Orson Welles nei panni di Quinlan è l'immagine stessa di tale verità. Non a caso il potere "assoluto", ovvero sciolto dalla legge, esercitato soltanto in nome di una astratta e inattingibile "giustizia", di Quinlan si dispiega lungo quel confine: come Walter Benjamin ci ha spiegato nel suo grande saggio sulla violenza, il potere della polizia è quello che sospende la legge proprio per difenderla, sempre al "confine" tra il potere di fondare la legge e quello di mantenerla. Eppure, il personaggio che interpreta è visto dallo stesso Welles non senza una qualche simpatia. Il suo "intuito" sembra non avere bisogno di prove "vere"; i suoi metodi brutali e violenti appaiono come gli unici adeguati a fronteggiare una città dominata dal disordine e dall'anarchia. In questo universo quasi kafkiano il poliziotto messicano e il suo culto della legalità finiscono per apparirci quasi banali. Paradossale che sia il messicano a ricordare al collega americano il corretto comportamento della polizia in uno stato "libero". Tradito e spiato dal suo più fedele collaboratore, decisosi a collaborare col suo antagonista messicano, Quinlan morirà alla fine del film e la scena finale in cui vediamo il suo pesante corpo scivolare lentamente nel fango e nella sporcizia di una discarica è certo tra le immagini più forti e pregnanti del film. In quel fango e in quella sporcizia affondano le loro radici la società e l'impero americani. L'esplosione della macchina all'inizio del film ne racchiude allora il suo senso più profondo: essa ci rinvia infatti alla realtà di un mondo già esploso i cui frantumi e detriti Welles non cessa di mostrarci in un film ancora una volta superbo per la sua potenza visionaria, per i suoi eccessi barocchi. "Qual è il mio futuro?" domanda il poliziotto americano ad una zingara chiromante interpretata da Marlene Dietrich. "Non ce l'hai!": risponde lei.
Salvatore Tinè
Gradisca
Se ne va Magali Noel. Mi ritorna in mente la sequenza di "Amarcord" in cui Titta vede o sogna la Gradisca sola nel buio di un cinema di paese e sogna di sedersi accanto a lei e di sfiorarne una coscia. L'onirica fisicità di quel corpo così morbidamente materno così come la tenerezza quasi infantile dei suoi grandi occhi, la sua ingenuità così "familiare" e rassicurante erano in fondo le stesse della Fanny della "Dolce vita", la ballerina protagonista di uno degli episodi più belli e poetici di quel grande film, la figura che forse più di ogni altra incarnava quella pura "dolcezza" della "vita" cui alludeva il suo titolo. Dolcemente materna col vecchio padre non meno che col figlio maturo, in un locale notturno di Via Veneto, lontano dalla loro provincia, Fanny finiva per unirli di nuovo, forse prima del loro ultimo incontro.
Salvatore Tinè
Salvatore Tinè
lunedì 1 giugno 2015
Zeno e la bellezza
"Poi, quando poche ore dopo cominciai a sognare Carla, immaginai che su quella faccia ci fosse stata una lotta fra la letizia e il dolore. Nulla di tutto questo trovai poi in lei ed una volta di più appresi che la bellezza femminile simula dei sentimenti coi quali nulla ha a vedere." In questa pagina de "La coscienza di Zeno"; Svevo coglie lucidamente il carattere di "simulazione", ovvero di esteriorità della bellezza femminile. Mi chiedo tuttavia sino a che punto tale esteriorità possa considerarsi puramente "vuota" e se proprio nel non rimandare ad altro che a se stessa, della bellezza non ci celi paradossalmente proprio il suo enigma. La bellezza insomma non "significa" niente, non allude a nessun "contenuto" sentimentale e meno che mai morale e proprio perciò è "indisvelabile".
Salvatore Tinè
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