martedì 6 maggio 2014

DIKE


"Ma nella tragedia l'uomo pagano si rende conto di essere migliore dei suoi dèi", ha scritto Walter Benjamin. Una affermazione nella quale mi pare si possa vedere riassunta tutta la grandezza della tragedia greca, fuoriuscita dal mito, ma ancora al di qua della storia. L'eroe tragico acquisisce infatti la coscienza di "essere migliore dei suoi dei" a prezzo del sacrificio, unica forma della sua esistenza e quindi della sua libertà. Si direbbe anzi che è proprio nel totale identificarsi della sua esistenza con la forma del sacrificio di sé che l'eroe conquista, insieme a quella che Hegel chiamerebbe la sua "autocoscienza", anche la sua libertà. Certo si tratta di una libertà soltanto "etica" e non anche "storica", in quanto conquistata non vincendo le potenze del mito, ovvero degli dei come dello stesso superiore destino, ma piuttosto soccombendo ad esse. Come hanno ben visto le grandi teorie del tragico del giovane Lukacs e di Rosenzweig il "paradosso" della tragedia consiste proprio in questa totale chiusura in se stesso dell'eroe. Ciò che rende "perfetta" la sua libertà, in tal senso "perfettamente" politica, come il suo "carattere", sì individuale ma privo di qualunque "psicologia" o "sentimentalità": l'individuo afferma se stesso solo in quanto portatore, incarnazione di istanze etiche e politiche che pure lo trascendono e che proprio in esso si esprimono assolutamente, unilateralmente, "perfettamente". E tuttavia sarebbe sbagliato vedere in tale "perfezione" la chiusura del "mito" in se stesso, nell'immutabilità di un ordine puramente cosmico o ontologico, interpretando la solitudine dell'eroe come mera "passività": non a caso nel suo "Tramonto dell'Occidente", Splengler era costretto a negare all'eroe della tragedia insieme ad ogni "azione" anche ogni "carattere" a a fare così del suo "pianto" "pubblico" dinanzi al Coro apollineo l'unico contenuto della tragedia.  Pur soccombendo all'immediata, folgorante violenza degli dei, l'eroe tragico è già al di là del mito: pure incapace di dirla, la sua tremenda solitudine, allude, infatti, ad una nuova comunità etico-politica, configurandosi come l'inizio, ovvero la stessa "origine" della storia, destinata non a ripetersi ma a continuare nel suo divenire e a dare ad essa un senso. Se il pianto dell'eroe è "pubblico", tutt'altro che modernamente "interiore", esso lo è in quanto già storico e politico. Il grandioso mutarsi delle Erinni in Eumenidi alla fine del processo ad Oreste che chiude l'Orestiade allude proprio a questo passaggio dal mito alla storia, che pure la tragedia non può rappresentare ma soltanto "racchiudere" in quell'intreccio inestricabile di libertà e destino, che è per Eschilo la Giustizia, ordinamento cosmico e quindi politico. Se l'azione dell'eroe si risolve nel mito, in esso compiendosi una volta per tutte, nella sua muta coscienza, tuttavia, il destino si infrange e in essa, si potrebbe dire, parafrasando Manlio Sgalambro, "la storia è alle porte". Nell'epoca moderna, la tragedia potrà così rinascere solo dalla storia, sia pure conferendo ad essa ancora una volta la "forma" del mito, ripercorrendo così ma a ritroso il cammino della tragedia antica.

Salvatore Tinè

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