sabato 8 novembre 2014
Nichilismo
Alcuni amici mi hanno contestato l'accusa di "nichilismo" mossa ad Heidegger: sostenendo che se essa fosse vera sarebbero da considerarsi sciocchi alcuni interpreti del pensiero heideggeriano come, per esempio, Vitiello o Natoli. Non considero affatto degli sciocchi tali studiosi. Allo stesso modo non considero sciocchi, Gunther Anders, Theodor Adorno, Lukacs e Loewith, per le letture “critiche” che essi hanno proposto del pensiero heideggeriano. Penso anch’io che il problema del “nichilismo” sia molto complesso e richieda ulteriori approfondimenti. E’ chiaro infatti che definire “nichilista” un pensatore che ha fatto della “questione dell’essere” il tema fondamentale del suo pensiero può sembrare paradossale. Peraltro in “Essere e tempo” Heidegger ha teso a trasformare il metodo dell’analisi fenomenologica in una analitica esistenziale fondata sulla concretezza dell’esistenza, dell’Esserci: un’analitica che appunto fenomenologicamente mira a cogliere l’ ‘essenza” nel “fenomeno”, a partire dal modo stesso in cui il fenomeno si manifesta da sé. E com’è noto è a partire dalla “fenomenologica” concretezza dell’esistenza umana che Heidegger si pone la domanda sull’Essere, in una continua oscillazione tra una prospettiva che fa dell’Essere l’al di là di ogni mero essente e una prospettiva antropocentrica, soggettivistica che pone al centro l'Esserci.Ma è poi vero che tale tentativo riesca? Io credo invece che esso fallisca e che ad Heidegger finiscano per sfuggire sia la pretesa “purezza” dell’Essere che la stessa “concretezza” dell’ente, di fatto “nullificato” dalla stessa continua evocazione di quella purezza, ovvero sia l'universalità del concetto, della categoria "essere" che la effettiva concretezza della "singolarità" dell'esistente. Due grandi autori del Novecento come Gunther Anders e Adorno lo hanno peraltro sostenuto con argomenti molto solidi.
“Gunther Anders – scrive Adorno nella “ Dialettica negativa”- ha già da anni messo alla berlina la pseudoconcretezza dell’ontologia fondamentale…. L’ossessione per il concetto di concreto si univa all’incapacità di raggiungerlo con il pensiero. La parola rievocante sostituisce la cosa. Ma la filosofia di Heidegger finisce per sfruttare lo “pseudos” di quel tipo di concrezione; poiché “tode ti” e “ousia” sarebbero indiscernibili, egli li impiega l’uno per l’altro, com’era già stato progettato in Aristotele, a seconda del bisogno del “thema probandum”. Il mero ente diventa nullo, viene elevato a essere, a concetto puro di se stesso, essendo libero dalla macchia di essere ente. L’essere, invece, privo di ogni contenuto limitante, non deve più comparire come concetto, ma viene considerato immediato come il “tode ti”: concreto. Entrambi i momenti, una volta assolutamente isolati, non hanno più alcuna “differentia specifica” tra loro e diventano scambiabili, questo “quid pro quo” è un tratto centrale della filosofia di Heidegger.”
Hegel ci ha insegnato che il puro essere, in quanto indeterminato si rovescia nel puro nulla. L’ontologia di Heidegger a me pare essenzialmente nichilistica proprio in quanto ripete questo rovesciamento. Ma l’indistinzione tra l’universalità del concetto e la concretezza dell’esistente, questo continuo scambiarsi, trapassare del piano ontologico in quello ontico, denunciata da Anders e Adorno, credo sia fondamentale per capire la concezione heideggeriana della storia e della politica, come la stessa convinta adesione del filosofo tedesco al nazismo, la cui “intima verità e grandezza” viene identificata da Heidegger nella ‘Introduzione alla metafisica” nientemeno che nello "‘incontro dell’uomo con la tecnica planetaria”. Si pensi allo “scambio” tra il piano della temporalità originaria, autentica dell’Esserci che anticipa il futuro, ovvero la “propria” morte” e quello che lo stesso Heidegger giudica “volgare” della storia comune o “universale”. E’ in fondo questo rovesciarsi del preteso “essenziale” nel dato empiricamente storico o perfino immediatamente politico che Loewith denunciava, sebbene in una prospettiva di radicale “antistoricismo”, ovvero di rifiuto della moderna concezione della realtà come storia e di recupero della "Natura" dei greci, della "physis", rilevando come proprio la storicità concreta, reale sfuggisse completamente all’ontologia heideggeriana, che pure si pretendeva “storica” in un senso più “essenziale” della stessa hegeliana “filosofia della storia” :
“Sorge ora la domanda: la storia universale, come l’uomo occidentale l’ha vissuta e subita, meditata, riferita e approfondita filosoficamente, dalle guerre persiane fino all’ultima guerra mondiale, è riconoscibile in questo personalissimo disegno della storia a partire dall’ ‘essere per la fine’ ogni volta proprio di ciascun Esserci? Vale questa interpretazione esistenziale della storia dalla storicità evenienziale dell’Esserci finito a rendere intelligibile quel come comunemente chiamiamo storia? O forse l’esperienza dell’esser mortali, senza di cui non si darebbe alcuna libertà per la morte, non ci ricollega piuttosto alla natura qual è in ogni essere vivente? E il trapasso dalla temporalità finita di un Esserci in sé isolato davanti alla morte alla storia a tutti comune non resta piuttosto un salto, che lascia indietro, invece di chiarire, le comuni venture storiche?”.
Il salto di cui parla Loewith è lo iato che separa il piano dell'Essere da quello della storia, ovvero l'attesa dell'evento storico dell'essere, che ad un certo punto subentra allo stesso "attivismo" che in qualche modo connotava il tema della "decisione" politica dell'Esserci nello Heidegger nazista degli anni '30 da quello della storia reale, della concreta, effettiva storicità dell'agire politico. E' questo iato incolmabile che in definitiva fa della filosofia heideggeriana una "pseudo-ontologia" che nasconde una teologia per quanto negativa. In questo senso credo che Loewith avesse ragione quando in un intervento per i 70 anni di Heidegger rilevava l’importanza fondamentale degli elementi di teologia cristiana presenti nel pensiero hedeggeriano, sottolineando la sua distanza dall’ “ateismo” di Nietzsche.
“Ma a fondamento sotterraneo di tutto ciò che Heidegger da sempre è venuto enunciando, voce che desta e si fa ascoltare intentamente da molti, è un motivo che resta non mai enunciato – il motivo religioso, separato dal contesto della fede cristiana, ma proprio per questa sua indeterminazione rispetto ai legami di qualsiasi formulazione in dogmi tanto più consono al sentire di coloro che non sono più cristiani credenti, ma pure vorrebbero esser religiosi. Non sono che poche e parche frasi, quelle in cui Heidegger evoca l’Integro e il Sacro, il dio e gli dei, il mortale e l’immortale: eppure bastano a mostrare come egli pensi l’Essere a partire dal tempo, e invero da questo nostro tempo e dalla sua carenza….In questa pietà del pensiero, che dovrebbe far volgere a miglior ventura la distretta dei tempi, risiede probabilmente il motivo di fondo della così ampia eco ed efficacia del pensiero di Heidegger, soprattutto presso coloro che non sono indifferenti alla proclamazione della ‘morte di dio’ perché non meditano ancora entro la problematica dell’ateismo, dopo la svolta di Nietzsche”.
In questo senso credo che il “nichilismo” di Heidegger vada individuato sulla scorta di queste acute osservazioni di Loewith sul nucleo religioso e cristiano del suo pensiero, come della nozione lukacsiana di “teologia atea”. In un un passo della sua “Ontologia dell’essere sociale”, Lukacs rileva acutamente il nesso essenziale tra la teologia apparentemente depurata dei suo concreti contenuti cristiani di Heidegger e la sua fondamentale tesi della “originarietà” del “nulla”, sostenuta in “Was ist Metaphysik?”:
“La sua teologia senza dio perviene alla propria forma massima e più prestigiosa quando elabora le categorie centrali, quelle di essere e nulla, le più astratte e le più vuote di una ontologia. Heidegger sa bene che il problema del nulla non può essere posto dalla scienza. Quindi pone la domanda in maniera puramente teologica anche di fatto: ‘Perché infine l’essente e non piuttosto il nulla?’. Una domanda che può essere posta solo in ambito teologico, in quanto il suo senso consiste non in un perché (warum) causale, ma in un perché (wozu) teleologico. Soltanto a partire di qui si può contestare la derivazione del nulla dalla negazione ed affermare che ‘il nulla è originariamente anteriore al non e alla negazione’. Heidegger viene a trovarsi così – a livello della più modesta oggettività e razionalità terrena – in grandissime difficoltà. Se ‘ il nulla è la radicale negazione della totalità dell’essente’, ne nasce come egli stesso ammette, un compito impossibile per il pensiero. Ma subito lo elude muovendosi nella direzione della ontologia antropocentrica (l’uomo come esserci): ‘Infine si determina una differenza essenziale tra l’affermare la totalità dell’essente in sé, e il sentirsi in mezzo all’essente nella sua totalità. La prima cosa è per principio impossibile. La seconda invece avviene continuamente nella nostra esistenza’. Ora è un gioco da bambini prendere gli affetti umani e gli stati interiori come fenomeni fondamentali e, analizzandoli fenomenologicamente, arrivare al nulla come categoria ontologica. Così parla Heidegger della noia e soprattutto della angoscia: ‘L’angoscia rivela il nulla’. Questa posizione puramente soggettiva può ormai mediante la ‘Wesensschau’, essere liberamente generalizzata nella tesi ontologica: ‘Essere presenti (Da-sein) significa tenersi fermi all’interno del nulla’. Al posto del ‘deus absconditus’ del tardo Kierkegaard compare, terminologicamente diverso ma ontologicamente equivalente, il nulla ( e l’essere che vi corrisponde e che trascende del tutto ogni essente); ma ciò cambia solo emotivamente, solo in un linguaggio che suona ‘ateo’, la posizione di Kierkegaard. In realtà le domande e le risposte di Heidegger hanno un carattere altrettanto teologico”.
Insomma la teologia atea in cui si risolve l’ontologia negativa di Heidegger è una concezione sostanzialmente nichilistica dell’essere, soggettivisticamente identificato con il puro nulla. Una nozione dell' essere totalmente astratta di essere, staccata e e perfino contrapposta a quella dell'oggettività dell'essente, non può che sfociare nel nichilismo. Sfugge così ad Heidegger non soltanto la "naturalità" dell'uomo, il suo essere spinozianamente "pars naturae", parte della natura, ma la sua stessa storicità, che Heidegger pensa soltanto in alcuni dei suoi aspetti "fenomenologici" e non certo nella sua concreta dimensione materiale, radicata nella socialità del lavoro e quindi nella sfera dell'agire e della prassi. Giustamente Anders denuncia come l'idea del manifestarsi dell'essere, finisca per ridurre quest'ultimo al suo apparire fenomenologico, finendo per smarrire come nell'odierno mondo della "pubblicità" così suggestivamente descritto proprio Heidegger in "Essere e tempo", ogni distinzione, ogni concreta articolazione tra "essenza" e "fenomeno", tra la realtà e il suo mero apparire. Lo stesso "decisionismo" esistenziale di Essere e tempo tutto coniugato al futuro, centrato sull'attesa e anticipazione della morte trascura completamente la dimensione effettiva, pratica, concretamente ontologica e conflittuale della "realtà" del "presente". In realtà l'unica ontologia possibile, ovvvero non nichilistica, non è quella dell'Esserci, bensì dell'essere sociale.
Salvatore Tinè
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