giovedì 20 novembre 2014

Verga e l'artista scioperato


La Prefazione ad Eva di Giovanni Verga è un testo molto utile e forse perfino illuminante per capire il complesso, tormentato itinerario che porterà il grande scrittore catanese dal "romanticismo" a tratti esasperato e non privo di risentimenti e disagi "moralistici" dei suoi romanzi mondani alla scoperta del "mondo popolare" di Aci Trezza. “Eccovi una narrazione- scrive- sogno o storia poco importa- ma vera, com’è stata o come potrebbe essere, senza retorica e senza ipocrisie.” Dunque la narrazione del “sogno” può essere vera, non meno di quella della “storia”, purché sincera. L’arte che rappresenta l’effettivo grado di corruzione morale di una società non è da considerarsi essa stessa corrotta e nessun senso avrebbe imputare ad essa i mali che si limita a riflettere. “Però non maledite - scrive Verga, idealmente rivolgendosi ai suoi lettori e ai suoi potenziali detrattori, anticipando in fondo la sua futura concezione “verista” dell’arte- la manifestazione dei vostri gusti.” E tuttavia lo stato di corruzione della società non può non avere conseguenze sulle stesse possibilità della sua “riproduzione” estetica. Nonostante la difesa della legittimità del suo tentativo artistico, Verga sembra infatti ripetere nientemeno che la celebre tesi hegeliana della “morte dell’arte”. “I greci innamorati – scrive- ci lasciarono la statua di Venere; noi lasceremo il ‘cancan’ litografato sugli scatolini dei fiammiferi. Non discutiamo nemmeno sulle proporzioni; l’arte era allora una civiltà, oggi è un lusso: anzi un lusso di scioperati. La civiltà è il benessere, e in fondo ad esso, quand’è esclusivo come oggi, non ci troviamo altro, se avete il coraggio e la buona fede di seguire la logica, che il godimento materiale”.  Dunque la mercificazione tendenzialmente universale, “totalitaria” di ogni cosa come di ogni aspetto della vita sociale e della stessa vita privata ridotta a mero “godimento materiale”, e così per l’appunto “privata” di senso, ha svuotato la stessa arte di ogni funzione sociale e perciò di ogni senso, riducendola a “lusso da scioperati”. L’arte in senso proprio, ovvero come momento o suprema espressione di una “civiltà” appare “morta” e sostituita da forme di produzione “estetica” che oggi definiremmo pubblicitarie,  immediatamente funzionali alle esigenze del mercato, del tipo per l’appunto del “cancan litografato nella scatola dei fiammiferi”. Pure proprio in quanto “scioperata” l’arte sembra contrapporsi almeno su un piano puramente oggettivo al culto del “positivo” come all’insensato quanto febbrile edonismo che caratterizza la vita in una società ormai saldamente dominata dal capitalismo  finanziario e industriale.  “In tutta la serietà di cui siamo invasi – scrive Verga- e nell’antipatia per tutto ciò che non è positivo – mettiamo pure l’arte scioperata- non c’è infine che la tavola e la donna. Viviamo in un’atmosfera di Banche e Imprese industriali, e la febbre dei piaceri è la esuberanza di tal vita.” Di fronte ad una realtà che rischia di schiacciarla, l’arte non può allora che limitarsi a rappresentare nel modo più sincero e “vero” possibile quella “febbre di piaceri”, quella apparente ma al fondo malata “esuberanza” di vita. “Non accusate l’arte, che ha il solo torto di aver più cuore, e di piangere per voi i dolori dei vostri piaceri. Non predicate la moralità, voi che ne avete soltanto per chiudere gli occhi sullo spettacolo delle miserie che create – voi che vi meravigliate come altri possa lasciare il cuore e l’onore dove voi non lasciate che la borsa – voi che fate scricchiolare allegramente i vostri stivali inverniciati dove folleggiamo ebbrezze amare, o gemono dolori sconosciuti, che l’arte raccoglie e che vi getta in faccia”. Difficile non cogliere in queste parole di Verga, insieme ad una insistita rivendicazione della verità dell’arte, della sua “sincerità”, un forte risentimento morale nei confronti di una società che pure lo scrittore catanese aveva eletto a materia dei suoi romanzi e nella quale aveva teso ad integrarsi ed affermarsi come artista e nello stesso tempo come scrittore riconosciuto e diremmo noi oggi di “successo”. Il sostanziale rifiuto di un  mondo “borghese” che forse solo in parte poteva considerare “suo” rivela così il fondamento “moralistico” di un’arte che pure si voleva soltanto sincera, fedele alla verità delle cose, come se  soltanto nella sua verità potesse risiedere il suo contenuto etico, tanto più profondo proprio perché implicito, tutto risolto nelle cose ma anche nei “sentimenti”. Perciò anche il “sogno” poteva essere essere vero, non meno della “storia”. E tuttavia questo cercato più profondo nucleo etico dell’arte finirà sempre per sfuggire al giovane Verga dei romanzi mondani, i quali non riusciranno mai ad attingerlo,  superando un atteggiamento di pura condanna morale di fatto “esterna” alla materia sociale che si voleva trasporre nel racconto letterario e romanzesco. In questo senso la scelta verghiana di distaccarsi idealmente dal mondo borghese delle grandi città dell’Italia centrale e settentrionale e di “ritornare” in Sicilia scaturì forse dal riconoscimento e dalla presa d’atto del fallimento estetico che accompagnava il successo commerciale dei suo romanzi. Un fallimento che dovette tanto più rafforzarlo nella sua idea della incompatibilità dell’arte con la logica mercantile che governa la “civiltà della Banche e delle Imprese industriali”. E’ in fondo questo ritorno “ideale” e non banalmente “autobiografico” che racconta Fantasticheria, la novella che ci appare come una “introduzione” al mondo dei pescatori di Aci Trezza, sebbene comparirà, staccata dal grande romanzo, nella raccolta di novelle Vita dei campi. Nel chiuso e immobile mondo dei pescatori di Aci Trezza, Verga immagina di trovare l'unica possibile soddisfazione, o approdo alle "irrequietudini" del suo "pensiero vagabondo", perfino aderendo ad una parte suoi valori, a quella “religione della famiglia” che gli sembra garantire il calmo e sereno succedersi delle generazioni in una realtà selvaggia e mitica, al limite tra natura e storia. L'aspra denuncia moralistica della prefazione ad Eva si muta così nel sogno, nel mito fantastico di un mondo che appare ancora al di qua della storia. Il distacco e il "giudizio" moralistici sono superati di fronte ad un mondo primitivo che sembra imporsi da se, sebbene evocato da una fantasticheria dello stesso scrittore borghese cui non a caso si accompagna una bella e ricca signora, una ideale lettrice dei suoi romanzi mondani, come venuta da un altro mondo. Ma è proprio questo contrasto tra il mondo dell’autore e della sua stessa ideale lettrice e l’altro creato dall’autore stesso che scomparirà totalmente nel grande romanzo. Nessuna traccia visibile del tormentato, fantastico itinerario che ci ha condotto ad esso, troveremo ne “I Malavoglia”. Proprio perciò essi ci appariranno una stupefacente realizzazione dell’idea verghiana dell’”opera che si fa da sé”, organismo vivente che vive di vita propria, proprio per la vita che ad essa ha saputo conferirvi l’autore come scomparso dietro di essa. E come personaggi “senza” autore, piuttosto che in cerca di esso come i fantasmi i carne ed ossa della grande commedia pirandelliana, ci appaiono infatti i pescatori di Aci Trezza. Si tratta allora di capire se una volta approdati al romanzo siamo veramente usciti dal sogno che ci ha condotto ad esso, ovvero se siamo “soltanto” veramente pervenuti a quella sua “verità” cui si alludeva nella Prefazione ad Eva da cui siamo partiti. Ma forse è proprio la “storia” la “verità” del sogno, piuttosto che la sua negazione. La “fantasmagoria” della lotta per la vita è il grande tema della Prefazione a I Malavoglia, vigorosa riflessione sulla natura del “progresso”, sul suo “fatale” incessante, cammino come sulle varie forme da esso assunte a seconda dei vari gradi della scala sociale. Medesime appaiono così le leggi che per necessità presiedono alla darwiniana lotta per la vita nel mondo borghese come in quello popolare, di là dalla spettacolare “fantasmagoria” delle sue forme. Verga si sforza, ma questa volta riuscendovi, di osservare e rappresentare questo “spettacolo” spassionatamente, senza giudicarlo, pur nella tragica consapevolezza che la corrente del “progresso” è destinata ad investire lo stesso “osservatore”, ovvero lo stesso artista, proprio quell’ “uomo di lusso” che avrebbe dovuto chiudere il “ciclo dei Vinti”. Perciò all’altezza de I Malavoglia ritorna l’idea della morte dell’arte come civiltà. Certo il mito persiste e in modo apparentemente miracoloso Verga  riesce  a farlo rivivere relegandolo in una lontananza remota, fermato nella sua “vita anteriore” per l’ultima volta ma per sempre prima del suo dissolversi nella tragedia del tempo, nel cerchio della storia. Uscito fuori dalla dimensione della fantasticheria, posto di fronte alla “fantasmagoria” del tempo storico, già ne I Malavoglia, Verga continua così a sognare. Da sempre incerta tra “sogno” e “storia”, la sua arte si risolveva così, diventando grande per la prima volta, nel sogno della storia.


Salvatore Tinè

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