La Prefazione ad Eva
di Giovanni Verga è un testo molto utile e forse perfino illuminante per capire
il complesso, tormentato itinerario che porterà il grande scrittore catanese
dal "romanticismo" a tratti esasperato e non privo di risentimenti e
disagi "moralistici" dei suoi romanzi mondani alla scoperta del
"mondo popolare" di Aci Trezza. “Eccovi una narrazione- scrive- sogno
o storia poco importa- ma vera, com’è stata o come potrebbe essere, senza
retorica e senza ipocrisie.” Dunque la narrazione del “sogno” può essere vera,
non meno di quella della “storia”, purché sincera. L’arte che rappresenta
l’effettivo grado di corruzione morale di una società non è da considerarsi
essa stessa corrotta e nessun senso avrebbe imputare ad essa i mali che si
limita a riflettere. “Però non maledite - scrive Verga, idealmente rivolgendosi
ai suoi lettori e ai suoi potenziali detrattori, anticipando in fondo la sua
futura concezione “verista” dell’arte- la manifestazione dei vostri gusti.” E
tuttavia lo stato di corruzione della società non può non avere conseguenze
sulle stesse possibilità della sua “riproduzione” estetica. Nonostante la
difesa della legittimità del suo tentativo artistico, Verga sembra infatti
ripetere nientemeno che la celebre tesi hegeliana della “morte dell’arte”. “I
greci innamorati – scrive- ci lasciarono la statua di Venere; noi lasceremo il
‘cancan’ litografato sugli scatolini dei fiammiferi. Non discutiamo nemmeno
sulle proporzioni; l’arte era allora una civiltà, oggi è un lusso: anzi un
lusso di scioperati. La civiltà è il benessere, e in fondo ad esso, quand’è
esclusivo come oggi, non ci troviamo altro, se avete il coraggio e la buona
fede di seguire la logica, che il godimento materiale”. Dunque la mercificazione tendenzialmente
universale, “totalitaria” di ogni cosa come di ogni aspetto della vita sociale
e della stessa vita privata ridotta a mero “godimento materiale”, e così per
l’appunto “privata” di senso, ha svuotato la stessa arte di ogni funzione
sociale e perciò di ogni senso, riducendola a “lusso da scioperati”. L’arte in
senso proprio, ovvero come momento o suprema espressione di una “civiltà”
appare “morta” e sostituita da forme di produzione “estetica” che oggi
definiremmo pubblicitarie,
immediatamente funzionali alle esigenze del mercato, del tipo per
l’appunto del “cancan litografato nella scatola dei fiammiferi”. Pure proprio
in quanto “scioperata” l’arte sembra contrapporsi almeno su un piano puramente
oggettivo al culto del “positivo” come all’insensato quanto febbrile edonismo
che caratterizza la vita in una società ormai saldamente dominata dal
capitalismo finanziario e industriale. “In tutta la serietà di cui siamo invasi –
scrive Verga- e nell’antipatia per tutto ciò che non è positivo – mettiamo pure
l’arte scioperata- non c’è infine che la tavola e la donna. Viviamo in
un’atmosfera di Banche e Imprese industriali, e la febbre dei piaceri è la
esuberanza di tal vita.” Di fronte ad una realtà che rischia di schiacciarla,
l’arte non può allora che limitarsi a rappresentare nel modo più sincero e
“vero” possibile quella “febbre di piaceri”, quella apparente ma al fondo
malata “esuberanza” di vita. “Non accusate l’arte, che ha il solo torto di aver
più cuore, e di piangere per voi i dolori dei vostri piaceri. Non predicate la
moralità, voi che ne avete soltanto per chiudere gli occhi sullo spettacolo
delle miserie che create – voi che vi meravigliate come altri possa lasciare il
cuore e l’onore dove voi non lasciate che la borsa – voi che fate scricchiolare
allegramente i vostri stivali inverniciati dove folleggiamo ebbrezze amare, o
gemono dolori sconosciuti, che l’arte raccoglie e che vi getta in faccia”.
Difficile non cogliere in queste parole di Verga, insieme ad una insistita
rivendicazione della verità dell’arte, della sua “sincerità”, un forte
risentimento morale nei confronti di una società che pure lo scrittore catanese
aveva eletto a materia dei suoi romanzi e nella quale aveva teso ad integrarsi
ed affermarsi come artista e nello stesso tempo come scrittore riconosciuto e
diremmo noi oggi di “successo”. Il sostanziale rifiuto di un mondo “borghese” che forse solo in parte
poteva considerare “suo” rivela così il fondamento “moralistico” di un’arte che
pure si voleva soltanto sincera, fedele alla verità delle cose, come se soltanto nella sua verità potesse risiedere
il suo contenuto etico, tanto più profondo proprio perché implicito, tutto
risolto nelle cose ma anche nei “sentimenti”. Perciò anche il “sogno” poteva
essere essere vero, non meno della “storia”. E tuttavia questo cercato più
profondo nucleo etico dell’arte finirà sempre per sfuggire al giovane Verga dei
romanzi mondani, i quali non riusciranno mai ad attingerlo, superando un atteggiamento di pura condanna
morale di fatto “esterna” alla materia sociale che si voleva trasporre nel
racconto letterario e romanzesco. In questo senso la scelta verghiana di
distaccarsi idealmente dal mondo borghese delle grandi città dell’Italia
centrale e settentrionale e di “ritornare” in Sicilia scaturì forse dal
riconoscimento e dalla presa d’atto del fallimento estetico che accompagnava il
successo commerciale dei suo romanzi. Un fallimento che dovette tanto più
rafforzarlo nella sua idea della incompatibilità dell’arte con la logica
mercantile che governa la “civiltà della Banche e delle Imprese industriali”.
E’ in fondo questo ritorno “ideale” e non banalmente “autobiografico” che
racconta Fantasticheria, la novella
che ci appare come una “introduzione” al mondo dei pescatori di Aci Trezza,
sebbene comparirà, staccata dal grande romanzo, nella raccolta di novelle Vita dei campi. Nel chiuso e immobile
mondo dei pescatori di Aci Trezza, Verga immagina di trovare l'unica possibile
soddisfazione, o approdo alle "irrequietudini" del suo "pensiero
vagabondo", perfino aderendo ad una parte suoi valori, a quella “religione
della famiglia” che gli sembra garantire il calmo e sereno succedersi delle
generazioni in una realtà selvaggia e mitica, al limite tra natura e storia.
L'aspra denuncia moralistica della prefazione ad Eva si muta così nel sogno, nel mito fantastico di un mondo che
appare ancora al di qua della storia. Il distacco e il "giudizio"
moralistici sono superati di fronte ad un mondo primitivo che sembra imporsi da
se, sebbene evocato da una fantasticheria dello stesso scrittore borghese cui
non a caso si accompagna una bella e ricca signora, una ideale lettrice dei
suoi romanzi mondani, come venuta da un altro mondo. Ma è proprio questo
contrasto tra il mondo dell’autore e della sua stessa ideale lettrice e l’altro
creato dall’autore stesso che scomparirà totalmente nel grande romanzo. Nessuna
traccia visibile del tormentato, fantastico itinerario che ci ha condotto ad
esso, troveremo ne “I Malavoglia”. Proprio perciò essi ci appariranno una
stupefacente realizzazione dell’idea verghiana dell’”opera che si fa da sé”,
organismo vivente che vive di vita propria, proprio per la vita che ad essa ha
saputo conferirvi l’autore come scomparso dietro di essa. E come personaggi
“senza” autore, piuttosto che in cerca di esso come i fantasmi i carne ed ossa
della grande commedia pirandelliana, ci appaiono infatti i pescatori di Aci
Trezza. Si tratta allora di capire se una volta approdati al romanzo siamo
veramente usciti dal sogno che ci ha condotto ad esso, ovvero se siamo “soltanto”
veramente pervenuti a quella sua “verità” cui si alludeva nella Prefazione ad Eva da cui siamo partiti. Ma forse è
proprio la “storia” la “verità” del sogno, piuttosto che la sua negazione. La
“fantasmagoria” della lotta per la vita è il grande tema della Prefazione a I Malavoglia,
vigorosa riflessione sulla natura del “progresso”, sul suo “fatale” incessante,
cammino come sulle varie forme da esso assunte a seconda dei vari gradi della
scala sociale. Medesime appaiono così le leggi che per necessità presiedono
alla darwiniana lotta per la vita nel mondo borghese come in quello popolare,
di là dalla spettacolare “fantasmagoria” delle sue forme. Verga si sforza, ma
questa volta riuscendovi, di osservare e rappresentare questo “spettacolo” spassionatamente,
senza giudicarlo, pur nella tragica consapevolezza che la corrente del
“progresso” è destinata ad investire lo stesso “osservatore”, ovvero lo stesso
artista, proprio quell’ “uomo di lusso” che avrebbe dovuto chiudere il “ciclo
dei Vinti”. Perciò all’altezza de I Malavoglia ritorna l’idea della morte
dell’arte come civiltà. Certo il mito persiste e in modo apparentemente
miracoloso Verga riesce a farlo rivivere relegandolo in una
lontananza remota, fermato nella sua “vita anteriore” per l’ultima volta ma per
sempre prima del suo dissolversi nella tragedia del tempo, nel cerchio della
storia. Uscito fuori dalla dimensione della fantasticheria, posto di fronte
alla “fantasmagoria” del tempo storico, già ne I Malavoglia, Verga continua così a sognare. Da sempre incerta tra
“sogno” e “storia”, la sua arte si risolveva così, diventando grande per la
prima volta, nel sogno della storia.
Salvatore Tinè
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