domenica 25 ottobre 2015

A Messina con Pasolini



Al cinema Iris di Messina, nel quadro di una splendida “Settimana Pasoliniana” presento “Uccellacci e uccellini”. La prima didascalia del film che leggiamo sulla sua prima inquadratura riassume uno dei suoi temi: è una sintesi ironica di una celebre intervista a Mao, ovvero a una delle icone  e a uno dei principali riferimenti ideologici di quel ’68 che esploderà appena due anni dopo Uccellacci e uccellini. Un’intervista riassunta in questi termini: “dove va l’umanità? Boh!”. Il film ci indica quindi sin dal suo inizio il tema del futuro, ovvero del senso del cammino o della storia dell’umanità. Non a caso la didascalia è sovrapposta all’immagine in campo lungo di una strada sul cui orizzonte scorgiamo appena, piccolissimi, i due protagonisti del film che conosceremo qualche attimo dopo. La strada è appunto la metafora visiva, chapliniana della storia come cammino dell’umanità. Subito dopo conosciamo i due personaggi del film, finalmente inquadrati da vicino: un padre e un figlio, interpretati da Totò e Ninetto Davoli, in realtà interpreti di se stessi, i quali percorrono quella strada di periferia, apparentemente senza un motivo o una precisa direzione: di nuovo un tema che precorre il ’68, quello del conflitto tra le generazioni, tra la vecchia Italia cattolica e contadina, quella appunto dei padri, e la nuova Italia dei giovani, uscita profondamente trasformata dal boom economico e dai radicali processi di modernizzazione che lo hanno accompagnato. Il bar di periferia in cui  vediamo fermarsi i due protagonisti è la  prima stazione del loro viaggio, il cui svolgimento in forma poetica più che narrativa sarà appunto il film.  Allegro e sorridente, Ninetto si aggiunge ad un gruppo di ragazzi che ballano davanti al bar: una sequenza che sembra voler restituirci attraverso il movimento e il ritmo frenetico di quei giovani corpi e della loro danza, lo slancio vitale, il prepotente impulso di cambiamento che anima le giovani generazioni nell’Italia appena uscita dal boom della fine degli anni ’60. La corsa improvvisa di quei  giovani verso un autobus interrompe bruscamente il loro ballo e il cammino dei due vagabondi riprende così in una sterminata periferia, in uno spazio deserto quasi beckettiano.  E del resto vagamente beckettiano appare pure lo stesso personaggio di Totò, di cui Pasolini esalta i tratti grotteschi e assurdi della sua maschera triste, in contrasto con l’infantile allegria e la innocente vitalità da angioletto del figlio Ninetto. Le insegne stradali che scandiscono il cammino senza meta dei due personaggi indicano città e paesi di continenti diversi e così la periferia e la campagna romane finiscono per mutarsi nella periferia e nella campagna del mondo. I campi lunghi e lunghissimi, dentro i quali Totò e Ninetto sembrano perdersi, disegnano uno spazio che si fa metafora di un mondo che si è dilatato, oggi diremmo globalizzato, privo ormai di quella stabile e rassicurante distinzione tra centri e periferie che lo ha per un lunghissimo periodo storico strutturato. Si direbbe allora che il deserto della periferia sia l’immagine di una realtà assurda, svuotata ma anche l’immagine di una apertura di spazi, di nuove possibilità storiche. Non sappiamo dove vada l’umanità come ci dice Mao all’inizio del film, ma sappiamo che c’è un cammino nello spazio di un mondo che è infinitamente più vasto e aperto di quello che abbiamo conosciuto sino ad ora. Di qui il senso di libertà dei due personaggi e del loro vagabondare per le strade del mondo.  Pasolini esalta la semplicità e lo slancio della loro ingenua vitalità proletaria, l’essenziale autenticità dei loro istinti primordiali che si esprime negli impulsi della fame e del sesso, privati però adesso di quei tratti di aggressività e di violenza che li connotavano nei suoi film precedenti. Di qui il tono favolistico del film, il suo tocco di comica leggerezza quasi chapliniano. Nei titoli di testa esso viene definito “un triste girotondo” e insieme un “lieto girotondo”. Totò e Ninetto ci appaiono come l’espressione immediatamente fisica di una vitalità proletaria che non ha tuttavia più niente della collera e della violenta disperazione del sottoproletariato delle borgate romane di  Accattone. Nessuna aperta o consapevole ribellione esprime la loro, povera, nuda esistenza: e tuttavia quest’ultima si impone come una oggettiva negazione dell’ordine fondato sulla proprietà privata e la sua violenza, sebbene l’esplicita ribellione ad esso si manifesterà soltanto nell’atto del defecare sul terreno di un proprietario e poi nella fuga per sfuggire alle sue fucilate. Il cinema di poesia sembra risolversi qui nel linguaggio non-verbale dei corpi di Totò e Ninetto, nella poetica  grazia e nella sublime semplicità dei loro gesti: nello splendido apologo degli “uccellacci e degli uccellini”  i due protagonisti, nei panni di due frati francescani del Duecento, troveranno il modo di comunicare con gli uccelli nel puro linguaggio dei gesti, l’unico in grado di comunicare ad essi la religione della pace e dell’Amore.  Nella misura in cui esso libera il gesto, il cinema di poesia si pone dunque come ritorno e recupero del cinema muto. Esso non è più soltanto la “lingua scritta della realtà” ma anche la lingua proletaria del corpo.  Ma proprio l’ironico ricorso alle caratteristiche didascalie del cinema muto consente a Pasolini di esplicitare i contenuti politici ed ideologici del suo film e insieme di sottoporli tuttavia ad una spietata e dolorosa riflessione autocritica. La comicità di Totò come “uomo umano” si impone infatti come la loro critica implicita. La maschera ilare e triste, ingenua e folle dell’attore napoletano, massima espressione della vitalità e dell’ “umanità” dell’uomo si contrappone alla razionalità ossessiva e disperata del corvo marxista che come un insopportabile grillo parlante accompagna i due vagabondi in tutto il corso del loro cammino. Il corvo definisce “religione” la “ forza che un passo dopo l’altro” fa muovere i due pellegrini “lungo una strada che nessuno sa”, quella in cui crede siano destinate a convergere tutte le altre. Una religione che li rende “beati”, espressione di una forza inattingibile per lui, i cui genitori sono non a caso il “Dubbio” e la “Coscienza”. Ma qui “passione” e “ideologia” si intrecciano e insieme si contraddicono. L’apologo francescano che viene recitato dagli stessi Totò e Ninetto è tuttavia raccontato dal corvo. Esso non è quindi tanto l’espressione di quella “religione” immanente nella vitalità proletaria dei due pellegrini quanto della concezione della religione  propria dell’intellettuale marxista, ovvero della religione che si nasconde nella sua ideologia e che viene esplicitata nello splendido discorso di Francesco d’Assisi: la profezia di quest’ultimo, dell’avvento di una sorta di Messia marxista, quindi la rivendicazione di una religione fondata sull’impegno politico quotidiano contro l’oppressione e la diseguaglianza tra le classi come condizione per l’avvento di un mondo all’insegna dei valori evangelici di amore e di pace sembra intrecciare e conciliare una prospettiva religiosa e apocalittica con una concezione della storia come graduale progresso della coscienza. L’incontro tra il corvo e i due pellegrini è allora la metafora di quello tra la concezione della religione che il corvo rende esplicita nel discorso di Francesco e quella “religione” che è lo stesso cammino senza meta dei due vagabondi, ovvero la metafora del disperato tentativo dell’intellettuale marxista di portare al livello della coscienza e della storia come storia di lotta di classi la vitalità proletaria, al di qua o al di là della storia, che si incarna in Totò e Ninetto. Ma al corvo che gli chiede dove stiano andando, Totò risponde semplicemente “laggiù, in fondo”: il suo senso della vita è proprio il contrario di una prospettiva finalistica. Perciò il suo unico senso è la morte in cui la vita si compie, di contro ad ogni dimensione storica. Significativo in questo senso il dialogo tra Totò e Ninetto sulla vita e la morte: quando uno muore, dice Totò- rispondendo ad una ingenua domanda del figlio su come si passi dalla vita alla morte- vuol dire che tutto quello che doveva fare lo ha fatto. Una didascalia ci informa che il corvo “è un intellettuale marxista di prima della morte di Togliatti”. E qui Pasolini introduce un altro elemento essenziale per definire la dimensione storica del film. I giovani che danzano all’inizio del film, come il paesaggio urbano e le industrie che di tanto in tanto scorgiamo nella campagna sterminata ci dicono che siamo appunto nell’Italia “di dopo la morte di Togliatti”. La splendida sequenza dei funerali, montata con soli documenti di repertorio è una delle più grandi pagine del cinema di Pasolini. La morte di Togliatti è la fine di una certa Italia contadina e proletaria, quella che ha vissuto le lacerazioni terribili del fascismo e della guerra ma anche le grandi speranze di rinnovamento e di trasformazione radicali della società del dopoguerra, della Resistenza  e degli anni ’50, il decennio in cui si svolge la formazione politica e ideologica di Pasolini. La sua fine Pasolini la racconta attraverso il pianto, il dolore e la disperazione di una folla sterminata che nel film si fa immagine di una comunità, ovvero di un popolo che attraverso il partito si è data una coscienza. E’ forse tra tutte le sequenze dei suoi film quella in cui meglio Pasolini ha saputo risolvere nel cinema la sua poesia civile e l’ideologia populista che vi si esprime. Si direbbe che qui “passione” e “ideologia” per una volta, si confondono completamente, di là dal loro lacerante conflitto che scandisce la poesia e il cinema di Pasolini, di là da quello “scandalo del contraddirmi” che Pasolini confessava a Gramsci davanti alla sua tomba, in versi celebri del poemetto Le ceneri di Gramsci. Non più soltanto “estetica passione” come lo stesso Pasolini la definiva in quei versi, qui la visione “sacrale” del popolo, tutta figurativamente risolta nelle immagini di repertorio dei funerali, riassume e condensa, infatti, la stessa passione politica di Pasolini. L’ideologia si fa passione. Ciò non toglie tuttavia che questa identificazione avvenga nel segno della morte, del dolore, della “passione” intesa anche in senso cristologico: i pugni chiusi dei proletari che sfilano davanti al feretro di Togliatti sembrano scandire un rito religioso, come le stesse bandiere rosse a lutto sotto le quali si compone e  raccoglie il popolo fattosi comunità politica. Se la morte di Togliatti è la fine di un’epoca storica, essa ne è anche il compimento, racchiudendone il senso. Ancora una volta, secondo le parole di Totò che citavamo prima, la vita si compie nella morte. Nel film tuttavia a questo motivo se ne accompagna e intreccia un altro, apparentemente opposto: quello della identità tra vita e morte intesa nel senso del ciclo, ovvero l’idea della morte come rinascita della vita. Ancora una volta si tratta di un motivo che in Pasolini non è esente da tratti cristologici. La morte del corvo, mangiato da Totò e Ninetto è appunto la metafora di questa potenza della vita che si incarna nei due vagabondi. La concezione della vita e del mondo espressione di un epoca storica ormai compiutasi viene digerita e quindi assimilata da Totò e Ninetto. E’ lo stesso Pasolini a suggerire didascalicamente questa interpretazione nella citazione ironica di una frase del grande filologo Giorgio Pasquali: “i professori vanno mangiati sempre in salsa piccante, perché chi se li mangia diventa un po’ professore anche lui”.  Io credo che qui il registro ironico sia fondamentale per capire la conclusione del film, se di una vera e propria conclusione possiamo parlare e il suo stesso senso e quindi il senso della sua poesia. Per un verso l’immagine delle ceneri del corvo, inquadrate in primo piano da Pasolini, forse evocative di quelle di Gramsci, sono in questo senso anche l’immagine-simbolo del martirio: l’intellettuale mangiato dai due sottoproletari si fa martire e la sua vita e il suo impegno acquistano il loro senso in questa fine. Ma per un altro verso questo compimento si configura nello stesso tempo come l’inizio di una nuova storia e di una nuova vita. Perciò l’intellettuale marxista non può che finire mangiato. L’atto del mangiare è nello stesso tempo l’espressione della eterna Fame dei due vagabondi e insieme un rinnovato ma laico rito eucaristico: mangiando il corvo, Totò e Ninetto ne digeriscono e assimilano alcuni essenziali “insegnamenti” impliciti nelle sue parole e diventano almeno un po’ come lui. Dunque la morte come compimento e insieme passaggio ad un “al di là” storico e terrestre. La morte del corvo, ovvero quella di Pasolini acquista non a caso un senso liberatorio che non ha quella di Togliatti nella sequenza dei funerali. Ci si libera della “ideologia” solo assimilandola. “Il cammino è appena iniziato, ma il viaggio è già finito.”, dice il corvo, all’inizio del film. Ma in fondo se un cammino può ancora darsi è proprio perché il viaggio è finito. In realtà ogni “viaggio” è sempre già finito, il suo “fine” dandosi infatti in esso come già predeterminato nel suo inizio, come “compimento” di quest’ultimo. Se allora la morte di Togliatti sembra volerci dire che la storia è finita, quella del corvo ci suggerisce invece che è  finita una certa concezione finalistica della storia, di là dalla quale propria la storia potrà continuare sebbene non verso uno scopo o un fine predeterminato ma verso quel “laggiù” indicato da Totò e che non conosciamo ancora.


Salvatore Tinè

domenica 11 ottobre 2015

Odissea nello spazio


Catania, 3 agosto 2015. All'Argentina rivedo, ma per la prima volta sul grande schermo, "2001 Odissea nello spazio". Mi è capitato di rileggere alcune pagine dell'"Ulisse" di Joyce proprio in questi giorni. Perciò rivedo l'"Odissea" di Kubrick ancora suggestionato da quella dell'irlandese. In fondo, anche il capolavoro di Joyce è un'Odissea nello spazio, lungo l'arco temporale di un giorno immensamente dilatato. Alla fine di una interminabile passeggiata nella sua Dublino, Bloom ritrova il letto di Molly, il cui enorme sedere assurge nel racconto di Joyce a metafora del mondo; alla fine del suo viaggio, "oltre" l'infinito spazio-temporale dell'universo sconosciuto, l'astronauta ritrova invece se stesso, prima invecchiato e poi addirittura sulla soglia della morte, prima di trasformarsi in un gigantesco  bambino cosmico. Dunque due viaggi diversissimi ma accomunati dal loro svolgersi nello spazio piuttosto che nel tempo, ovvero due Odissee in cui l'interiorità della "coscienza", della "soggettività" dei loro rispettivi protagonisti finisce per rendersi indistinguibile dallo "spazio" in cui si svolgono le loro vicende. Come l'"Ulisse" di Joyce, anche l'Odissea di Kubrick problematizza fino a dissolverli i confini tra soggetto e oggetto, come tra natura e tecnica, tra pensiero e sensibilità. L'enigmatico monolito il cui periodico ritorno  lega tra loro gli episodi pur nei vertiginosi salti temporali che li separano, si presenta così come una figura geometrica e astratta, forse prodotta da una intelligenza extra-terrestre e insieme un inquietante totem arcaico. Ma se nel capolavoro di Joyce il racconto si risolveva tutto nell'oggettività del flusso magmatico della vita colta nella pura esteriorità del suo manifestarsi, di là da ogni rigida separazione tra "soggetto" e "oggetto", tra "io" e "mondo", nel film di Kubrick la vicenda narrata si presenta come mera visione, puro spettacolo di immagini e colori, una sorta di "opera d'arte totale" in cui tuttavia il cinema ambisce a farsi pensiero, sguardo assoluto sulla realtà, scienza e arte insieme. Ed è forse proprio questa superiore potenza della visione l'unico senso dell'umano che Kubrick ci restituisce in questo film: gli immensi spazi interstellari, il loro pauroso buio cosmico sono pur sempre inquadrati dentro il campo visivo dello sguardo, ora tranquillo, ora atterrito ma sempre lucido e freddo dell'astronauta Bowman. Dissolti il tempo e la storia umani nell'immobilità dello spazio, la visione di quest'ultimo, sia essa quella di una scimmia antropoide o di un moderno Ulisse perso tra le stelle, racchiude forse ancora la possibilità di un futuro.

Salvatore Tinè

venerdì 9 ottobre 2015

Alice nel paese delle meraviglie.


All'Argentina per "Eyes wide shut". Dopo tanti anni rivedo il film di Kubrick. Una sequenza in particolare mi colpisce: quella in cui Bill piange tra le braccia di Alice, per la prima volta senza la "maschera" che l'ha diviso dalla moglie, di nuovo "nudo" dinanzi a lei nuda come nella prima scena del film, ma questa volta anche nell'anima e non solo nel corpo. Difficile dire se è un pianto liberatorio o soltanto disperato. Ma la carezza quasi materna di Alice e l' amore tenero e triste per il marito che sembra esprimere sono un grande momento di cinema e anche di poesia, in un film pure così "perturbante" e a tratti perfino terribile. Finalmente fuori dall'incubo del suo "paese delle meraviglie", l'Alice di Kubrick conserva ancora qualche tratto "salvifico" della Eleonora beethoveniana del "Fidelio", sebbene non sia stata lei ma un'altra donna già morta a trar fuori il marito dall'incubo da quale ha rischiato di non uscire più. Così, anche se per per vie tortuose e traverse, anche qui, l'amore coniugale finisce per  trionfare come nel finale dell'unica opera lirica di Beethoven  "Ti voglio bene" dice Alice a Bill, quando lei come lui sono finalmente "svegli, usciti, forse perfino indenni, dal "doppio sogno" che li ha divisi. "C'è una sola cosa che dobbiamo fare, subito: scopare" dice Alice nell'ultima battuta del film. Dunque solo da svegli ci si ama; solo da sposati "si scopa".

Salvatore Tinè