domenica 11 ottobre 2015

Odissea nello spazio


Catania, 3 agosto 2015. All'Argentina rivedo, ma per la prima volta sul grande schermo, "2001 Odissea nello spazio". Mi è capitato di rileggere alcune pagine dell'"Ulisse" di Joyce proprio in questi giorni. Perciò rivedo l'"Odissea" di Kubrick ancora suggestionato da quella dell'irlandese. In fondo, anche il capolavoro di Joyce è un'Odissea nello spazio, lungo l'arco temporale di un giorno immensamente dilatato. Alla fine di una interminabile passeggiata nella sua Dublino, Bloom ritrova il letto di Molly, il cui enorme sedere assurge nel racconto di Joyce a metafora del mondo; alla fine del suo viaggio, "oltre" l'infinito spazio-temporale dell'universo sconosciuto, l'astronauta ritrova invece se stesso, prima invecchiato e poi addirittura sulla soglia della morte, prima di trasformarsi in un gigantesco  bambino cosmico. Dunque due viaggi diversissimi ma accomunati dal loro svolgersi nello spazio piuttosto che nel tempo, ovvero due Odissee in cui l'interiorità della "coscienza", della "soggettività" dei loro rispettivi protagonisti finisce per rendersi indistinguibile dallo "spazio" in cui si svolgono le loro vicende. Come l'"Ulisse" di Joyce, anche l'Odissea di Kubrick problematizza fino a dissolverli i confini tra soggetto e oggetto, come tra natura e tecnica, tra pensiero e sensibilità. L'enigmatico monolito il cui periodico ritorno  lega tra loro gli episodi pur nei vertiginosi salti temporali che li separano, si presenta così come una figura geometrica e astratta, forse prodotta da una intelligenza extra-terrestre e insieme un inquietante totem arcaico. Ma se nel capolavoro di Joyce il racconto si risolveva tutto nell'oggettività del flusso magmatico della vita colta nella pura esteriorità del suo manifestarsi, di là da ogni rigida separazione tra "soggetto" e "oggetto", tra "io" e "mondo", nel film di Kubrick la vicenda narrata si presenta come mera visione, puro spettacolo di immagini e colori, una sorta di "opera d'arte totale" in cui tuttavia il cinema ambisce a farsi pensiero, sguardo assoluto sulla realtà, scienza e arte insieme. Ed è forse proprio questa superiore potenza della visione l'unico senso dell'umano che Kubrick ci restituisce in questo film: gli immensi spazi interstellari, il loro pauroso buio cosmico sono pur sempre inquadrati dentro il campo visivo dello sguardo, ora tranquillo, ora atterrito ma sempre lucido e freddo dell'astronauta Bowman. Dissolti il tempo e la storia umani nell'immobilità dello spazio, la visione di quest'ultimo, sia essa quella di una scimmia antropoide o di un moderno Ulisse perso tra le stelle, racchiude forse ancora la possibilità di un futuro.

Salvatore Tinè

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