mercoledì 22 ottobre 2014

Inoperosità


Il IX libro della Metafisica di Aristotele è da considerarsi una delle basi da cui ripartire per ridefinire non solo una nuova politica ma anche una nuova etica adeguate al mondo odierno. Il suo tema infatti, quello del rapporto tra "possibile" e "reale" è  squisitamente teoretico e insieme fondamentale per definire il senso dell'etica e della politica, ovvero del nostro vivere nel mondo ma per trasformarlo. E' forse possibile pensare la "trasformazione", il movimento politico teso a cambiare il mondo di cui pure siamo parte sulla base della nozione aristotelica di "movimento", perfino recuperando almeno qualcosa della tensione "finalistica", "teleologica" ad essa immanente, ma di la da ogni astratta "teologia" o "trascendenza". Il movimento per Aristotele è il passaggio dalla potenza all'atto, ovvero dalla possibilità alla realtà. Aristotele tiene fermo alla distinzione tra possibilità e realtà di contro ad ogni loro astratta identificazione del tipo di quella che caratterizza la ripresa megarica dell'eleatismo e tuttavia una autentica possibilità non è un mero "desiderio", destinato a restare tale, ma capacità, proprietà di tradursi in realtà. E' in fondo il passaggio dalla possibilità alla realtà il presupposto teorico fondamentale della hegeliana dialettica del lavoro ('ergon' in Aristotele da cui deriva "energheia") Ma Aristotele tuttavia lo pensa a partire dal primato, dall'anteriorità dell'atto, ovvero del suo "fine" ad esso immanente. Pensare il movimento come realizzarsi della potenza significa pensare il movimento a partire dal suo "principio", dalla sua "forma": ciò che non significa risolverlo in mera parvenza. La stessa "prassi" di Marx affonda qui le sue radici e non certo nella celebrata "inoperosità" della "potenza", di fatto dissolta in mera, astratta possibilità, in sostanziale impotenza di certo "heideggerismo". Dunque, il lavoro come movimento, certo, ma movimento dotato di forma, ontologicamente alternativo all'impotente tensione infinita ad uno scopo ad esso esterno come in tutte le varianti borghesi del moderno "faustismo": tensione ad una finalità, certo, ma si direbbe kantianamente "senza scopo" ad esso esterno. Lo sviluppo "fine a stesso" delle facoltà umane attraverso il lavoro reso compiutamente ed effettivamente "sociale" di cui parlava Marx non ha in questo senso niente a che vedere con l'idea tipicamente borghese della "infinità" dello sviluppo e "recupera" certamente qualcosa della tensione alla "forma" e al "limite", ovvero alla "finitezza" così caratteristica della grecità
Di fronte a tanti compagni o ex-tali che parlano entusiasti della "inoperosità" come di una "nuova" idea della filosofia, della "ontologia" come qualcuno si spinge a rivendicare, e paradossalmente perfino della politica, mi viene da pensare da comunista ma più in generale da "progressista" che bisognerebbe riproporre una nuova "etica del lavoro" come nucleo di una rinnovata "filosofia della prassi" riveduta e corretta, ma anche dell'unica, seriamente pensabile ontologia, quella dell'essere sociale, ovvero dell'uomo che "opera" lavorando perchè così pensa e insieme crea se stesso, facendo soltanto di se stesso il proprio fine, non quindi semplicemente assumendo "liberamente" come fantasticano Nietzsche ed Heidegger e i loro nipotini di "sinistra", il proprio "destino", ma operosamente costruendolo sul terreno "ontologico" e "materiale" del lavoro e della prassi.

Salvatore Tinè

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