venerdì 3 ottobre 2014

Il pince-nez di Ejzenstejn


Il grande Zar è solo. Solo contro tutti. La sua ambizione di rappresentare nella sua persona fisica la nazione, la terra russa, il popolo lo consegna ad una terribile, tragica solitudine come ad un'esistenza "vuota". In "Ivan il Terribile", Ejsenstejn ci parla del potere, attraverso le sue immagini, i suoi riti solenni, le sue sacre simbologie. Il potere è in primo luogo immagine, spettacolo esteriore, pura manifestazione di sè e della sua "gloria", ma anche appunto "rappresentazione". Impossibile infatti è separare Ivan dalla maschera simbolica del suo potere; impossibile cogliere di là da quella maschera, la sua interiorità e la sua psicologia individuali destinate a restare del tutto misteriose e inafferrabili per tutto il film; impossibile separare il suo corpo individuale, "privato", dal suo corpo sacro, "pubblico". Il potere è "rappresentazione" paradossalmente proprio per la sua distanza, differenza ineliminabile da ciò che che "rappresenta", sia esso Dio il popolo o la nazione. In questo senso nessuna cosa più di esso potere si presta ad essere "rappresentata" meglio attraverso il cinema ovvero ovvero il linguaggio delle immagini. A Ejzenstejn, Stalin rimproverò di avere rappresentato Ivan come un Amleto. Credo si tratti di un rimprovero sbagliato: il protagonista del film ci appare infatti del tutto di "interiorità" e di "psicologia". Tuttavia il suo potere per quanto "pubblico" nella sua manifestarsi, sembra tuttavia esercitarsi solo dentro uno uno spazio chiuso, chiuso nelle stanze del palazzo. Ejsenstejn ci conduce dentro gli "interni" angusti, bui, claustrofobici, di quelle stanze. Per una volta le masse, il popolo sono quasi del tutto assenti, come se solo del Potere ci fosse storia. Come se la lotta "eterna" tra lo Stato o l'Impero da un lato e i signori feudali dall'altro avesse sostituito la lotta tra le classi ovvero quella tra l'aristocrazia di fatto "alleata" della monarchia assoluta e le masse popolari. La lotta "per" il potere e non quella "contro" di esso è infatti al centro della riflessione del grande regista sovietico. La rappresentazione di tale lotta è grandiosa. Tale cosi radicale cambiamento dell'"oggetto" della rappresentazione, appunto non più "le masse" ma il "potere", determina infatti un cambiamento dello stile e perfino della stessa concezione del cinema. Per la prima volta, in Ejsenstejn il cinema non è più solo montaggio ma "inquadratura". Il movimento "rivoluzionario" di scomposizione e ricomposizione soggettiva e intellettuale della realtà viene sostituito da inquadrature lente e statiche. Se prima il cinema comprendeva il mondo trasformandolo attraverso il montaggio ora esso lo comprende "inquadrandolo". Ciò perchè la realtà inquadrata adesso è il potere ovvero la storia "eterna" delle classi dominanti. Da politico, il cinema si è fatto storico. Il grande occhio del Cristo Pantocratore che vediamo campeggiare in una superba inquadratura del film di Ejsenstejin è la metafora visiva di questo cinema storico, del suo sguardo tendenzialmente onnicomprensivo e perciò statico. Allo sguardo "parziale", "cubista", che scomponeva il reale per trasformarlo dei film militanti di Ejsenstejn fa ora seguito uno sguardo totale, che nella misura in cui tende a cogliere la totalità della storia, di là dalla molteplicità dei suoi punti di vista, per ciò stesso sembra arrestarne il movimento. Lo spazio prevale così sul tempo fino ad annullarlo. Di qui il senso di claustrofobia che il film ci comunica: la chiusura dello spazio fa premio sull'apertura del tempo.  Non ci vuole molto a capire in realtà che l'occhio del Cristo è quello del potere, ovvero l'occhio che ci guarda. Non siamo più noi a guadare la realtà, ma è la realtà che "guarda" noi. "Chi cerca non trova ma chi non cerca viene trovato", ha detto una volta Kafka e Ejzenstejn o meglio il suo sguardo "ci trova". Siamo al di là del pinz-nez de La Corazzata Potemkin, la visione "microscopica" e "analitica" che dilatava i vermi della carne putrefatta, grandiosa metafora visiva della leniniana "putrescenza" del capitalismo maturo, ovvero del suo "potere" già morto, sebbene non ancora caduto. In "Ivan il Terribile", la lettura ejsenstejniana del potere è, invece, assolutamente teologica, o meglio teologico-politica. Perciò nessun "potere dell'occhio" (quale quello del pince -nez de "La Corazzata Potemkin) si contrappone più all'"occhio del potere".

Salvatore Tinè.

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