Internazionalismo e questione nazionale nel pensiero
di Gramsci.
Quello del rapporto tra
internazionalismo e questione nazionale è uno dei temi fondamentali del
pensiero gramsciano in tutto l’arco della sua evoluzione. Già in alcuni
articoli del 1918, il giovane Gramsci sottolineava la permanente vocazione
cosmopolitica del sistema di produzione capitalistica. Una vocazione che gli appariva particolarmente evidente nei
settori più avanzati del capitalismo mondiale, ovvero nei grandi gruppi
industriali e finanziari inglesi e americani. Sono questi gruppi infatti a
sostenere, secondo Gramsci, il disegno wilsoniano di un nuovo ordine mondiale
fondato insieme sul principio della libertà e dell’indipendenza dei popoli e delle nazioni e su quello della libertà
degli scambi internazionali. Libero da ogni residuo di particolarismo feudale
così come dalle varie forme di statalismo e di protezionismo burocratico e
corporativo, caratteristiche dei grandi paesi dell’Europa continentale, il
modello capitalistico anglosassone si presenta come l’espressione più matura
della logica internazionalistica e liberoscambista propria della moderna
economia borghese. Scrive Gramsci in un articolo intitolato La Lega della Nazioni, pubblicato su Il Grido del popolo, il 19 gennaio 1918.
L’economia borghese ha così suscitato le grandi
nazioni moderne. Nei paesi anglosassoni è andata oltre: all’interno la pratica
liberale ha creato meravigliose individualità, energie sicure, agguerrite alla
lotta e alla concorrenza, ha discentrati gli Stati, li ha sburocratizzati: la
produzione, non insidiata continuamente da forze non economiche, si è
sviluppata con un respiro d’ampiezza mondiale, ha rovesciato sui mercati
mondiali cumuli di merce e di ricchezza. Continua ad operare; si sente
soffocata dalla sopravvivenza del protezionismo in molti dei mercati europei e
del mondo.[1]
Di qui l’interesse della
“borghesia liberista anglosassone” al superamento delle divisioni
nazionali e dei contrasti politici e
militari tra i vari stati in cui pure continuava ad articolarsi la struttura
della politica e dell’economia mondiali.
Rappresenta, la Lega delle Nazioni, un superamento
del periodo storico delle alleanze e degli accordi militari: rappresenta un
conguagliamento della politica con l’economia, una saldatura delle classi
borghesi nazionali in ciò che le affratella al di sopra delle differenziazioni
politiche: l’interesse economico. Ecco perché l’ideologia si è affermata
vittoriosamente nei due grandi Stati anglosassoni, liberisti e liberali.[2]
Si comprende allora la dura
polemica del giovane Gramsci contro il “nazionalismo”: quest’ultimo rappresenta
infatti per il pensatore sardo un fenomeno ideologico e politico caratteristico
di borghesie deboli e arretrate ovvero di piccole borghesie retrive e
reazionarie.
La classe borghese, sul piano economico, è
internazionale; deve, necessariamente, saldarsi, attraverso le differenziazioni
nazionali; la sua dottrina di classe è il liberalismo in politica e il
liberismo in economia. [...] Il nazionalismo, come dottrina politica e come
dottrina economica, si restringe necessariamente agli interessi di categorie
singole di produttori, sceglie, nella classe, i nuclei già formati e
consolidati, e tenta perpetuarne il dominio e il privilegio.[3]
Lo stesso processo di genesi e di
formazione delle grandi nazioni europee aveva
rappresentato la prima grande manifestazione della tendenza propria del
mondo moderno ad assumere forme di
organizzazione economica e politica sempre più larghe ed espansive, sia di tipo
nazionale che sovra-nazionale. Una tendenza destinata a culminare nel
superamento delle divisioni nazionali e della stessa forma politica dello
Stato-nazione. In tal senso, di contro ad ogni visione statica o
“sovra-storica” delle realtà delle nazioni, Gramsci sottolineava con grande
forza la transitorietà ovvero la “storicità” di queste ultime.
[la nazione] non è alcunché di stabile e di
definitivo, ma è solo un momento dell’organizzazione economico-politica degli
uomini. [...] Essa si è allargata dal Comune artigiano allo Stato nazionale,
dal feudo nobilesco allo Stato nazionale borghese. […] Tende ad allargarsi
maggiormente, perché le libertà ed autonomie realizzate finora non bastano più,
tende a organizzazioni più vaste e comprensive: la Lega delle Nazioni borghesi,
l’Internazionale proletaria.[4]
Al progetto di un nuovo ordine
nazionale garantito dalla Lega delle Nazioni,
il giovane Gramsci ancora legato alla tradizione liberale e liberista
che tanto aveva influenzato la sua formazione intellettuale e politica, guarda
con evidente simpatia.[5] Non a
caso egli sottolinea l'autorità e il prestigio che la figura di Wilson riscuote
tra "i socialisti e il proletariato organizzato"[6]. "La
concezione del mondo implicita nei messaggi del presidente americano e nel
progetto della Lega delle Nazioni" coincide per Gramsci con "quella
presupposta dalla dottrina marxista per l'avvento dell'Internazionale
socialista"[7]. La
concezione internazionalistica della rivoluzione operaia era scaturita infatti
dall'elaborazione critica della tradizione economica pacifista e
liberoscambista che Cobden aveva predicato in tutta Europa. In continuità con
tale tradizione il disegno di pace di Wilson preparava così oggettivamente il
terreno storico all'avvento dell'internazionalismo operaio. Tuttavia le
prospettive di realizzazione della strategia del presidente americano
apparivano a Gramsci strettamente legate ai destini del nuovo stato sorto dalla
Rivoluzione d'Ottobre, nel quale Gramsci
individuava il primo e più potente motore del processo di ricostruzione di una
nuova unità mondiale.
L'avvenire delle nazioni e dei popoli dovrà ai
massimalisti russi le maggiori garanzie di pace che certamente saranno
assicurate. [...] Il programma di Wilson, la pace delle nazioni, si avvererà
solo per il sacrifizio della Russia, per il matrimonio della Russia. [...]
Wilson lo ha sentito, e ha reso omaggio
a quelli che pure sono anche i suoi avversari.[8]
La realizzazione del disegno
wilsoniano avrebbe infatti condotto il processo di unificazione mondiale al suo
compimento, sia pure dentro i limiti invalicabili della produzione
capitalistica, ponendo così le basi di una nuova struttura del mondo, non più
centrata sul tradizionale sistema westfaliano dell'equilibrio degli stati, ma sulla formazione attorno alla
Società delle Nazioni di una sorta di super-stato di tipo cosmopolitico, anche
se ad egemonia anglosassone o americana. In tal senso un'economia sempre più
internazionalizzata avrebbe avuto la possibilità di adeguare alle sue esigenze
di crescita su scala mondiale le stesse forme istituzionali del governo e della
politica trascendendone i tradizionali confini nazionali. In continuità con
tale motivo della sua riflessione giovanile, nei Quaderni Gramsci individuerà proprio nella contraddizione tra il "cosmopolitismo
dell'economia" e il "nazionalismo della politica" una delle
cause fondamentali della crisi generale del mondo capitalistico. La società
capitalistica sarebbe entrata in una fase del suo sviluppo caratterizzata dal
pieno dispiegamento dell'individualismo proprietario e dal conseguente declino
storico dello Stato-nazione.
Noi crediamo che dei fatti politici di straordinaria
grandezza siano in maturazione e crediamo che la discussione del problema dei
superstati ne sia appunto il sintomo esteriore. In seno a tutte le singole
nazioni del mondo esistono energie capitalistiche che hanno interessi
permanentemente solidali tra loro: queste energie vorrebbero assicurarsi
garanzie permanenti di pace, per svilupparsi ed espandersi. Esse cercano di
rivelarsi e cercano di organizzarsi internazionalmente: la Società delle
Nazioni è l'ideologia che fiorisce su questa solida base economica [...] La
legge intrinseca del regime opera necessariamente e implacabilmente e porta al
costituirsi di questi mastodontici organismi economico-politici.[9]
Gli imperi inglese e americano
appaiono agli occhi di Gramsci come l'espressione di "una forma nuova di
società" capace in virtù del suo dinamismo e della sua modernità economica
di avviare a soluzione perfino i contrasti e le divisioni nazionali.
Interessante a tal proposito è quanto scrive Gramsci a proposito del
"problema delle nazionalità" nell'ambito dell'impero inglese.
Gli inglesi hanno incominciato ad attuare nel loro
impero la forma nuova di società, trasformando il territorio dei loro domini in
una colossale federazione di nazioni -poichè le colonie inglesi sono ormai
diventate delle vere nazioni, a sviluppo economico notevole, e tra gli indigeni
sono sorte le classi sociali, e la borghesia indigena sente di essere unita da
vincoli di solidarietà con la borghesia della madre-patria. Gli inglesi hanno
risolto il problema delle nazionalità, hanno cercato con la federazione di
evitare la secessione, di veder sfasciarsi la formidabile concentrazione di
capitali che rappresenta l'Impero britannico.[10]
Evidente appare la
trasfigurazione dei rapporti di dipendenza economica e politica tra
l'imperialismo inglese e i popoli coloniali ad esso soggetti e la
sottovalutazione della "questione coloniale". Anche l'assoggettamento
delle nazioni capitalisticamente più arretrate ad una possibile
"federazione" degli imperi globale e americano appare a Gramsci come
una prospettiva non solo probabile ma perfino auspicabile. Sono particolarmente
le "nazioni latine" ovvero l'Italia e la Francia ad apparirgli meno
avanzate dell'Inghilterra e degli Stati Uniti sul piano dell'evoluzione
economica come su quello dello sviluppo politico: perciò esse sono
inevitabilmente costrette "a diventare satelliti della nuova formidabile
forza storica che si sta costituendo". Ma anche la Germania e l'Austria
non avrebbero potuto che soccombere all'immensa forza egemonica del mondo anglosassone.
Solo dentro un tale scenario, caratterizzato dall'ingresso nel mercato mondiale
degli stati più deboli e arretrati anche a scapito della loro stessa autonomia
e indipendenza nazionale, appare a Gramsci possibile uno sviluppo pacifico del
quadro mondiale.
E la pace? Forse sarà assicurata proprio da questo
costituirsi di una immane potenza, contro cui ogni altra sarebbe debole e si
frangerebbe nel cozzo. La necessità di vita costringerà i minori Stati a
rinunziare alla loro assoluta indipendenza per resistere alla libera
concorrenza scatenata su così vasta base.
La pace sarà data dal predominio, - ottenuto per sviluppo spontaneo di
potenza economica - del mondo anglosassone: anche la Mitteleuropa dovrà piegar
il capo ed assoggettarsi.[11]
E' soprattutto nell'internazionalismo di
Wilson che la immane "potenza economica" del mondo anglosassone trova
la sua più chiara espressione politica e ideologica: Gramsci ne esalta il
significato progressivo dell'internazionalismo wilsoniano: in aspra polemica
con i cattolici italiani ne sottolinea insieme la matrice calvinista e il carattere
moderno, diametralmente contrapposto al "cosmopolitismo" della Chiesa
romana, di natura "gerarchica" e "feudale".
L'internazionalismo di Wilson si presenta, agli occhi di Gramsci una delle più
straordinarie manifestazioni del dinamismo economico e della modernità
culturale prima ancora che politica del capitalismo americano. Il tema
dell'"americanismo" destinato com'è noto a tornare nella più matura
riflessione dei Quaderni, è in tal
senso uno degli aspetti fondamentali della concezione dell'internazionalismo
propria del giovane Gramsci.[12]
Per una predicazione simile a quella del presidente
Wilson, il papa è stato privato del potere temporale e i sudditi si sono
ribellati alla sua autorità teocratica: l'ideologia wilsoniana della Società
delle Nazioni è l'ideologia propria del
capitalismo moderno, che vuole liberare l'individuo da ogni ceppo autoritatio
collettivo dipendente da struttura economiche precapitalistiche, per instaurare
la cosmopoli borghese in funzione di una più sfrenata gara all'arricchimento
individuale, possibile solo con la caduta dei monopoli nazionali dei mercati
del mondo: l'ideologia wilsoniana è anticattolica, è antigerarchica, è la
rivoluzione capitalistica demoniaca che il papa ha sempre esorcizzato, senza riuscire
a difendere contro di essa il patrimonio tradizionale economico e politico del
cattolicismo feudale.[13]
Convinto che il comunismo altro
non sia che l'effettivo compimento della modernità, Gramsci tende in questra
fase del suo pensiero ad accentuare fortemente gli elementi di continuità della
rivoluzione bolscevica con i principi liberali, soprattutto nella loro versione
anglo-sassone, piuttosto che quelli di conflitto o di rottura. Come è stato
opportunamente notato egli "sembra sottovalutare l'asprezza dello scontro
già in atto tra Russia sovietica e movimento comunista da un lato e Occidente
capitalista, compresa la sua componente liberale, dall'altro"[14]. Non
sfuggiranno tuttavia a Gramsci il carattere pur sempre imperialista della
nascente egemonia statunitense e le modalità in cui essa viene manifestandosi
in un quadro internazionale, certo tutt'altro tutt'altro che pacificato. Soprattutto
a partire dagli scritti del 1919, la sua attenzione viene sempre più
concentrandosi sui caratteri monopolistici e imperialistici del capitalismo
anglo-americano di cui cure aveva in passato teso ad evidenziare come si è
visto le tendenze liberali e liberoscambiste. Il nuovo quadro delle
contraddizioni inter-imperialistiche che viene via via delineandosi insieme ai
fallimenti delle varie ipotesi di riorganizzazione pacifica della struttura del
mondo inducono Gramsci, in alcuni articoli del 1919, a denunciare in termini in
termini netti il carattere astratto e utopistico dell'ideologia
liberoscambista: quest'ultima gli appare adesso del tutto inadeguata a
comprendere la reale struttura dei rappporti internazionali caratteristica
dell'epoca del capitalismo monopolitistico e imperialistico. L'unificazione
capitalistica del mondo si è effettivamente realizzata ma solo attraverso il
brutale assoggettamento degli stati capitalisti più deboli ad una ristretta
oligarchia industriale e finanziaria
composta dai grandi gruppi monopolistici inglesi e americani. L'unificazione
capitalistica lungi dal configurarsi come l'avvento di una pacifica struttura
del mondo all'insegna dell'unità e dell'interdipendenza tra le nazioni è in
realtà la conseguenza di un profondo riassetto delle gerarchie del potere
mondiale e di una nuova divisione internazionale del lavoro immediatamente
funzionale agli interessi dell'imperialismo anglo-americano. Scrive in un
articolo su L'Ordine nuovo, del 15
maggio 1919:
Il mito della guerra - l'unità del mondo nella
Società delle Nazioni - si è realizzato nei modi e nella forma che poteva
realizzarsi in regime di proprietà privata e nazionale: nel monopolio del globo
esercitato e sfruttato dagli anglosassoni. La vita economica e politica degli Stati
è controllata strettamente dal capitalismo angloamericano. [...] Lo Stato
nazionale è morto, diventando una sfera di influenza, un monopolio in mano a
stranieri. Il mondo è "unificato" nel senso che si è creata una
gerarchia mondiale che tutto il mondo disciplina e controlla autoritariamente;
è avvenuta la concentrazione massima della proprietà privata, tutto il mondo è
un trust in mano di qualche decina di banchieri, armatori e industriali
anglosassoni.[15]
Viene così emergendo in Gramsci
una più matura percezione del ruolo fondamentale degli stati nazionali e in
particolare degli stati politicamente e militarmente più forti nei processi di
internazionalizzazione dell'economia capitalistica. Imperialismo e "libero
scambio" non appaiono più incompatibili ove il loro nesso venga colto
nella concreta dialettica storica della società borghese. Gramsci sottolinea
come anche nell'ambito delle relazioni internazionali e non solo nella sfera
interna della vita dei singoli stati, il rapporto tra economia e politica sia
sempre stato un rapporto storicamente complesso e contraddittorio. Nonostante
il carattere in linea di principio antistatalista e antiinterventista
dell'ideologia liberale la concorrenza non avviene certo in modo pacifico, non
potendo non svolgersi nell'epoca del capitalismo monopolistico nella forma
della lotta violenta e della guerra tra gli stati. La formazione di una economia mondiale
rafforza e non diminuisce la funzione dello stato nazionale nella concorrenza internazionale tra i grandi
gruppi monopolistici. Non sfugge a Gramsci il contrasto tra l'"ideologia"
liberale e la "realtà" dell'imperialismo: se è vero che l'ideologia
cosmopolitica del libero scambio ha storicamente costituito una delle fonti
originali del marxismo e del carattere
eminentemente internazionale del suo disegno di emancipazione, è anche vero che
la dottrina di Marx è scaturita da una critica profonda e quindi da un
superamento di quanto di astratto e di "utopistico" quell'ideologia
conteneva.
Tutta la tradizione liberale è contro lo Stato. [...]
La concorrenza è la nemica più accerrima dello stato. La stessa idea
dell'Internazionale è di origine liberale; Marx la assunse dalla scuola di
Cobden e dalla propaganda per il libero scambio, ma criticamente. I liberali
sono impotenti a realizzare la pace e l'Internazionale, perchè la proprietà
privata e nazionale genera scissioni, confini, guerre, Stati nazionali in
conflitto permanente tra di loro.[16]
L'imperialismo e la guerra
mettono a nudo la reale natura e gli insuperabili limiti storici dell'internazionalismo
capitalistico anche nelle sue forme più "moderne" e avanzate. Crisi
dello stato-nazione e suo rafforzamento e allargamento coesistono per Gramsci
in un indissolubile nesso dialettico: la tematica, che sarà fondamentale nella
riflessione dei Quaderni,
dell'allargamento delle funzioni dello stato nazionale come tratto fondamentale
dell'evoluzione della politica borghese nell'epoca dell'imperialismo, è già un
tema ricorrente nel pensiero di Gramsci negli anni 1918-20. Ma è proprio la
crisi del capitalismo mondiale ad assegnare alle classi operaie dei paesi
capitalistici una precisa funzione nazionale. Particolarmente significativo a
tal proposito è un articolo pubblicato su L'Avanti
il 18 luglio 1919, dal titolo Italiani e
cinesi, dove Gramsci si sofferma
sulla collocazione subordinata dell'Italia nell'ambito della divisione
internazionale del lavoro. Una collocazione che, dice Gramsci, ha fatto degli
italiani "un popolo di cinesi".
L'Italia è diventata un mercato di sfruttamento
coloniale, una sfera di influenza, un dominion, una terra di capitolazioni,
tutto fuorchè uno stato indipendente e sovrano. [...] Quanto più la classe
dirigente ha precipitato in basso la nazione italiana, tanto più aspro
sacrificio deve sostenere il proletariato per ricreare alla nazione una
personalità storica indipendente.[17]
Ma la condizione dell'Italia è
comune al complesso delle nazioni e
degli stati sottoposti sia economicamente che politicamente, allo strapotere dell'imperialismo britannico.
Perciò attraverso la sua iniziativa rivoluzionaria, il proletariato, dice Gramsci, "entra nel gioco della
politica mondiale, per fini e con preoccupazioni mondiali", con effetti
che "peseranno nella fortuna di tutti i popoli del mondo, di tutti i
popoli oppressi che aspettano quella liberazione che la guerra 'democratica'
non poteva dare"[18]. Le
istanze e rivendicazioni politiche nazionali ancora vive nei paesi europei
all'indomani della prima guerra mondiale, in quelli usciti formalmente
"vincitori" come in quelli vinti si uniscono in tal modo alle lotte e
ai movimenti di emancipazione anti-imperialista dei popolo coloniali. Lo
scontro su scala mondiale tra Lenin e Churchill ovvero tra l'impero inglese e
l'emergente potenza sovietica è in larga parte in larga parte scandito da
questo nuovo intreccio tra "questione nazionale" e "questione
coloniale". La lotta per l'indipendenza nazionale da parte di tutti i
popoli oppressi è un momento della lotta di classe del proletariato mondiale.
Classe e nazione non sono per Gramsci ove siano colte nella loro storicità
concreta due categorie contrapposte o incompatibili tra loro: anzi solo la
lotta di classe è in grado di conferire un contenuto storico concreto alla
stessa lotta nazionale.
Egiziani, indiani, cinesi, irlandesi, come complesso
nazionale, tutti i popoli del mondo, come proletariato, vedono nel duello
Lenin-Churchill la lotta tra la forza che li tiene soggetti e la forza che può
creare le condizioni della loro autonomia. La nazione italiana, come
proletariato, ha dunque ripreso la
tradizione mazziniana dandole una sostanza storica e una forma concreta nella
lotta di classe.[19]
E' in relazione con tale
acquisizione teorica della centralità della questione nazionale che viene
maturando in Gramsci la consapevolezza del carattere complesso e contraddittorio
del processo di transizione dal capitalismo al comunismo. Lungi dal comportare
un rapido dissolvimento di tutti gli stati nazionali e di ogni divisione
nazionale in una superiore unità mondiale, tale processo non potrà per Gramsci
che prendere le mosse dal rafforzamento insieme politico e militare dello stato
sovietico ovvero dalla sua affermazione come nuova "potenza mondiale"
nel sistema egemonico e di dominio dei maggiori stati capitalistici. E' una
consapevolezza che affiora particolarmente in
un articolo dell'agosto 1920 intitolato La Russia potenza mondiale. Nella misura in cui ha impedito che si
realizzasse il disegno di una unficazione capitalistica del mondo perseguito
dalla borghesia monopolitistica anglo-americana, la Russia dei Soviet ha finito
per rimettere al centro della dialettica della storia mondiale la lotta per
l'egemonia tra i vari stati nazionali: una lotta che continuerà a scandire la
dialettica della storia mondiale e lo stesso processo della rivoluzione
internazionale.
La Russia dei Soviet acquistando la posizione di
grande potenza ha infranto il sistema egemonico, ha riportato il principio della lotta tra gli
stati, ha imposto su una scala mondiale, in una forma assolutamente impreveduta
per il pensiero socialista, la lotta
dell'Internazionale operaia contro il capitalismo.[20]
Per Gramsci, del resto, neanche
dopo la rivoluzione internazionale si può dire che si estingueranno gli stati
nazionali. Anche il sistema politico del comunismo internazionale si sarebbe
perciò necessariamente articolato per Gramsci in una molteplicità di stati
socialisti nazionali distinti fra loro e relativamente autonomia per quanto non
divisi da interessi antagonistici.
Il comunismo sarà solo quando e in quanto sarà
internazionale. In tal senso il movimento socialista e proletario è contro lo
Stato, perché è contro gli Stati nazionali capitalistici, perché è contro le economie nazionali, che
hanno la loro sorgente di vita e traggono forma dallo Stato nazionale. Ma se
nell'Internazionale comunista verranno soppressi gli Stati nazionali, non verrà
soppresso lo Stato, inteso come "forma" concreta della società umana.
[...] L'idea socialista è rimasta un mito, un'evanescente chimera, un mero
arbitrio della fantasia individuale, fin
quando non si è incarnato nel movimento
socialista e proletario, nelle istituzioni di difesa e di offesa del
proletariato organizzato: [...] da esse ha generato lo Stato socialista
nazionale, disposto e organizzato in
modo da essere capace di ingranarsi con gli altri Stati socialisti:
condizionato anzi in modo tale da essere capace di vivere e di svilupparsi solo
in quanto aderisca agli altri Stati socialisti per realizzare l'Internazionale
comunista nella quale ogni Stato, ogni istituzione, ogni individuo troverà la
sua pienezza di vita e di libertà.[21]
La critica ad ogni visione
puramente utopistica dell'internazionalismo contenuta in nuce in questo testo
giovanile, è destinata come è noto nella più matura riflessione dei Quaderni. E' qui uno dei tratti
essenziali del leninismo di Gramsci, il quale prende le mosse dalla
rivendicazione leniniana dell'attualità della questione nazionale nell'epoca
dell'imperialismo. Lo sforzo di definire in termini storicamente e
politicamente concreti il rapporto tra la dimensione sempre più internazionale
della lotta rivoluzionaria per la democrazia e il socialismo da un lato e
dall'altro l'articolazione nazionale del movimento operaio, in Occidente come
in Oriente, aveva com'è noto scandito la ricerca teorica e l'azione politica di
Lenin durante il periodo immediatamente precendente la Rivoluzione d'ottobre.
Fondamentali in particolare alcuni scritti sulla questione nazionale degli anni
1915-16. In essi il rivoluzionario russo aveva evidenziato la dinamica
complessa e contraddittoria dei processi di internazionalizzazione, i quali
stavano generando non a caso nuovi e dirompenti conflitti nazionali
particolarmente nei paesi coloniali soggetti al dominio delle grandi potenze
imperialistiche: l'imperialismo e i processi di "crisi generale" del
capitalismo avevano secondo Lenin modificato profondamente il nesso tra
nazionale e internazionale, rendendo molto più intrecciato e complesso il loro
rapporto ma non avevano per questo reso storicamente obsoleta la questione
nazionale.
Già in un articolo del 1913 Lenin
aveva affermato:
Il capitalismo conosce due tendenze storiche nella
questione nazionale. La prima è il ridestarsi di una vita e di movimenti
nazionali, la lotta contro ogni oppressione nazionale, la creazione di stati
nazionali. La seconda consiste nello sviluppo e nella intensificazione di ogni
specie di rapporti tra le nazioni, nella distruzione delle barriere nazionali,
nella creazione dell'unità internazionale del capitale, della vita economica in
generale, della politica, della scienza. Queste due tendenze sono una legge
generale del capitalismo. La prima prevale all'inizio del suo sviluppo, la
seconda caratterizza il capitalismo maturo, che si avvia alla trasformazione in
società socialista.[22]
E' in stretta relazione a questa
impostazione teorica destinata come è noto a segnare il dibattito della III
Internazionale negli anni '20 e '30 sulla questione nazionale e su quella
coloniale, che si muoverà la riflessione di Gramsci sui temi del rapporto
nazionale-internazionale, soprattutto a partire dagli anni 1922-23. Nei Quaderni la riflessione sul tema
dell'internazionalismo e sul suo rapporto con il terreno nazionale si
collegherà strettamente con quella sulle ragioni della sconfitta della
rivoluzione in Occidente e sulle prospettive nuove che il processo di
costruzione del "socialismo in un solo paese" apre all'insieme del
movimento rivoluzionario mondiale. Ed è ancora la concezione leniniana del
nesso tra nazionale e internazionale ad esser fatta propria da Gramsci in
carcere: nei Quaderni, egli
sottolineerà la natura insieme profondamente nazionale e profondamente europea
della concezione leniniana della rivoluzione mondiale, contrapponendola alla
concezione trockista della rivoluzione in permanenza: l'astratto
"cosmopolitismo" di Trocki appare a Gramsci solo
"superficialmente nazionale e superficialmente occidentalista o europeo"[23].
Tramontata l'ipotesi di una rapida accelerazione del processo rivoluzionario su
scala mondiale per effetto della spinta propulsiva della Rivoluzione d'ottobre
e degli stessi processi di internazionalizzazione economica del mondo
capitalista, il movimento comunista si avviava ad affrontare una lunga e
difficile fase di "guerra di posizione", dagli esiti certo allora non
prevedibili. Gramsci comprese molto presto che tale "guerra di
posizione" avrebbe obbligato i partiti comunisti a ricercare un più
profondo radicamento nei loro rispettivi "terreni nazionali". In un
nuovo e inedito quadro mondiale segnato da imponenti processi di
riorganizzazione sociale e politica del mondo capitalistico ma anche dal
rafforzamento dell'Unione sovietica e dal processo di costruzione del
"socialismo in uno solo paese", il terreno nazionale era destinato a
diventare ancor più che in passato quello più importante e decisivo per vincere
la lotta per l'egemonia. Di qui l'affemazione del carattere insieme
"nazionale" e"popolare" del "blocco storico" che
i comunisti avrebbere dovuto tendere a costruire e a dirigere.
Il processo di unificazione integrale del "genere umano" sarà necessariamente graduale e di lungo periodo, corrispondentemente allo stesso carattere ineguale dello sviluppo del capitalismo su scala mondiale; non potendo coinvolgere simultaneamente tutti gli stati e le nazioni esso si svolgerà necessariamente secondo una molteplicità di fasi successive "in cui le combinazioni regionali (di gruppi di nazioni) possono essere varie".
Il processo di unificazione integrale del "genere umano" sarà necessariamente graduale e di lungo periodo, corrispondentemente allo stesso carattere ineguale dello sviluppo del capitalismo su scala mondiale; non potendo coinvolgere simultaneamente tutti gli stati e le nazioni esso si svolgerà necessariamente secondo una molteplicità di fasi successive "in cui le combinazioni regionali (di gruppi di nazioni) possono essere varie".
Una classe di carattere internazionale in quanto
guida strati sociali strettamente nazionali (intellettuali) e anzi spesso meno
ancora che nazionali, particolari e municipalisti (i contadini), deve
"nazionalizzarsi", in un certo senso, e questo senso non è d'altronde
molto stretto, perchè prima che si formino le condizioni di una economia
secondo un piano mondiale, è necessario attraversare fasi molteplici in cui le
combinazioni regionali (di gruppi di nazione) possono esser varie.[24]
Dunque la "rivoluzione
mondiale" non potrà svolgersi che, gradualmente "a tappe": la
costruzione del socialismo in Urss e il consolidamento della potenza sovietica
in una condizione di isolamento e di
accerchiamento capitalistico costituiscono una condizione fondamentale del
processo rivoluzionario su scala globale, almeno "prima che si formino le
condizioni di una economia secondo un piano mondiale". La concezione
staliniana della "rivoluzione mondiale" appare in questo senso come
quella più legata alla concezione leniniana del nesso tra "nazionale"
e "internazionale". Nello stesso tempo essa si presenta come l'unica visione politicamente realistica del
processo rivoluzionario mondiale, laddove completamente ineffettuale sembra
Gramsci la "teoria generale della rivoluzione permanente", ovvero la
concezione trockiana della "rivoluzione internazionale", definita
come nient'altro che "una previsione generica presentata come un dogma e
che si distrugge da sé, per il fatto che non si manifesta effettualmente".[25] La
strategia del "socialismo in un solo paese" non andava, dunque,
interpretata come una mera chiusura nazionalistica dell'esperienza sovietica
tale da determinare un indebolimento o una crisi della sua capacità di
espansione mondiale. Non a caso, nella stessa celebre lettera del '26 all'Ufficio
politico del partito russo, nella quale, pure,
si paventava il rischio di una chiusura in sé dell'Urss e quindi di una
crisi della sua funzione mondiale, Gramsci aveva ribadito con forza la sua
adesione alla strategia del "socialismo in un solo paese"[26]. Di qui,
nei Quaderni del carcere, la sua
interpretazione di tale strategia come una politica che andava posta in
assoluta continuità con un tratto essenziale della storia precedente del
bolscevismo, ovvero la sua capacità di radicarsi profondamente nello specifico terreno nazionale russo e
insieme di guidare una esperienza
rivoluzionaria di straordinaria portata mondiale.
Se si studia lo sforzo dal 1902 al 1917 da parte dei
maggioritari si vede la sua originalità nel depurare l'internazionalismo di
ogni elemento vago e puramente ideologico (in senso deteriore) per dargli un
contenuto di politica realistica.[27]
Ma, nonostante l'accento sulla
centralità della questione nazionale, Gramsci non si stanca di sottolineare la
necessità di non smarrire il carattere internazionale della prospettiva
rivoluzionaria.
Certo lo sviluppo è verso l'internazionalismo, ma il
punto di partenza è "nazionale" ed è da questo punto di partenza che
occorre prender le mosse. Ma la prospettiva è internazionale e non può essere che
tale. Occorre pertanto studiare esattamente la combinazione di forze nazionali
che la classe internazionale dovrà dirigere e sviluppare secondo la prospettiva
e le direttive internazionali.[28]
Come si vede, l'accento posto da Gramsci sul
carattere internazionale della prospettiva dello sviluppo storico non è meno
forte di quello posto sulla sua dimensione nazionale. Per quanto fondamentale e
imprenscindibile, la dimensione nazionale della politica non deve essere
considerato un dato permanente o storicamente intrascendibile: Gramsci
sottolinea anzi come la natura sempre più internazionale dei processi economici
sia già di fatto strutturalmente contraddittoria con il mantenimento di rigidi
confini nazionali tra gli stati e le economie dei vari paesi. Tali processi non
avrebbero tuttavia comportato per il pensatore sardo una immediata estinzione
del ruolo degli stati nazionali.
Una delle contraddizioni fondamentali è questa: che
mentre la vita economica ha come premessa necessaria l'internazionalismo o
meglio il cosmopolitismo, la vita
statale si è sempre più sviluppata nel senso del "nazionalismo",
"del bastare a se stessi" ecc. Uno dei caratteri più appariscenti
della "attuale crisi" è niente altro che l'esasperazione dell'elemento
nazionalistico (statale nazionalistico) nell'economia.[29]
Ancora una volta non sfugge,
dunque, a Gramsci il carattere contraddittorio dei processi di
internazionalizzazione e di unificazione mondiale: proprio la crisi del
capitalismo globale esaspera la contraddizione tra la dimensione espansiva del
modo di produzione borghese ovvero la sua tendenza al superamento delle
barriere nazionali da un lato e dall'altro la tendenza delle maggiori economie
capitalistiche ad adottare politiche autarchiche e protezionistiche. Una
tendenza particolarmente forte proprio proprio nelle fasi di acuta crisi
capitalistica. Non v'è dubbio che Gramsci colga con esattezza un aspetto
fondamentale della crisi del capitalismo negli anni '30: alla fine di quel
decennio la chiusura dei maggiori stati capitalistici dentro i confini dei loro
rispettivi imperi avrebbe di fatto determinato la fine del mercato mondiale e
posto così le condizioni per lo scoppio della guerra. Tuttavia, in continuità
con alcunti motivi della sua riflessione giovanile, Gramsci non manca di
sottolineare la rilevanza delle tendenze all'internazionalizzazione, sottolinenando
in particolare l'esistenza in Europa di forti tendenze favorevoli o interessate
alla formazione di un'unione continentale, sia a livello della struttura
economica che nelle sfere della vita intellettuale e politica. Gramsci non
sottovaluta tali tendenze e il loro ancoraggio a forze sociali ed economiche
effettivamente operanti e non esclude che, anche se in un arco di tempo
presumibilmente molto lungo, esse possano realizzarsi, prefigurando così uno scenario molto vicino
alla realtà dell'Europa di oggi.
Esiste oggi una coscienza culturale europea ed
esiste una serie di manifestazioni di intellettuali e uomini politici che
sostengono la necessità di una unione europea: si può anche dire che il
processo storico tende a questa unione e che esistono molte forze materiali che
solo in questa unione potranno svilupparsi: se fra x anni questa unione sarà realizzata la parola
"nazionalismo" avrà lo stesso valore archeologico che l'attuale
"municipalismo".[30]
In polemica con ogni forma di
nazionalismo, Gramsci procede a recuperare perfino il valore positivo della
vocazione cosmopolitica della nazione italiana. Se il tradizionale
cosmopolitismo italiano ha svolto in passato una funzione storica negativa,
nella misura in cui ha ostacolato e ritardato il processo di formazione in
Italia di uno stato nazionale unitario, ciò non toglie che esso possa svolgere,
nel contesto di un'economia mondiale sempre più integrata, una funzione positiva,
innestandosi nei grandi fenomeni di emigrazione delle classi lavoratrici
italiane. Proprio lo sfruttamento capitalistico cui queste ultime sono state soggette
nei paesi economicamente più avanzati e che è stato un fattore importante dello
sviluppo economico e produttivo su scala mondiale aveva finito per consolidare
nel popolo italiano la sua "vocazione cosmopolitica".[31] Di qui
l'interesse anche nazionale dell'Italia alla definizione di nuove forme di
integrazione economica internazionale, non più fondate sullo sfruttamento
imperialistico delle risorse e della forza-lavoro dei paesi economicamente più
deboli ma su politiche di cooperazione e di collaborazione economica tra tutti
i popoli e le nazioni.
Il popolo italiano è quel popolo che "nazionalmente"
è più interessato a una moderna forma di cosmopolitismo, non solo l'operaio, ma
il contadino e specialmente il contadino meridionale. Collaborare a ricostruire
il mondo economicamente in modo unitario è nella tradizione del popolo italiano
e della storia italiana, non per dominarlo egemonicamente e appropriarsi il
frutto del lavoro altrui, ma per esistere e svilupparsi appunto come popolo
italiano: si può dire che Cesare è all'origine di questa tradizione... La
"missione" del popolo italiano è nella ripresa del cosmopolitismo
romano e medioevale, ma nella sua forma più moderna e avanzata.[32]
Nella produzione e nel lavoro
Gramsci individua le basi di una nuova civiltà globale, profondamente diversa e
alternativa sia all'unificazione di tipo solo
"finanziario-capitalistico" già in atto, che alle tradizionali forme "imperiali"
di "cosmopolitismo". Insomma la vera, effettiva
"globalizzazione" del mondo per Gramsci non potrà essere che quella
della produzione e del lavoro socializzato su scala mondiale.
L'espansione italiana può essere solo
dell'uomo-lavoro e l'intellettuale che rappresenta che rappresenta
l'uomo-lavoro non è quello tradizionale, gonfio di retorica e di ricordi
cartacei del passato. Il cosmopolitismo tradizionale italiano dovrebbe diventare
un cosmopolitismo di tipo moderno, cioò tale da assicurare le condizioni
migliori di sviluppo all'uomo-lavoro italiano, in qualsiasi parte del mondo
egli si trovi. Non il cittadino del mondo in quanto civis romanus o in quanto
produttore di civiltà.[33]
Dunque, il rapporto tra
internazionalismo e "interesse nazionale" non è un rapporto solo
"contraddittorio" ma anche di complementarietà: l'esempio italiano
dimostra, agli occhi di Gramsci, come esso possa e debba essere reso produttivo
e fecondo, nella prospettiva di una
unificazione solidale, ovvero non più fondata sulle logiche dell'imperialismo,
del genere umano. Ancora una volta internazionalismo e questione nazionale
appaiono stretti in modo indissolubile: l'internazionalizzazione capitalistica
dispiegatasi nel corso del Novecento non ha certo annullato la distinzione tra
le nazioni e la loro specificità e neanche l'esistenza di culture e civiltà
profondamente diverse da quella dominante europea. Solo nel Novecento, per
Gramsci, la storia diventa effettivamente "storia mondiale". Netto in
tal senso è il suo rifiuto di ogni visione della storia universale di tipo
eurocentrico:"fino a poco tempo fa - scrive - non esisteva il 'mondo' e
non esisteva una politica mondiale; d'altronde la civiltà cinese e quella
indiana hanno pur contato qualcosa"[34]. La
dimensione globale attinta dalla civiltà capitalistica nel XX secolo, nella
fase della sua piena maturità storica, non potrà in tal senso che rimettere in
discussione lo stesso primato mondiale dell'Europa.[35] La
politica mondiale e quella europea "non sono una stessa cosa. Un duello
tra Berlino e Parigi o tra Parigi e Roma non fa del vincitore il padrone del
mondo l'Europa ha perduto la sua importanza e la politica mondiale dipende da
Londra, Washington, Mosca, Tokyo più che dal continente"[36]. Dunque
lungi dal configurarsi puramente e semplicemente come un processo di
"europeizzazione" o di "occidentalizzazione" del mondo,
l'internazionalizzazione capitalistica ha in realtà finito per mettere in crisi
le basi stesse dell'imperialismo "europeo".[37] Al di
là dei suoi caratteri apparentmente "catastrofici", la crisi organica
si configura così, in Gramsci, anche come un processo di trasferimento dei
centri dell'egemonia e del potere su scala mondiale da un'area geopolitica
all'altra: l'esplosione di grandi movimenti di emancipazione nazionale in
paesi-continenti come l'India e la Cina, all'origine della loro odierna
spettacolare crescita economica e industriale, sta, infatti, di fatto
determinando per Gramsci uno spostamento dell'asse geopolitico mondiale
dall'Atlantico al Pacifico.
Funzione dell'Atlantico nella civiltà e
nell'economia moderna. Si sposterà questo asse nel Pacifico? Le masse più
grandi di popolazione del mondo sono nel Pacifico: se la Cina e l'India
diventassero nazioni moderne con grandi masse di produzione industriale, il
loro distacco dalla dipendenza europea romperebbe appunto l'equilibrio attuale:
trasformazione del contimente americano, spostamento dalla riva atlantica alla riva del Pacifico dell'asse della vita
americana, ecc.[38]
La stessa egemonia americana
sarebbe dunque uscita rafforzata da uno spostamento nel Pacifico del centro
dell'economia mondiale e dal nuovo ruolo economico e politico dei principali
paesi dell'Oriente asiatico che ne sarebbe seguito. E' lo stesso tradizionale
rapporto tra "Occidente" e "Oriente" e non solo quello tra
l'Europa e la sua "propaggine" americana ad uscire profondamento
modificato dai processi di "crisi organica" del mondo capitalistico. La
questione nazionale è dunque per Gramsci un tema strettamente legato agli
equilibri geopolitici, coinvolgendo non soltanto la struttura di quella che
Braudel avrebbe chiamato "l'economia-mondo", ma gli stessi rapporti
tra civiltà e continenti, entrati nel XX secolo in una nuova e più complessa
trama di relazioni.
Salvatore Tinè
[1] Antonio Gramsci, Scritti giovanili 1914-1918, Torino,
1975, pp. 156-57.
[2] Ibidem, p. 157.
[3] Ibidem, p. 159.
[4] Ibidem, pp. 200-1
[5] Sulla simpatia del giovane
Gramsci nei confronti di Wilson e più in generale del mondo liberale
anglosassone, cfr. Domenico Losurdo, Antonio
Gramsci dal liberalismo al "comunismo critico", Roma, 1997, pp.
75-86. Losurdo nota opportunamente come per qualche tempo "le posizioni di
Gramsci non sembrano molto lontane da quelle di Schumpeter" e come esse
non solo sorvolino "sulla vitalità dell'antico regime nella stessa Inghilterra"
ma non sussumino "sotto le categorie di guerra le spedizioni coloniali
britanniche o i ripetuti interventi militari statunitensi nell'emisfero
occidentale." (p. 28).
[6] Ibidem, p. 319
[7] Ivi.
[8] Ibidem, p. 186.
[9] Antonio Gramsci, Il nostro Marx (1918-1919), a cura di
Sergio Caprioglio, Torino, 1984, pp. 175-176
[10] Ibidem, p. 175.
[11] Ibidem, p. 176.
[12] Sui giudizi del giovane
Gramsci sugli Stati uniti e la centralità della sua riflessione sulla natura
del capitalismo americano, cfr. Leonardo Rapone, Antonio Gramsci nella grande guerra, in "Studi storici",
gennaio-marzo 2007, anno 48, pp. 3-96. cfr. anche Claudio Natoli, Crisi organica e rinnovamento del
socialismo: il laboratorio degli scritti giovanili di Gramsci in
"Studi storici", gennaio-marzo 2009, anno 50, pp. 167-230.
[13] Ibidem, p. 348-49.
[15] Antonio Gramsci, L'Ordine nuovo, 1919-1920, Torino, 1954,
pp. 227-28.
[16] Ibidem, p. 380.
[17] Ibidem, pp. 262-63.
[18] Ibidem, p.264.
[20] Ibidem, p. 146.
[21] Ibidem, p. 378-79.
[22] V. I. Lenin, L'autodecisione delle nazioni, Roma,
1976, p. 28.
[23] Antonio Gramsci, Quaderni del carcere, edizione critica a
cura di Valentino Gerratana, Torino, 1975, p. 866.
[24] Ibidem, p. 1729.
[25] Ibidem, p. 1730
[26] Sulla lettera del '26
all'Ufficio politico del partito russo e più in generale sull'esigenza in essa
affermata di unire strettamente autonomia nazionale e internazionalismo,
cfr. il saggio di Giuseppe Vacca
contenuto in Gramsci a Roma, Togliatti a
Mosca, Il carteggio del 1926, a cura di Chiara Daniele, Torino, 1999, pp.
3-149.
[27] Antonio Gramsci, Quaderni del carcere, cit. p. 1729.
[28] Ivi.
[29] Ibidem, p.1756.
[30] Ibidem, p.748.
[31] Sul tema della vocazione
cosmopolitica della "nazione italiana" in Gramsci, cfr. Michele
Ciliberto, Cosmopolitismo e Stato
nazionale nei Quaderni del carcere, in Gramsci
e il Novecento, a cura di Giuseppe Vacca, Roma, 1999, vol. I, pp. 157-173.
[32] Antonio Gramsci, Quaderni del carcere, cit., pp. 1988-9.
[33] Ibidem, p. 1988.
[34] Ibidem, p. 166
[35] Sui concetti di
"mondo" e di "storia mondiale" in Gramsci, cfr. Giorgio
Baratta, Le rose e i quaderni. Saggio sul
pensiero di Antonio Gramsci, Roma, 2000, pp. 259-77.
[36] Antonio Gramsci, Quaderni del carcere, cit., p. 181
[37] Sul tema del primato
dell'Europa e dell'Occidente nel pensiero di Gramsci, cfr. Mario Telò, Note sul futuro dell'Occidente e la teoria
delle relazioni internazionali, in Gramsci
e il Novecento, cit., pp. 51-74.
[38] Antonio Gramsci, Quaderni del carcere, cit., p. 242.
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