domenica 12 luglio 2015

Le Supplici a Siracusa




Le Supplici" di Eschilo rivisitate da Moni Ovadia su RAI 5 ieri sera. Ovadia ci porta Eschilo direttamente sulla scena: il grande tragico parla in dialetto siciliano come un antico cantastorie, impersonato da Mario Incudine. Così la grande, solenne, altissima poesia di una tragedia tra le più religiose e "liturgiche" di Eschilo si fa spettacolo popolare, antico e modernissimo. Uno spettacolo che proprio riportando la tragedia alle sue origini più remote, al canto, alla musica, alla danza rivela in essa il nucleo più profondo e insieme più drammaticamente vivo e attuale della nostra identità europea. Il Mediterraneo, le città e le coste della Grecia come quelle della Sicilia e dell'Africa sono infatti i luoghi della genesi dell'Europa, della sua stessa identità culturale, come condensata ne "Le supplici" di Eschilo nel principio della "democrazia" e in quello dell'"accoglienza". Perciò Pelasgo il re di Argo interpretato dallo stesso Ovadia parla insieme in dialetto siciliano e in greco moderno: c'è una "origine" delle lingue e dei dialetti che tutti li accomuna nello spazio come nel tempo. Il principio sacro dell'accoglienza che le nere Danaidi rivendicano con accenti commossi nella preghiera al loro protettore Zeus ci riporta proprio a quella origine che fa dello straniero un "discendente" della medesima stirpe di chi lo accoglie. Il Mediterraneo è il luogo, lo spazio in cui la tragedia è nata ma è ancora quello in cui, tutti i giorni, essa si ripete. Le supplici che fuggite dalla coste della Libia chiedono asilo ad Argo sono nere come i "migranti" che tutti i giorni muoiono sulle coste del Mediterraneo. La stessa "democrazia" sembra nascere dall'urgente, drammatico problema di "decidere" sulla questione della loro accoglienza. Come non pensare alla vera e propria scena da tragedia greca cui abbiamo assistito solo pochi giorni fa in Grecia, a Tzipras che come un novello Pelasgo, sua "moderna" ripetizione, posto di fronte all'impossibilità di decidere sul "destino" del suo paese e dei suoi rapporti con quella Europa di cui è stato la culla, chiama il popolo greco a pronunciarsi  direttamente con il voto, simbolicamente, tragicamente ritornando alla democrazia nel senso greco, originario, di democrazia diretta, ovvero di "potere del popolo". Solo dove non c'è "soluzione" come grida disperato Pelasgo di fronte alla preghiera delle "supplici" nasce la democrazia, che in tal senso è da intendersi non come la "soluzione" della tragedia ma piuttosto come la sua massima espressione. Sappiamo che la decisione di ospitare le Danaidi trascinerà Argo nella guerra con l'Egitto. Ma qui Ovadia ha voluto piuttosto celebrare la potenza della democrazia, ovvero della decisione politica che scaturisce dal consenso e dall'unanime volontà del popolo, di fronte alla violenza e alla barbarie della prepotenza del "maschio" e della guerra. Il finale con le altissime parole di Pelasgo che parlando prima in greco e poi in siciliano si oppone trionfalmente all'assalto dei soldati di Egitto alle donne è la premessa non certo di un "lieto fine" ma di un utopistico ma vivo potente canto di libertà e di amore.
(La foto è di Maria Pia Ballarino)

Salvatore Tinè

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