giovedì 21 gennaio 2016

Orestiade


Al Verga di Catania per le Coefore/Eumenidi di Eschilo. Esco felice dal teatro, dopo uno spettacolo pensato per coinvolgere direttamente la platea degli spettatori, fare di essa lo stesso Tribunale dell'Areopago con la cui istituzione da parte di Atena si chiude l'immensa trilogia di Eschilo. Ma nello spettacolo di De Fusco la finale assoluzione di Oreste è seguita da uno struggente canto di speranza intonato davanti ai giudici-spettatori, da uomini e dei. De Fusco accentua al massimo con una imponente messa in scena la grandiosità del testo di Eschilo, l'enormità dei temi che scandiscono una vicenda terribile volgendo al futuro, nel senso della speranza in una nuova possibile rifondazione politica e non più soltanto religiosa della "Giustizia", l'apparente "lieto fine". Splendida l'interpretazione di Oreste da parte di Giacinto Palmarini per la moderna evidenza con cui ci restituisce tutta l'umana fragilità di Oreste, eroe deciso all'azione e insieme schiacciato dall'urto delle sovrastanti potenze del mito e degli dei. Eppure è piuttosto il declino di tale potenze, il loro finale risolversi nella promessa di una giustizia tutta umana e "terrestre" che De Fusco sembra volerci suggerire non solo nell'emozionante finale ma anche nella lunga scena del processo ad Oreste e del dibattimento. La superiore "visione" umana del cinema cui ci rimandano le immagini filmiche proiettate sulla scena ha sostituito per sempre lo sguardo dall'alto degli dei. La luce che improvvisamente illumina il pubblico, al momento in cui Atena sceglie tra i "migliori cittadini" coloro che saranno chiamati ad un giudizio insolubile perfino per gli dei, rompe la separazione tra scena e pubblico evidenziando la natura tutta politica del dibattito e dello scontro tra uomini e dei che scandisce l'Orestiade. Si direbbe che è proprio la rottura di tale separazione a segnare insieme alla nascita di una giustizia politica, perchè decisa dagli uomini, quella del teatro come luogo della "polis" per eccellenza. In questo senso la splendida visione cinematografica della distruzione della statua di Atena davanti ad Oreste "supplice" è da intendersi non in senso "pessimistico" ma come l'immagine del declino degli dei e dell'avvento di una giustizia fondata sugli uomini e sulla libertà della loro decisione razionale.

giovedì 14 gennaio 2016

Per Franco Citti



Se ne va Franco Citti. Proprio quest'anno, poche ore dopo essere passato da Ponte Testaccio dove moriva Accattone, ho rivisto il primo film di Pasolini. Non credo di esagerare se dico che il volto di Franco Citti e i tantissimi primi piani su di esso che scandiscono il film sono non solo ciò che più fortemente si è impresso nella mia memoria personale di quell'opera ma anche ciò che di più bello e di più poeticamente puro, assoluto Pasolini ci abbia regalato. La morte di Accattone per incidente sul Ponte Testaccio chiudeva circolarmente il film che iniziava con il suo tuffo sul Tevere da Ponte Sant'Angelo, una sfida alla morte e insieme una sorta di battesimo purificatorio. La morte sfidata e perciò stesso evocata dell'inizio e quella subita e insieme cercata e voluta della fine racchiudono il senso di una "vita violenta": Ma la rabbiosa, disperata, amorale vitalità di Accattone è tutta risolta nel volto e nel corpo esausto e sofferente di Franco Citti, forse il più "cattolico" e "cristologico" dei tanti corpi che affollano le immagini del cinema di poesia pasoliniano: non a caso è la croce di un angelo che vediamo accanto ad Accattone prima del suo tuffo nel Tevere e un segno della croce accompagna e commenta l'immagine del volto e del corpo morenti di Franco Citti sul ponte Testaccio, nell'ultima inquadratura del film.

Salvatore Tinè

sabato 9 gennaio 2016

Un'arcana affinità


"Uno vicino all'altra, riposano insieme gli amanti. Aleggia pace sulle loro tombe, e dalla volta li guardano figure d'angeli serene, d'arcana affinità: e che momento felice, quando un giorno si ridesteranno insieme." E' la conclusione de "Le affinità elettive" di Goethe, nel segno della speranza, della "redenzione". Meno evidente che in altre pagine, appare in questa chiusa del libro, il cosiddetto "paganesimo" dello scrittore tedesco, il suo "spinozismo", la sua celebrazione dell'identità tra Dio e Natura. Meno evidente, ma forse non meno presente. Quella "redenzione" potrebbe intendersi, infatti, in un senso tutt'altro che "cristiano" o "ebraico-cristiano". Non ad una salvezza ultraterrena essa allude ma ad una "redenzione" della stessa Natura, finalmente riconciliata con l'uomo, con l'umanità, con l'umanità finalmente "ridestata", cosciente di sé, risvegliatasi dal "sonno" del "mito", emancipata dalle sue potenze. Una "redenzione" certo, ma nel segno della storia,  dell'avvento, cioè, di quel "comunismo" che spinozianamente il giovane Marx definiva compiuto "naturalismo" perchè compiuto "umanismo". E' questa identità da riportare alla coscienza, ancora da compiersi sebbene già data, "l'arcana affinità" che unisce Ottilia ed Edoardo, la stessa che, ancora oscura e inconscia perchè soltanto "elettiva" li ha portati all'amore e alla morte.

Salvatore Tinè

Chiedi a Lui


"Sottomissione e riconoscimento" è il titolo di una splendida poesia di Giudici. E' un dialogo con lei ma anche con lui, con Dio. Il poeta ha messo ora lei al posto di lui, sostituendo la "vita" alle cartesiane "cogitationes" che lo hanno fino a quel momento assorbito. Il passaggio da Lui a Lei è pur sempre uno scambio di "persona", per il quale tuttavia è la propria "persona" ad essere scambiata. E' lo stesso senso di colpa che lo porta ora a confessare a lei il suo permanente desiderio di "servitù" e la donna appare non meno di "Dio" senza misura, inattingibile e perfino invisibile anche quando viene toccata, afferrata con le mani, come se il suo corpo nonostante il suo apparente "esserci", non fosse conoscibile e godibile che a pezzi mai nel suo intero, nella sua totalità, a qualsivoglia "immagine" finita irriducibile. "Cerco di rivoltarti /Stringerti - ma cosa chiedo/ Ai tuoi occhi/Un te stessa invisibile benché/Ti tocco pezzo a pezzo mi ripeto 'sei qui'/ Ti misuro nel chiuso delle mie mani" Eppure, a dispetto di tale clamorosa diseguaglianza, asimmettria dei sessi non meno incolmabile di quella che separa l'uomo dalla persona divina, un'ansia di rispecchiamento, di riconoscimento nella donna tanto amata quanto "sconosciuta", segna il rapporto con lei, come la chiusa della poesia ci rivela. "Dov'era lui- ci sei tu." Ma è difficile non pensare che il "lui" non sia più Dio ma piuttosto lo stesso Giudici, il suo stesso "io", il suo cartesiano "essere certo" di sé. Dove c'è Lei-insomma- ( "vita del nostro morire") non ci siamo più noi.
Salvatore Tinè

SOTTOMISSIONE E RICONOSCIMENTO
Cerco di ridurti
A mia immagine - ma fossi
Tu la pace che è il tuo corpo
Quando 'fammi il mare' ti supplico
Sotto o sopra la pancia - non si sa bene chi dei due
E' acqua o barca
Cerco di rivoltarti
Stringerti - ma cosa chiedo
Ai tuoi occhi
Un te stessa invisibile benché
Ti tocco pezzo a pezzo mi ripeto 'sei qui'
Ti misuro nel chiuso delle mie mani
Cerco di fermarti
Nel caso che 'è così bello' sospiri
E ti vorresti poi mordere la lingua
Di troppa tenerezza -
O sul prato di Vienna il singhiozzante
Tuo inciampare di fiamminga
E ore e ore battere
Le tue peregrinazioni - parlare
Tuoi pensieri - a un immaginario telefono di legno
Un tuo segno sperare - nel mio
Essere certo imprigionarti
Sconosciuta come Dio
Quando ti dico- vita
Del mio morire
Un tempo era lui che assorbiva tutte le mie cogitazioni
La sua camminata misurava ogni passo della mia
E per questo nessuno o nessun'altra poteva
Abitare nel cuore che per lui solo batteva
Il che potrebbe spiegarsi con un mio antico bisogno
Di colpa di confessione e di servitù
Esso rimane e passano persone sulla scena
Dov'era- ci sei tu
(G. Giudici, "Il male dei creditori")

martedì 5 gennaio 2016

Le amiche


Rivedo "Le amiche". L'ultima immagine mi pare quella che riassume questo film: di Carlo nascosto alla stazione di Torino guarda Clelia lasciare definitivamente la città. Un incontro mancato che non può non richiamare quello tra Alain Delon e la Vitti che che chiude "L'eclisse". Eppure qui siamo ancora molto al di qua di quella totale, inquietantissima "eclisse" dei sentimenti che chiudeva la cosiddetta "trilogia dell'incomunicabilità". E' ancora piuttosto il tema della solitudine al centro del film, indagata da Antonioni in una chiave tutta femminile. In questo senso quello di Clelia mi pare il personaggio più vero e riuscito. Rifiuta un amore non per cinismo o aridità ma per il sentimento della propria vita e della propria libertà. Il medesimo sentimento che l'ha strappata per sempre dalle radici nella sua Torino, rendendo così impossibile il suo amore per un uomo "semplice" a quelle stesse radici rimasto legato. Quando invece l'amore delle altre "amiche" resiste, come nel caso dell'artista Nene che per amore resta a Torino rinunciando a fuggire in America, è la sua tristezza ad emergere nelle parole e nelle immagini di Antonioni. Il suicido di Rosetta è il momento della verità nel film: esso mette a nudo insieme ai sentimenti delle amiche la loro solitudine e precarietà. Così la carezza di Nene, nell'ultima scena che la vede con il suo amatissimo pittore Lorenzo, anticipa la carezza dell'ultima scena de "L'avventura" e non è certo l'immagine di una riconciliazione ma quella di un amore tanto sofferto e perfino materno quanto colpevole e triste.

Salvatore Tinè

domenica 3 gennaio 2016

Primo amore.


L'amore come rinnovamento e insieme straniamento. Il "primo amore" è solo quello vero perchè in esso ci scopriamo al fondo per la prima e forse anche ultima volta stranieri a noi stessi, "schiavi" avvinti ad un segreto racchiuso dentro di noi, proprio perchè parte di noi, come il nostro stesso "sangue". E' la violenza di questo straniarsi, di questa perdita di noi stessi e della libertà, in una pace solo apparente che Ungaretti sembra evocare in "Primo amore". Questa estraneità dell'intimo, ovvero di ciò che è più interno a noi stessi è il "primo amore".
Era una notte urbana,
Rosea e sulfurea era la poca luce
Dove, come da un muoversi dell'ombra,
Pareva salisse la forma.
Era una notte afosa
Quando improvvise vidi zanne viola
In un'ascella che fingeva pace.
Da quella notte nuova ed infelice
E dal fondo del mio sangue straniato
Schiavo loro mi fecero segreti.