Rivedo per l'ennesima volta ma per la prima a
casa "La grande bellezza" di Paolo Sorrentino. Il film non mi era mai
sembrato così "sentimentale". Eppure lo sguardo del protagonista, lo
scrittore napoletano Jep Gambardella, il suo distacco apparentemente totale
dalle cose e dall’umanità, mi sembrano la sostanza vera del film. Questa
centralità assoluta del protagonista in un'opera pure così grandiosa e
magniloquente si fa infatti metafora non solo dell'artista e del suo rapporto
con la vita ma, più in profondità dello stesso cinema come linguaggio per
eccellenza dello “sguardo” e della visione: l'intero film è infatti una
interminabile "soggettiva" del protagonista. La Roma che vediamo non
è "vera" ma solo il "sogno" e qualche volta l'incubo
ricorrente del protagonista. Perciò la città la vediamo non direttamente ma
solo attraverso gli occhi di Jep Gambardella le cui lente passeggiate ci
guidano per le strade e le piazze di una Roma irreale e metafisica. Il suo
passo lento lungo il Tevere insieme al suo stanco sguardo sulla splendida ma
stagnante immobilità delle sue acque sono quelli di un “flaneur” che nulla più
di nuovo e di imprevisto si aspetta di cogliere neanche di fronte alle prime
tenui, improvvise luci delle albe romane che chiudono le sue interminabili
notti. Passato e presente si confondono in un tempo immobile, quello della
coscienza e della memoria di uno scrittore che ormai da troppi anni ha cessato
di scrivere e di creare. La sua solitudine a tratti atroce è metafora della sua
impotenza creativa, quindi della sua condizione triste di padre
"mancato", sebbene la sua tristezza si esprima sempre nel distacco di
una disincantata ironia e mai in forma seria o grave. Predestinato” in quanto
artista alla “sensibilità” non riesce a scrivere e neanche a vivere. Al marito
di una donna amata in gioventù, venuto ad informarlo della sua morte confessa
che avrebbe “potuto” avere dei figli. La sua “impotenza” attuale si intreccia
con il senso di un incancellabile rimorso. Spietato verso se stesso come verso
gli altri, di cui dissolve con le armi di un’ironia solo a tratti cinica e
crudele ipocrisie e falsi moralismi, Gambardella finisce per non credere più
neanche nel “potere” della scrittura, falsa come la vita che si illude di poter
raccontare. Del "niente" che lo circonda non riesce a fare materia di
scrittura e del tutto immerso in esso trascina pigramente, pesantemente la sua
esistenza. Ha cessato di cercare la "grande bellezza" dice ad una
strana "santa" che ospita nella sua casa davanti al Colosseo. Eppure
vive circondato dalla città più bella del mondo, metafora forse del
"sogno" della bellezza e insieme della sua inattingibile prossimità.
E nel corso del suo continuo “girare a vuoto” nella vita romana, pure risucchiato
nel suo vortice insensato, nel suo allucinato, stordente turbinio, non mancherà
di cogliere qualche “sprazzo” di bellezza e di umanità in grado di riaccendere
sebbene solo per improvvisi e fugaci attimi di vita quella “sensibilità” a cui
sin da giovane era stato “predestinato”. La figura della spogliarellista
Ramona, figlia ancora giovane ma già matura di un vecchio amico è in tal senso
la più emblematica del segreto senso del film. “E’ stato bello non fare l’amore
con te” dice alla donna dopo avere trascorso con lei la notte. Né solo amore e
né solo amicizia l’intima attrazione di Gambardella verso di lei finirà per
risvegliare in lui insieme ai ricordi più puri della sua giovinezza, primo fra
essi quello della prima ragazza amata e “scoperta”, anche il senso di una
mancata paternità, sottolineato proprio dalla scoperta della malattia della
donna e dalla sua morte improvvisa. Non a caso sarà proprio quella donna ad
accompagnarlo ai funerali di un altro giovane morto del film il figlio depresso
di un’amica: il suo pianto straziante di fronte a quella morte, cui seguirà
proprio quella di Ramona, è da intendersi forse come il primo “vero” scatto di
vita dello scrittore. La scomparsa di Ramona anticipa del resto quella di
Romano, il giovane amico scrittore che lo ammira e ama forse proprio come un
figlio e che ad un certo punto, stanco e deluso, decide di abbandonare Roma e
lo stesso Gambardella. Ma questi sembra resistere o rifiutare ogni tentazione
di fuga. Così alla fine del viaggio lo vediamo completamento solo, forse
perfino “dall’altra parte della vita” per dirla con Céline, citato proprio
nell’epigrafe del film, pronto per un altro viaggio. Adesso lo vediamo di nuovo
in mare, davanti al Faro dinanzi al quale si era consumata la sua “prima volta”
in amore come aveva raccontato a Ramona, lo stesso mare tante volte sognato,
visto sul soffitto della casa romana. Alla fine del film, consumatasi del tutto
la sua vita, proprio dal "niente" cui essa si è ridotta proverà a
riprendere a scrivere. Perché è proprio dal “niente” che come un dio crea, lo
scrittore, la realtà, dopo averla fatta sparire nel nulla come il mago nella
sequenza alla Terme di Caracalla quella enorme giraffa.
Salvatore Tinè
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