28 ottobre 2012
Rivedo integralmente "La recita" di Anghelopoulos. Riesco finalmente a cogliere nella sua interezza un film lunghissimo, di quasi 4 ore, composto esclusivamente di interminabilili piani-sequenza. "La recita" è una vera e propria enciclopedia del cinema, indagato nei suoi rapporti con la letteratura, la cultura, le tradizioni popolari di una Grecia ancora in larga parte contadina e, ovviamente con il teatro. Il film è il racconto del "viaggio" di una compagnia di attori che mette in scena un dramma pastorale di un autore molto popolare in Grecia e insieme un "viaggio" nel tempo, nella storia della Grecia riattraversata senza alcuna linearità meramente cronologica dagli anni della dittatura di Metaxas nel '39 a quelli del potere di Papagos nel '52, passando per la seconda guerra mondiale e il terribile dramma della guerra civile. Le lunghe panoramiche sulle città e i paesaggi della Grecia che accompagnano, scandendolo, il viaggio degli attori. Come nell'Odissea di Omero, il viaggio è ricerca delle proprie origini, del luogo dove finalmente ritrovarsi, ricerca dunque delle proprie radici. Il viaggio di andata è nello stesso tempo viaggio di ritorno, un "procedere" che è insieme un "ritornare indietro". Radici che non possono non rimandare alle origini mitiche della Grecia. Non a caso anche lo spazio della natura si fa teatro, non solo quella immaginata e dipinta nella scenografia preparata per il dramma pastorale ma anche quella "vera", su cui a lungo Anghelopouols indugia, mostrandocela come lo "spazio" apparentemente immobile dentro cui soltanto si svolge l'"odisssea" degli attori e scorre il tempo della Storia. Quattro lunghissimi monologhi scandiscono il film, ogni volta "interrompendone" lo svolgimento, costrigendo lo spettatore a "fermarsi", a riflettere con un "brechtiano" distacco su alcuni dei più drammatici avvenimenti della storia della Grecia. Così la guerra civile greca si fa emblema tragico della più generale guerra civile internazionale che si è combattuta nel XX secolo e che ha fatto della vicenda del Novecento, una storia grandiosa e proprio per questo "tragica". In quei monologhi i personaggi del film si rivolgono direttamente a noi, un po come gli antichi "aedi" dell'"Iliade" e dell'"Odissea": la Storia si fa memoria, insieme individuale e collettiva, il passato si fa "racconto", ridiventa presente e "apre" al futuro. I protagonisti della Storia la raccontano dal punto di vista del proprio vissuto ma proprio in questo modo ne rivelano la verità più profonda. La verità della Storia è in questo senso, ne La recita, una verità appunto "recitata", ovvero interpretata da chi l'ha direttamente vissuta o tragicamente subita e sofferta, come nel caso di Elettra, vera e propria figura di donna combattente e insieme vittima sacrificale del potere. Ma le stesse figure di "rivoluzionari di professione", di combattenti comunisti come Oreste, così caratteristiche del cosiddetto "secolo breve", vengono genialmente rappresentate da Angheolopoulos come degli "eroi tragici"; essi parlano e si atteggiano come i personaggi dell'antica tragedia greca. Dunque il mito ritorna e rivive nel cinema: esso congiunge natura e storia, progresso e ripetizione: splendida l'immagine del ragazzo che turbato dal matrimonio della madre con un ufficiale inglese, dopo avere rovinato la festa si incammina fino a scomparire lungo la riva di un azzurrissimo mare omerico verso un raggiante "sol dell'avvenire". Così se alla fine Orestes ucciso ridiventa Tassos, il personaggio del dramma pastorale, il giovane nipote di Elettra truccato da Tassos ridiventa Oreste, il partigiano comunista morto da eroe e insieme l'eroe tragico immortalato da Eschilo: non c'è progresso senza ripetizione, non c'è futuro senza passato, non c'è tempo senza racconto. Il presente è la contemporaneità del passato e del futuro. "Parlerò quando i giovani non canteranno più inni, ma versi", dice il Poeta nell'ultimo monologo del film. La poesia, quella dei versi ma anche quella delle immagini, è appunto questo senso della contemporaneità del passato e del futuro. Il Poeta che grida la parola "Libertà" è uno dei passaggi più potenti del film: ma appunto il suo grido non è solo promessa di una libertà futura consegnata alla poesia ma è anche nello stesso tempo, libertà in atto, lotta per la libertà. L'utopia di una società libera "sognata" nei versi del Poeta è già "realtà" nella sua evocazione. Come il Coro nella tragedia greca la potenza della sua "parola" accompagna l'azione degli eroi, è essa stessa "azione", "dramma" nel senso etimologico dell'espressione: Pilade e Elettra ripresi di spalla non a caso ascoltano in un silenzio quasi sacro, religioso, il monologo del Poeta, per un attimo mutandosi da eroi e "attori" del dramma in suoi spettatori. Il tempo storico è insomma questa congiunzione tra "epos" e tragedia", tra racconto della storia e storia in atto. Il film di Anghelopoulos congiunge appunto il passato con il presente, il presente di chi ascolta con il passato dell'eroe tragico che agisce o racconta le sue azioni. Ma non è l'eterno ritorno di Nietzsche, presunta ripresa della concezione "greca" ovvero circolare, mitica del tempo. In Anghelopoulos il mito non è l'opposto della storia: semmai si identifica con essa, con la sua verità più dura e profonda, con il suo essere, marxianamente, "storia di lotta di classi", tra sfruttati e sfruttatori, tra oppressi e oppressori. Se "eterno" è il destino di sfruttamento e di oppressione cui sono soggette le masse, il popolo, altrettanto "eterna" è infatti la lotta delle masse popolari per la loro liberazione. La storia si fa mito allora nel senso greco, etimologico della parola, ovvero nella misura in cui è "racconto", "historia rerum gestarum", potremmo dire, e non solo "res gestae". La storia è sempre "mito" dal punto di vista di chi la vive nell'azione "recitandola" o la "ri-vive" "raccontandola. La "rappresentazione della realtà è insieme, indissolubilmente "azione" e "racconto", identificazione e distacco. Il "teatro" vive, infatti, ed ha senso, è "vero", in quanto si svolge solo dentro il più generale, collettivo, racconto della storia. In tal senso la tragedia in Anghelopoulos è anche "epos", "epica" in senso "omerico" e anche in senso "brechtiano". La grandezza di Anghelopoulos nel Novecento è consistita propria in questa sua capacità assolutamente geniale di far rivivere la concezione greca, propria dei tragici, del teatro, come rito collettivo, come momento di identificazione storica e politica di una comunità di uomini e di donne, come "autorappresentazione" di sé della polis. Nel Novecento la tragedia greca è ridiventata contemporanea: non a caso l'"estetizzazione", la "teatralizzazione" delle forme di partecipazione di massa alla vita pubblica ha segnato il Novecento: penso ai colori delle bandiere, ai canti popolari, ai simboli dei partiti così come alla "sacralità" delle immagini di alcuni di alcuni dei loro grandi leaders e dei "maestri" delle loro "dottrine", indisgiungibili ancora oggi nella nostra memoria storica e collettiva dalle idee grandi e potenti che hanno scandito quella che Gramsci definiva "la politica totalitaria", nel XX secolo. Certo, questa "estetizzazione" del politico ha rappresentato anche una delle modalità di mistificazione e di occultamento del "potere" e della sua violenza. In questo senso la tragedia greca viene riletta e "attualizzata" da Anghelopoulos alla luce della grande lezione brechtiana: il suo "teatro" non è solo "rappresentazione" ma anche demistificazione, disoccultamento delle maschere del potere, rottura delle sue forme, "politicizzazione dell'arte", potremmo dire con Benjamin, di contro all'"estetizzazione della politica". Emblematica in questo senso la sequenza in cui Elettra mette letteralmente "a nudo" un ufficiale che tenta di sedurla e conquistarla, approfittando del suo potere "armato" e della sua superiore forza di "maschio". Sedotto da lei, il soldato "obbedisce" all'"ordine" di spogliarsi" della donna, in uno straordinario ribaltamento di ruoli: con la semplice, muta evidenza delle immagini Anghelopoulos "mette in scena" la potenza della ribellione di quella donna, perfino quando questa si esplica in una forma in apparenza puramente passiva. ll senso di vergogna del soldato nudo di fronte allo sguardo di Elettra, rivela tuttavia la sua umanità, di là dalla sua immagine di "rappresentante" del potere. Dunque il teatro, la "recita" "mettono in scena" la realtà, ma la mettono anche "a nudo", perfino ridicolizzando, come nel caso di questa sequenza, le maschere, le forme esteriori ancorchè potenti del potere. Lo sguardo di Elettra è in fondo quello, fattosi "critico", dello spettatore consapevole, adesso, che il potere è una grande messa in scena tesa ad occultare la verità, a perpetuare se stesso e quindi l'"eterna" separazione tra oppressi e oppressori. Non sarebbe forse esagerato affermare che in questo "protagonismo" tutto politico e "militante" della donna e del corpo femminile, Anghelopoulos colga tanta parte dell'"attualità" della tragedia greca e delle sue eroine, da Medea a Clitennestra, ad Antigone alla stessa Elettra. Emblematica in questo senso ci pare la sequenza, certo tra le più drammatiche del film in cui la stessa Elettra, che aveva "spogliato" e umiliato il soldato che voleva struprarla, viene a sua volta torturata e violentata. Ma è la proprio la stessa centralità del ruolo della donna ad essere rappresentata come metafora di una dialettica storica più ampia, di una più generale lotta tra il potere e chi lo subisce, tra governanti e governati. Il mito e la tragedia degli Atridi che vediamo ripetersi nelle vicende personali e familiari interne alla compagnia degli attori, tra una interruzione e l'altra degli spettacoli, è in fondo una metafora della eternità di questa lotta, intesa come lotta per ristabilire con l'unico strumento possibile, ovvero la violenza, un ordine "ingiusto", scaturito da una violazione sanguinosa e terribile di un "ordine" e di un "equilibrio" forse per sempre perduti? Lo stesso matricidio del partigiano Oreste, che ripete quello del mito è una lacerante metafora della tragedia della guerra civile in Grecia. Il mito dunque ci rinvia continuamente alla storia. La stessa "messa in scena" del dramma pastorale da parte della compagnia di attori viene periodicamente interrotta dall'improvviso irrompere da eventi esterni al palcoscenico ove essa di svolge. Una interruzione che genialmente Anghelopoulos spesso racconta come un "cambio di scena": si pensi alla macchina fissa che riprende il palcoscenico deserto del teatro, dopo l'improvvisa fuga degli attori, mentre infuriano i bombardamenti. Una vera e propria estetica del "non visto", del "fuori scena". Del resto la stessa "tecnica" del racconto, il rivolgersi degli attori direttamente agli spettatori, è un aspetto di questa paradossale estetica cinematografica, tesa a raccontare senza "mostrare", a "vedere" senza "far vedere". Ma talvolta è la stessa "realtà" a diventare palcoscenico, come nell'inquadratura statica su un muro mentre fuori di essa infuriano i combattimenti fra i tedeschi e i partigiani, o nella splendida sequenza in cui vediamo gli attori improvvisare il dramma pastorale su una spiaggia deserta davanti ad alcuni divertiti soldati e ufficiali inglesi, dove proprio il mare, le sue acque appena increspate dal vento, avvolte in una mitica luce astratta, sembrano la vera scenografia del dramma dietro il velo con le sue finte montagne e pecorelle. La storia "fuori" del teatro entra nel teatro, sconvolgendone ritmi e tempi, ma in modi diversi e perfino opposti finisce essa stessa per farsi "racconto" e "rappresentazione". In questo rapporto tra continuità e discontinuita della storia consiste la sua dialettica, la cadenza, il ritmo lento ma tragico della sua temporalità.
Salvatore Tinè.