mercoledì 3 dicembre 2014
Marx e i Greci
"Una quiete che è ad un tempo attività assoluta": è così che Hegel nelle "Lezioni sulla storia della filosofia" definisce l'"assoluto" in Aristotele. Non v'è dubbio che solo a partire da tale fondamentale presupposto metafisico è possibile comprendere la critica di Aristotele al comunismo platonico. Mi chiedo tuttavia se quella definizione dell'assoluto a non possa addirittura considerarsi una definizione del comunismo in senso "moderno". Di "movimento assoluto del divenire" parla Marx in un celebre passo dei "Grundrisse" che contrappone le forme chiuse del mondo antico, in cui è l'uomo lo scopo della produzione, all'incessante movimento della produzione moderna finalizzata alla valorizzazione illimitata del capitale. Nel comunismo l'uomo ridiventa scopo, nel momento stesso in cui quel movimento incessante si libera della sua "limitata forma borghese": in questo senso esso è un "movimento assoluto del divenire", fine a se stesso certo ma solo nel senso che il suo scopo adesso è l'uomo stesso, lo sviluppo delle sue forze essenziali, l'uomo essendo un "genere", e in tal senso "sostanza" in senso aristotelico Se si dà storia è solo come realizzazione del genere, sua "attualità". Perciò il comunismo non coincide né con la cattiva infinità "faustiana" del valore che valorizza se stesso, nè con la "cattiva finitezza",la "quiete" delle forme chiuse del mondo antico, prive di vita e di attività. Insomma non è né la prosecuzione della produzione fine a stessa del capitale, nè la fine della storia, ma la sintesi vivente della realtà e della possibilità che si realizza, della forma e del movimento. Un movimento "reale" come già Marx ed Engels ne "L'ideologia tedesca" ebbero a definirlo, dunque già in "atto" e proprio perciò aristotelicamente, hegelianamente "assoluto". Se il comunismo non è un "ideale a cui la realtà debba confermarsi", ovvero una idea in senso platonico, che nulla aggiunge alle cose, esso è tuttavia "forma", "sostanza" in senso aristotelico. Annotava Lenin nei suoi "Quaderni filosofici" proprio a proposito della critica aristotelica all'idealismo platonico e del modo "idealistico" in cui Hegel la reinterpreta: "Quando un idealista critica i principi dell'idealismo di un altro idealista se ne avvantaggia sempre il materialismo. Cfr. Aristotele versus Platone, ecc. Hegel versus Kant, ecc." Forse il materialismo dialettico senza di cui è il comunismo è impensabile è il coniugarsi della "forma" come "attività assoluta" con la eraclitea "eternità" del divenire. Lo stesso Lenin nelle sue note all'"Eraclito" di Lassale, definiva il frammento eracliteo che parla del "mondo", dell'"uno del tutto" come un "fuoco eternamente vivo, che si accende e si spegne secondo misura", "un'ottima esposizione dei principi del materialismo dialettico". Se la forma è "movimento", il divenire è "eterno". Solo il comunismo pensa e insieme congiunge nel "presente" della prassi la prima al secondo.
Salvatore Tinè
giovedì 20 novembre 2014
Verga e l'artista scioperato
La Prefazione ad Eva
di Giovanni Verga è un testo molto utile e forse perfino illuminante per capire
il complesso, tormentato itinerario che porterà il grande scrittore catanese
dal "romanticismo" a tratti esasperato e non privo di risentimenti e
disagi "moralistici" dei suoi romanzi mondani alla scoperta del
"mondo popolare" di Aci Trezza. “Eccovi una narrazione- scrive- sogno
o storia poco importa- ma vera, com’è stata o come potrebbe essere, senza
retorica e senza ipocrisie.” Dunque la narrazione del “sogno” può essere vera,
non meno di quella della “storia”, purché sincera. L’arte che rappresenta
l’effettivo grado di corruzione morale di una società non è da considerarsi
essa stessa corrotta e nessun senso avrebbe imputare ad essa i mali che si
limita a riflettere. “Però non maledite - scrive Verga, idealmente rivolgendosi
ai suoi lettori e ai suoi potenziali detrattori, anticipando in fondo la sua
futura concezione “verista” dell’arte- la manifestazione dei vostri gusti.” E
tuttavia lo stato di corruzione della società non può non avere conseguenze
sulle stesse possibilità della sua “riproduzione” estetica. Nonostante la
difesa della legittimità del suo tentativo artistico, Verga sembra infatti
ripetere nientemeno che la celebre tesi hegeliana della “morte dell’arte”. “I
greci innamorati – scrive- ci lasciarono la statua di Venere; noi lasceremo il
‘cancan’ litografato sugli scatolini dei fiammiferi. Non discutiamo nemmeno
sulle proporzioni; l’arte era allora una civiltà, oggi è un lusso: anzi un
lusso di scioperati. La civiltà è il benessere, e in fondo ad esso, quand’è
esclusivo come oggi, non ci troviamo altro, se avete il coraggio e la buona
fede di seguire la logica, che il godimento materiale”. Dunque la mercificazione tendenzialmente
universale, “totalitaria” di ogni cosa come di ogni aspetto della vita sociale
e della stessa vita privata ridotta a mero “godimento materiale”, e così per
l’appunto “privata” di senso, ha svuotato la stessa arte di ogni funzione
sociale e perciò di ogni senso, riducendola a “lusso da scioperati”. L’arte in
senso proprio, ovvero come momento o suprema espressione di una “civiltà”
appare “morta” e sostituita da forme di produzione “estetica” che oggi
definiremmo pubblicitarie,
immediatamente funzionali alle esigenze del mercato, del tipo per
l’appunto del “cancan litografato nella scatola dei fiammiferi”. Pure proprio
in quanto “scioperata” l’arte sembra contrapporsi almeno su un piano puramente
oggettivo al culto del “positivo” come all’insensato quanto febbrile edonismo
che caratterizza la vita in una società ormai saldamente dominata dal
capitalismo finanziario e industriale. “In tutta la serietà di cui siamo invasi –
scrive Verga- e nell’antipatia per tutto ciò che non è positivo – mettiamo pure
l’arte scioperata- non c’è infine che la tavola e la donna. Viviamo in
un’atmosfera di Banche e Imprese industriali, e la febbre dei piaceri è la
esuberanza di tal vita.” Di fronte ad una realtà che rischia di schiacciarla,
l’arte non può allora che limitarsi a rappresentare nel modo più sincero e
“vero” possibile quella “febbre di piaceri”, quella apparente ma al fondo
malata “esuberanza” di vita. “Non accusate l’arte, che ha il solo torto di aver
più cuore, e di piangere per voi i dolori dei vostri piaceri. Non predicate la
moralità, voi che ne avete soltanto per chiudere gli occhi sullo spettacolo
delle miserie che create – voi che vi meravigliate come altri possa lasciare il
cuore e l’onore dove voi non lasciate che la borsa – voi che fate scricchiolare
allegramente i vostri stivali inverniciati dove folleggiamo ebbrezze amare, o
gemono dolori sconosciuti, che l’arte raccoglie e che vi getta in faccia”.
Difficile non cogliere in queste parole di Verga, insieme ad una insistita
rivendicazione della verità dell’arte, della sua “sincerità”, un forte
risentimento morale nei confronti di una società che pure lo scrittore catanese
aveva eletto a materia dei suoi romanzi e nella quale aveva teso ad integrarsi
ed affermarsi come artista e nello stesso tempo come scrittore riconosciuto e
diremmo noi oggi di “successo”. Il sostanziale rifiuto di un mondo “borghese” che forse solo in parte
poteva considerare “suo” rivela così il fondamento “moralistico” di un’arte che
pure si voleva soltanto sincera, fedele alla verità delle cose, come se soltanto nella sua verità potesse risiedere
il suo contenuto etico, tanto più profondo proprio perché implicito, tutto
risolto nelle cose ma anche nei “sentimenti”. Perciò anche il “sogno” poteva
essere essere vero, non meno della “storia”. E tuttavia questo cercato più
profondo nucleo etico dell’arte finirà sempre per sfuggire al giovane Verga dei
romanzi mondani, i quali non riusciranno mai ad attingerlo, superando un atteggiamento di pura condanna
morale di fatto “esterna” alla materia sociale che si voleva trasporre nel
racconto letterario e romanzesco. In questo senso la scelta verghiana di
distaccarsi idealmente dal mondo borghese delle grandi città dell’Italia
centrale e settentrionale e di “ritornare” in Sicilia scaturì forse dal
riconoscimento e dalla presa d’atto del fallimento estetico che accompagnava il
successo commerciale dei suo romanzi. Un fallimento che dovette tanto più
rafforzarlo nella sua idea della incompatibilità dell’arte con la logica
mercantile che governa la “civiltà della Banche e delle Imprese industriali”.
E’ in fondo questo ritorno “ideale” e non banalmente “autobiografico” che
racconta Fantasticheria, la novella
che ci appare come una “introduzione” al mondo dei pescatori di Aci Trezza,
sebbene comparirà, staccata dal grande romanzo, nella raccolta di novelle Vita dei campi. Nel chiuso e immobile
mondo dei pescatori di Aci Trezza, Verga immagina di trovare l'unica possibile
soddisfazione, o approdo alle "irrequietudini" del suo "pensiero
vagabondo", perfino aderendo ad una parte suoi valori, a quella “religione
della famiglia” che gli sembra garantire il calmo e sereno succedersi delle
generazioni in una realtà selvaggia e mitica, al limite tra natura e storia.
L'aspra denuncia moralistica della prefazione ad Eva si muta così nel sogno, nel mito fantastico di un mondo che
appare ancora al di qua della storia. Il distacco e il "giudizio"
moralistici sono superati di fronte ad un mondo primitivo che sembra imporsi da
se, sebbene evocato da una fantasticheria dello stesso scrittore borghese cui
non a caso si accompagna una bella e ricca signora, una ideale lettrice dei
suoi romanzi mondani, come venuta da un altro mondo. Ma è proprio questo
contrasto tra il mondo dell’autore e della sua stessa ideale lettrice e l’altro
creato dall’autore stesso che scomparirà totalmente nel grande romanzo. Nessuna
traccia visibile del tormentato, fantastico itinerario che ci ha condotto ad
esso, troveremo ne “I Malavoglia”. Proprio perciò essi ci appariranno una
stupefacente realizzazione dell’idea verghiana dell’”opera che si fa da sé”,
organismo vivente che vive di vita propria, proprio per la vita che ad essa ha
saputo conferirvi l’autore come scomparso dietro di essa. E come personaggi
“senza” autore, piuttosto che in cerca di esso come i fantasmi i carne ed ossa
della grande commedia pirandelliana, ci appaiono infatti i pescatori di Aci
Trezza. Si tratta allora di capire se una volta approdati al romanzo siamo
veramente usciti dal sogno che ci ha condotto ad esso, ovvero se siamo “soltanto”
veramente pervenuti a quella sua “verità” cui si alludeva nella Prefazione ad Eva da cui siamo partiti. Ma forse è
proprio la “storia” la “verità” del sogno, piuttosto che la sua negazione. La
“fantasmagoria” della lotta per la vita è il grande tema della Prefazione a I Malavoglia,
vigorosa riflessione sulla natura del “progresso”, sul suo “fatale” incessante,
cammino come sulle varie forme da esso assunte a seconda dei vari gradi della
scala sociale. Medesime appaiono così le leggi che per necessità presiedono
alla darwiniana lotta per la vita nel mondo borghese come in quello popolare,
di là dalla spettacolare “fantasmagoria” delle sue forme. Verga si sforza, ma
questa volta riuscendovi, di osservare e rappresentare questo “spettacolo” spassionatamente,
senza giudicarlo, pur nella tragica consapevolezza che la corrente del
“progresso” è destinata ad investire lo stesso “osservatore”, ovvero lo stesso
artista, proprio quell’ “uomo di lusso” che avrebbe dovuto chiudere il “ciclo
dei Vinti”. Perciò all’altezza de I Malavoglia ritorna l’idea della morte
dell’arte come civiltà. Certo il mito persiste e in modo apparentemente
miracoloso Verga riesce a farlo rivivere relegandolo in una
lontananza remota, fermato nella sua “vita anteriore” per l’ultima volta ma per
sempre prima del suo dissolversi nella tragedia del tempo, nel cerchio della
storia. Uscito fuori dalla dimensione della fantasticheria, posto di fronte
alla “fantasmagoria” del tempo storico, già ne I Malavoglia, Verga continua così a sognare. Da sempre incerta tra
“sogno” e “storia”, la sua arte si risolveva così, diventando grande per la
prima volta, nel sogno della storia.
Salvatore Tinè
sabato 8 novembre 2014
Nichilismo
Alcuni amici mi hanno contestato l'accusa di "nichilismo" mossa ad Heidegger: sostenendo che se essa fosse vera sarebbero da considerarsi sciocchi alcuni interpreti del pensiero heideggeriano come, per esempio, Vitiello o Natoli. Non considero affatto degli sciocchi tali studiosi. Allo stesso modo non considero sciocchi, Gunther Anders, Theodor Adorno, Lukacs e Loewith, per le letture “critiche” che essi hanno proposto del pensiero heideggeriano. Penso anch’io che il problema del “nichilismo” sia molto complesso e richieda ulteriori approfondimenti. E’ chiaro infatti che definire “nichilista” un pensatore che ha fatto della “questione dell’essere” il tema fondamentale del suo pensiero può sembrare paradossale. Peraltro in “Essere e tempo” Heidegger ha teso a trasformare il metodo dell’analisi fenomenologica in una analitica esistenziale fondata sulla concretezza dell’esistenza, dell’Esserci: un’analitica che appunto fenomenologicamente mira a cogliere l’ ‘essenza” nel “fenomeno”, a partire dal modo stesso in cui il fenomeno si manifesta da sé. E com’è noto è a partire dalla “fenomenologica” concretezza dell’esistenza umana che Heidegger si pone la domanda sull’Essere, in una continua oscillazione tra una prospettiva che fa dell’Essere l’al di là di ogni mero essente e una prospettiva antropocentrica, soggettivistica che pone al centro l'Esserci.Ma è poi vero che tale tentativo riesca? Io credo invece che esso fallisca e che ad Heidegger finiscano per sfuggire sia la pretesa “purezza” dell’Essere che la stessa “concretezza” dell’ente, di fatto “nullificato” dalla stessa continua evocazione di quella purezza, ovvero sia l'universalità del concetto, della categoria "essere" che la effettiva concretezza della "singolarità" dell'esistente. Due grandi autori del Novecento come Gunther Anders e Adorno lo hanno peraltro sostenuto con argomenti molto solidi.
“Gunther Anders – scrive Adorno nella “ Dialettica negativa”- ha già da anni messo alla berlina la pseudoconcretezza dell’ontologia fondamentale…. L’ossessione per il concetto di concreto si univa all’incapacità di raggiungerlo con il pensiero. La parola rievocante sostituisce la cosa. Ma la filosofia di Heidegger finisce per sfruttare lo “pseudos” di quel tipo di concrezione; poiché “tode ti” e “ousia” sarebbero indiscernibili, egli li impiega l’uno per l’altro, com’era già stato progettato in Aristotele, a seconda del bisogno del “thema probandum”. Il mero ente diventa nullo, viene elevato a essere, a concetto puro di se stesso, essendo libero dalla macchia di essere ente. L’essere, invece, privo di ogni contenuto limitante, non deve più comparire come concetto, ma viene considerato immediato come il “tode ti”: concreto. Entrambi i momenti, una volta assolutamente isolati, non hanno più alcuna “differentia specifica” tra loro e diventano scambiabili, questo “quid pro quo” è un tratto centrale della filosofia di Heidegger.”
Hegel ci ha insegnato che il puro essere, in quanto indeterminato si rovescia nel puro nulla. L’ontologia di Heidegger a me pare essenzialmente nichilistica proprio in quanto ripete questo rovesciamento. Ma l’indistinzione tra l’universalità del concetto e la concretezza dell’esistente, questo continuo scambiarsi, trapassare del piano ontologico in quello ontico, denunciata da Anders e Adorno, credo sia fondamentale per capire la concezione heideggeriana della storia e della politica, come la stessa convinta adesione del filosofo tedesco al nazismo, la cui “intima verità e grandezza” viene identificata da Heidegger nella ‘Introduzione alla metafisica” nientemeno che nello "‘incontro dell’uomo con la tecnica planetaria”. Si pensi allo “scambio” tra il piano della temporalità originaria, autentica dell’Esserci che anticipa il futuro, ovvero la “propria” morte” e quello che lo stesso Heidegger giudica “volgare” della storia comune o “universale”. E’ in fondo questo rovesciarsi del preteso “essenziale” nel dato empiricamente storico o perfino immediatamente politico che Loewith denunciava, sebbene in una prospettiva di radicale “antistoricismo”, ovvero di rifiuto della moderna concezione della realtà come storia e di recupero della "Natura" dei greci, della "physis", rilevando come proprio la storicità concreta, reale sfuggisse completamente all’ontologia heideggeriana, che pure si pretendeva “storica” in un senso più “essenziale” della stessa hegeliana “filosofia della storia” :
“Sorge ora la domanda: la storia universale, come l’uomo occidentale l’ha vissuta e subita, meditata, riferita e approfondita filosoficamente, dalle guerre persiane fino all’ultima guerra mondiale, è riconoscibile in questo personalissimo disegno della storia a partire dall’ ‘essere per la fine’ ogni volta proprio di ciascun Esserci? Vale questa interpretazione esistenziale della storia dalla storicità evenienziale dell’Esserci finito a rendere intelligibile quel come comunemente chiamiamo storia? O forse l’esperienza dell’esser mortali, senza di cui non si darebbe alcuna libertà per la morte, non ci ricollega piuttosto alla natura qual è in ogni essere vivente? E il trapasso dalla temporalità finita di un Esserci in sé isolato davanti alla morte alla storia a tutti comune non resta piuttosto un salto, che lascia indietro, invece di chiarire, le comuni venture storiche?”.
Il salto di cui parla Loewith è lo iato che separa il piano dell'Essere da quello della storia, ovvero l'attesa dell'evento storico dell'essere, che ad un certo punto subentra allo stesso "attivismo" che in qualche modo connotava il tema della "decisione" politica dell'Esserci nello Heidegger nazista degli anni '30 da quello della storia reale, della concreta, effettiva storicità dell'agire politico. E' questo iato incolmabile che in definitiva fa della filosofia heideggeriana una "pseudo-ontologia" che nasconde una teologia per quanto negativa. In questo senso credo che Loewith avesse ragione quando in un intervento per i 70 anni di Heidegger rilevava l’importanza fondamentale degli elementi di teologia cristiana presenti nel pensiero hedeggeriano, sottolineando la sua distanza dall’ “ateismo” di Nietzsche.
“Ma a fondamento sotterraneo di tutto ciò che Heidegger da sempre è venuto enunciando, voce che desta e si fa ascoltare intentamente da molti, è un motivo che resta non mai enunciato – il motivo religioso, separato dal contesto della fede cristiana, ma proprio per questa sua indeterminazione rispetto ai legami di qualsiasi formulazione in dogmi tanto più consono al sentire di coloro che non sono più cristiani credenti, ma pure vorrebbero esser religiosi. Non sono che poche e parche frasi, quelle in cui Heidegger evoca l’Integro e il Sacro, il dio e gli dei, il mortale e l’immortale: eppure bastano a mostrare come egli pensi l’Essere a partire dal tempo, e invero da questo nostro tempo e dalla sua carenza….In questa pietà del pensiero, che dovrebbe far volgere a miglior ventura la distretta dei tempi, risiede probabilmente il motivo di fondo della così ampia eco ed efficacia del pensiero di Heidegger, soprattutto presso coloro che non sono indifferenti alla proclamazione della ‘morte di dio’ perché non meditano ancora entro la problematica dell’ateismo, dopo la svolta di Nietzsche”.
In questo senso credo che il “nichilismo” di Heidegger vada individuato sulla scorta di queste acute osservazioni di Loewith sul nucleo religioso e cristiano del suo pensiero, come della nozione lukacsiana di “teologia atea”. In un un passo della sua “Ontologia dell’essere sociale”, Lukacs rileva acutamente il nesso essenziale tra la teologia apparentemente depurata dei suo concreti contenuti cristiani di Heidegger e la sua fondamentale tesi della “originarietà” del “nulla”, sostenuta in “Was ist Metaphysik?”:
“La sua teologia senza dio perviene alla propria forma massima e più prestigiosa quando elabora le categorie centrali, quelle di essere e nulla, le più astratte e le più vuote di una ontologia. Heidegger sa bene che il problema del nulla non può essere posto dalla scienza. Quindi pone la domanda in maniera puramente teologica anche di fatto: ‘Perché infine l’essente e non piuttosto il nulla?’. Una domanda che può essere posta solo in ambito teologico, in quanto il suo senso consiste non in un perché (warum) causale, ma in un perché (wozu) teleologico. Soltanto a partire di qui si può contestare la derivazione del nulla dalla negazione ed affermare che ‘il nulla è originariamente anteriore al non e alla negazione’. Heidegger viene a trovarsi così – a livello della più modesta oggettività e razionalità terrena – in grandissime difficoltà. Se ‘ il nulla è la radicale negazione della totalità dell’essente’, ne nasce come egli stesso ammette, un compito impossibile per il pensiero. Ma subito lo elude muovendosi nella direzione della ontologia antropocentrica (l’uomo come esserci): ‘Infine si determina una differenza essenziale tra l’affermare la totalità dell’essente in sé, e il sentirsi in mezzo all’essente nella sua totalità. La prima cosa è per principio impossibile. La seconda invece avviene continuamente nella nostra esistenza’. Ora è un gioco da bambini prendere gli affetti umani e gli stati interiori come fenomeni fondamentali e, analizzandoli fenomenologicamente, arrivare al nulla come categoria ontologica. Così parla Heidegger della noia e soprattutto della angoscia: ‘L’angoscia rivela il nulla’. Questa posizione puramente soggettiva può ormai mediante la ‘Wesensschau’, essere liberamente generalizzata nella tesi ontologica: ‘Essere presenti (Da-sein) significa tenersi fermi all’interno del nulla’. Al posto del ‘deus absconditus’ del tardo Kierkegaard compare, terminologicamente diverso ma ontologicamente equivalente, il nulla ( e l’essere che vi corrisponde e che trascende del tutto ogni essente); ma ciò cambia solo emotivamente, solo in un linguaggio che suona ‘ateo’, la posizione di Kierkegaard. In realtà le domande e le risposte di Heidegger hanno un carattere altrettanto teologico”.
Insomma la teologia atea in cui si risolve l’ontologia negativa di Heidegger è una concezione sostanzialmente nichilistica dell’essere, soggettivisticamente identificato con il puro nulla. Una nozione dell' essere totalmente astratta di essere, staccata e e perfino contrapposta a quella dell'oggettività dell'essente, non può che sfociare nel nichilismo. Sfugge così ad Heidegger non soltanto la "naturalità" dell'uomo, il suo essere spinozianamente "pars naturae", parte della natura, ma la sua stessa storicità, che Heidegger pensa soltanto in alcuni dei suoi aspetti "fenomenologici" e non certo nella sua concreta dimensione materiale, radicata nella socialità del lavoro e quindi nella sfera dell'agire e della prassi. Giustamente Anders denuncia come l'idea del manifestarsi dell'essere, finisca per ridurre quest'ultimo al suo apparire fenomenologico, finendo per smarrire come nell'odierno mondo della "pubblicità" così suggestivamente descritto proprio Heidegger in "Essere e tempo", ogni distinzione, ogni concreta articolazione tra "essenza" e "fenomeno", tra la realtà e il suo mero apparire. Lo stesso "decisionismo" esistenziale di Essere e tempo tutto coniugato al futuro, centrato sull'attesa e anticipazione della morte trascura completamente la dimensione effettiva, pratica, concretamente ontologica e conflittuale della "realtà" del "presente". In realtà l'unica ontologia possibile, ovvvero non nichilistica, non è quella dell'Esserci, bensì dell'essere sociale.
Salvatore Tinè
giovedì 23 ottobre 2014
Il giovane favoloso
E' in fondo del "dramma" dell'essere "giovani" che, attraverso il racconto della vita di un giovane "eccezionale", Giacomo Leopardi, ci parla "Il giovane favoloso" di Mario Martone. Ma più ancora forse del "restare" giovani. Ma cosa è la giovinezza se non la fase più difficile e drammatica della nostra vita: un doloroso "blocco", come una violenta "strozzatura" più che uno svolgimento, la ricerca di una forma assoluta che dia un senso alla nostra vita, piuttosto che un "saggio" abbandonarsi ad essa, al suo mero fluire, ovvero alla sua quotidiana banalità, alle sue credenze e illusioni accettate non per intimo, effettivo convincimento ma, per così dire, "conformisticamente". Nel mondo odierno, nel quale pure tanto si parla di "giovani" e di "giovinezza", sono scomparsi proprio i giovani. Si pensi all'Italia di Renzi, certo infinitamente più povera di idee e cultura di quella pure chiusa e provinciale dell'età della Restaurazione in cui toccò di vivere al giovane Leopardi e perciò anche inifinitamente più senile di essa: il nostro attuale presidente del Consiglio, il più giovane della storia italiana è in realtà tra i personaggi più vecchi, più insopportabilmente conformisti e "senili" che questo paese abbia mai espresso, la più clamorosa e insieme grottesca, proprio nella sua emblematicità, incarnazione del gretto egoismo "italico" che proprio Leopardi genialmente stigmatizzava nel suo attualissimo "Discorso sopra lo stato presente de' costumi degl'Italiani" del 1818. Contro l'Italia "vecchia" del suo tempo, Leopardi si ribellava, silenziosamente attraverso i suoi versi immortali ma anche pubblicamente nelle sue prese di posizione aperte, dichiarate contro la cultura cattolica e romantico-spiritualistica dominante nel suo e nostro paese e che nessuna Rivoluzione che non fosse esportata fuori dai confini aveva mai teso a distruggere e a sradicare. Leopardi è in fondo l'unico grande intellettuale e pensatore illuminista di livello europeo che l'Italia possa vantare. Ciò che spiega la sua solitaria grandezza e insieme la sua terribile solitudine. Un giovane "vero" tale cioè non solo anagraficamente ma perchè rifuta "criticamente", "razionalmente" la famiglia e il milieu culturale in cui è nato e cresciuto e nel quale non può che essere e quindi sentirsi solo. Non siamo mai stati così tristi e disperati come da giovani. Odiare il padre e la madre, sia pure amandoli e perfino teneramente come ha avuto il coraggio di fare Leopardi è tipico dei giovani. E' una straordinaria "tipicità" giovanile allora ad incarnarsi nella disperata "eccezionalità" di Giacomo. Si pensi al "peso" del corpo che angustia Leopardi nel film di Martone, forse la più acuta ed efficace "metafora" visiva del suo essere "giovane", a partire dalle sequenze in cui lo vediamo "bloccarsi" dolorosamente nell'atto pure elementare della minzione. E' il corpo infatti da giovani, proprio nella fase della vita in cui esso viene crescendo e formandosi a mediare il rapporto tra noi stessi da un lato e gli altri e la stessa Natura di cui pure siamo parte dall'altra. Nostro certo il "nostro" corpo e tuttavia non meno estraneo e "altro" degli altri e della Natura. Il nostro corpo in tal senso è un peso allo stesso modo che quello apparentemente deforme e "pesante" che imprigionò l'intelletto di Leopardi. La lotta per formarci, per definire la nostra identità passa attraverso il conflitto con gli altri, in primo luogo il padre e la madre e quindi con noi stessi, con quella parte di noi stessi, in primo luogo il nostro stesso corpo che abbiamo ereditato e che non possiamo certamente cancellare. Essere giovani significa allora essere perennemente in conflitto, quindi perennemente scissi e lacerati. Il materialismo di Leopardi in tal senso si incarna prima di tutto nella soffertissima materialità del suo stesso corpo. Eppure è attraverso la straordinaria acutezza e lucidità "illuministica" della sua intelligenza che quella materialità è stata colta e vissuta, elaborata in pensieri, e perfino sublimata in una poesia altissima. "Dove smettere di pensare che il mio pensiero sia figlio della mia malattia" grida Leopardi in una scena del film ad alcuni amici letterati in un caffè di Napoli. Il suo corpo pesa certo ma insieme pensa, se stesso e il mondo di cui è parte. Non di "malattia" allora bisogna parlare, né di "pessimismo" per capire in profondità il pensatore, il poeta e l'uomo Leopardi, bensì di materialismo. Il materialismo di Leopardi è in fondo questa così acuta e personalmente, fisicamente sofferta consapevolezza della materialità della nostra condizione, di là da ogni conformistica illusione, sia essa religiosa o metafisica, e perciò della materialità del conflitto che lacera le società umane come il rapporto tra esse ed una Natura indifferente e cieca che sarebbe stolto divinizzare. Ma è proprio questa consapevolezza a rendere la solitudine di Leopardi, il suo distacco dagli uomini e dal suo mondo storico, tanto pregni di significati così universalmente umani e insieme capaci di cosmiche risonanze. E Leopardi ci appare come confitto nel suo fragile corpo perfino nell'ultima sequenza del film, in cui di fronte all'esplodere violento del Vesuvio il suo pensiero si proietta audacemente, tutt'altro che spaurito nel tempo della storia e poi ancora spinozianamente nell'"eternità" della materia e dello spazio, nel mare infinito dell'essere. Il suo sguardo triste nell'ultima inquadratura è allora quello di un giovane rimasto tale, fermo a interrogarsi sul senso della propria vita come di quella dell'universo verso cui inevitabilmente si affaccia e si protende, sul terreno intellettuale come su quello della ricerca del piacere e della felicità.
Salvatore Tinè
mercoledì 22 ottobre 2014
Inoperosità
Il IX libro della Metafisica di Aristotele è da considerarsi una delle basi da cui ripartire per ridefinire non solo una nuova politica ma anche una nuova etica adeguate al mondo odierno. Il suo tema infatti, quello del rapporto tra "possibile" e "reale" è squisitamente teoretico e insieme fondamentale per definire il senso dell'etica e della politica, ovvero del nostro vivere nel mondo ma per trasformarlo. E' forse possibile pensare la "trasformazione", il movimento politico teso a cambiare il mondo di cui pure siamo parte sulla base della nozione aristotelica di "movimento", perfino recuperando almeno qualcosa della tensione "finalistica", "teleologica" ad essa immanente, ma di la da ogni astratta "teologia" o "trascendenza". Il movimento per Aristotele è il passaggio dalla potenza all'atto, ovvero dalla possibilità alla realtà. Aristotele tiene fermo alla distinzione tra possibilità e realtà di contro ad ogni loro astratta identificazione del tipo di quella che caratterizza la ripresa megarica dell'eleatismo e tuttavia una autentica possibilità non è un mero "desiderio", destinato a restare tale, ma capacità, proprietà di tradursi in realtà. E' in fondo il passaggio dalla possibilità alla realtà il presupposto teorico fondamentale della hegeliana dialettica del lavoro ('ergon' in Aristotele da cui deriva "energheia") Ma Aristotele tuttavia lo pensa a partire dal primato, dall'anteriorità dell'atto, ovvero del suo "fine" ad esso immanente. Pensare il movimento come realizzarsi della potenza significa pensare il movimento a partire dal suo "principio", dalla sua "forma": ciò che non significa risolverlo in mera parvenza. La stessa "prassi" di Marx affonda qui le sue radici e non certo nella celebrata "inoperosità" della "potenza", di fatto dissolta in mera, astratta possibilità, in sostanziale impotenza di certo "heideggerismo". Dunque, il lavoro come movimento, certo, ma movimento dotato di forma, ontologicamente alternativo all'impotente tensione infinita ad uno scopo ad esso esterno come in tutte le varianti borghesi del moderno "faustismo": tensione ad una finalità, certo, ma si direbbe kantianamente "senza scopo" ad esso esterno. Lo sviluppo "fine a stesso" delle facoltà umane attraverso il lavoro reso compiutamente ed effettivamente "sociale" di cui parlava Marx non ha in questo senso niente a che vedere con l'idea tipicamente borghese della "infinità" dello sviluppo e "recupera" certamente qualcosa della tensione alla "forma" e al "limite", ovvero alla "finitezza" così caratteristica della grecità
Di fronte a tanti compagni o ex-tali che parlano entusiasti della "inoperosità" come di una "nuova" idea della filosofia, della "ontologia" come qualcuno si spinge a rivendicare, e paradossalmente perfino della politica, mi viene da pensare da comunista ma più in generale da "progressista" che bisognerebbe riproporre una nuova "etica del lavoro" come nucleo di una rinnovata "filosofia della prassi" riveduta e corretta, ma anche dell'unica, seriamente pensabile ontologia, quella dell'essere sociale, ovvero dell'uomo che "opera" lavorando perchè così pensa e insieme crea se stesso, facendo soltanto di se stesso il proprio fine, non quindi semplicemente assumendo "liberamente" come fantasticano Nietzsche ed Heidegger e i loro nipotini di "sinistra", il proprio "destino", ma operosamente costruendolo sul terreno "ontologico" e "materiale" del lavoro e della prassi.
Salvatore Tinè
L'intellettuale collettivo.
"Coltiva nell'augusta solitudine la mente", dice in un suo verso, di Gramsci in carcere, Giovanni Giudici. Eppure in quella "solitudine", Gramsci teorizzerà nientemeno che l'"intellettuale collettivo", ovvero si direbbe, una "mente" non più "solitaria", "individuale", ma, appunto, "generale", "collettiva". Pensare da "soli" e tuttavia sentendosi e insieme pensandosi parte perfino nel chiuso di una cella, di quello che Marx definì una volta in inglese "General Intellect": è questo il nucleo teorico dei "Quaderni" carcerari. Non dunque il "pessimismo d'intelligenza" leopardianamente complementare ad una "volontà protesa quando muore" cui in un altro verso allude Giudici, ma semmai la potenza della "mente" e quindi della stessa "volontà" nel farsi entrambe e insieme "collettive", spinoziani "attributi" di un unico "organismo" o soggetto politico non più miticamente incarnato in un individuo o persona come il Principe machiavelliano, ma in un "moderno Principe" tale perchè "collettivo".
Salvatore Tinè
venerdì 3 ottobre 2014
Il pince-nez di Ejzenstejn
Il grande Zar è solo. Solo contro tutti. La sua ambizione di rappresentare nella sua persona fisica la nazione, la terra russa, il popolo lo consegna ad una terribile, tragica solitudine come ad un'esistenza "vuota". In "Ivan il Terribile", Ejsenstejn ci parla del potere, attraverso le sue immagini, i suoi riti solenni, le sue sacre simbologie. Il potere è in primo luogo immagine, spettacolo esteriore, pura manifestazione di sè e della sua "gloria", ma anche appunto "rappresentazione". Impossibile infatti è separare Ivan dalla maschera simbolica del suo potere; impossibile cogliere di là da quella maschera, la sua interiorità e la sua psicologia individuali destinate a restare del tutto misteriose e inafferrabili per tutto il film; impossibile separare il suo corpo individuale, "privato", dal suo corpo sacro, "pubblico". Il potere è "rappresentazione" paradossalmente proprio per la sua distanza, differenza ineliminabile da ciò che che "rappresenta", sia esso Dio il popolo o la nazione. In questo senso nessuna cosa più di esso potere si presta ad essere "rappresentata" meglio attraverso il cinema ovvero ovvero il linguaggio delle immagini. A Ejzenstejn, Stalin rimproverò di avere rappresentato Ivan come un Amleto. Credo si tratti di un rimprovero sbagliato: il protagonista del film ci appare infatti del tutto di "interiorità" e di "psicologia". Tuttavia il suo potere per quanto "pubblico" nella sua manifestarsi, sembra tuttavia esercitarsi solo dentro uno uno spazio chiuso, chiuso nelle stanze del palazzo. Ejsenstejn ci conduce dentro gli "interni" angusti, bui, claustrofobici, di quelle stanze. Per una volta le masse, il popolo sono quasi del tutto assenti, come se solo del Potere ci fosse storia. Come se la lotta "eterna" tra lo Stato o l'Impero da un lato e i signori feudali dall'altro avesse sostituito la lotta tra le classi ovvero quella tra l'aristocrazia di fatto "alleata" della monarchia assoluta e le masse popolari. La lotta "per" il potere e non quella "contro" di esso è infatti al centro della riflessione del grande regista sovietico. La rappresentazione di tale lotta è grandiosa. Tale cosi radicale cambiamento dell'"oggetto" della rappresentazione, appunto non più "le masse" ma il "potere", determina infatti un cambiamento dello stile e perfino della stessa concezione del cinema. Per la prima volta, in Ejsenstejn il cinema non è più solo montaggio ma "inquadratura". Il movimento "rivoluzionario" di scomposizione e ricomposizione soggettiva e intellettuale della realtà viene sostituito da inquadrature lente e statiche. Se prima il cinema comprendeva il mondo trasformandolo attraverso il montaggio ora esso lo comprende "inquadrandolo". Ciò perchè la realtà inquadrata adesso è il potere ovvero la storia "eterna" delle classi dominanti. Da politico, il cinema si è fatto storico. Il grande occhio del Cristo Pantocratore che vediamo campeggiare in una superba inquadratura del film di Ejsenstejin è la metafora visiva di questo cinema storico, del suo sguardo tendenzialmente onnicomprensivo e perciò statico. Allo sguardo "parziale", "cubista", che scomponeva il reale per trasformarlo dei film militanti di Ejsenstejn fa ora seguito uno sguardo totale, che nella misura in cui tende a cogliere la totalità della storia, di là dalla molteplicità dei suoi punti di vista, per ciò stesso sembra arrestarne il movimento. Lo spazio prevale così sul tempo fino ad annullarlo. Di qui il senso di claustrofobia che il film ci comunica: la chiusura dello spazio fa premio sull'apertura del tempo. Non ci vuole molto a capire in realtà che l'occhio del Cristo è quello del potere, ovvero l'occhio che ci guarda. Non siamo più noi a guadare la realtà, ma è la realtà che "guarda" noi. "Chi cerca non trova ma chi non cerca viene trovato", ha detto una volta Kafka e Ejzenstejn o meglio il suo sguardo "ci trova". Siamo al di là del pinz-nez de La Corazzata Potemkin, la visione "microscopica" e "analitica" che dilatava i vermi della carne putrefatta, grandiosa metafora visiva della leniniana "putrescenza" del capitalismo maturo, ovvero del suo "potere" già morto, sebbene non ancora caduto. In "Ivan il Terribile", la lettura ejsenstejniana del potere è, invece, assolutamente teologica, o meglio teologico-politica. Perciò nessun "potere dell'occhio" (quale quello del pince -nez de "La Corazzata Potemkin) si contrappone più all'"occhio del potere".
Salvatore Tinè.
sabato 20 settembre 2014
Naufragio con sognatrice
Ripensando a "Naufragio con spettatore" di Blumenberg mi viene in mente una poesia di Umberto Saba, intitolata "Ulisse":
O tu che sei sì triste ed hai presagi
d'orrore- Ulisse al declino - nessuna
dentro l'anima tua dolcezza aduna
la Brama
pallida sognatrice di naufragi che t'ama?
L'atarassico "spettatore" lucreziano evocato nel libro di Blumenberg per contrasto mi riporta alla mente la "pallida sognatrice di naufragi" di Saba. Forse, la nostra vera "Brama", ovvero il nostro più profondo e dolce sogno è quello di naufragare nel sogno di una donna. "E il naufragar m'è dolce in questo mare", cantava Leopardi. Ma era il suo, un antilucreziano naufragio "dello" spettatore, "dolce" certo, ma "senza sognatrice"
Salvatore Tiné
venerdì 19 settembre 2014
Internazionalismo e questione nazionale nel pensiero di Gramsci
Internazionalismo e questione nazionale nel pensiero
di Gramsci.
Quello del rapporto tra
internazionalismo e questione nazionale è uno dei temi fondamentali del
pensiero gramsciano in tutto l’arco della sua evoluzione. Già in alcuni
articoli del 1918, il giovane Gramsci sottolineava la permanente vocazione
cosmopolitica del sistema di produzione capitalistica. Una vocazione che gli appariva particolarmente evidente nei
settori più avanzati del capitalismo mondiale, ovvero nei grandi gruppi
industriali e finanziari inglesi e americani. Sono questi gruppi infatti a
sostenere, secondo Gramsci, il disegno wilsoniano di un nuovo ordine mondiale
fondato insieme sul principio della libertà e dell’indipendenza dei popoli e delle nazioni e su quello della libertà
degli scambi internazionali. Libero da ogni residuo di particolarismo feudale
così come dalle varie forme di statalismo e di protezionismo burocratico e
corporativo, caratteristiche dei grandi paesi dell’Europa continentale, il
modello capitalistico anglosassone si presenta come l’espressione più matura
della logica internazionalistica e liberoscambista propria della moderna
economia borghese. Scrive Gramsci in un articolo intitolato La Lega della Nazioni, pubblicato su Il Grido del popolo, il 19 gennaio 1918.
L’economia borghese ha così suscitato le grandi
nazioni moderne. Nei paesi anglosassoni è andata oltre: all’interno la pratica
liberale ha creato meravigliose individualità, energie sicure, agguerrite alla
lotta e alla concorrenza, ha discentrati gli Stati, li ha sburocratizzati: la
produzione, non insidiata continuamente da forze non economiche, si è
sviluppata con un respiro d’ampiezza mondiale, ha rovesciato sui mercati
mondiali cumuli di merce e di ricchezza. Continua ad operare; si sente
soffocata dalla sopravvivenza del protezionismo in molti dei mercati europei e
del mondo.[1]
Di qui l’interesse della
“borghesia liberista anglosassone” al superamento delle divisioni
nazionali e dei contrasti politici e
militari tra i vari stati in cui pure continuava ad articolarsi la struttura
della politica e dell’economia mondiali.
Rappresenta, la Lega delle Nazioni, un superamento
del periodo storico delle alleanze e degli accordi militari: rappresenta un
conguagliamento della politica con l’economia, una saldatura delle classi
borghesi nazionali in ciò che le affratella al di sopra delle differenziazioni
politiche: l’interesse economico. Ecco perché l’ideologia si è affermata
vittoriosamente nei due grandi Stati anglosassoni, liberisti e liberali.[2]
Si comprende allora la dura
polemica del giovane Gramsci contro il “nazionalismo”: quest’ultimo rappresenta
infatti per il pensatore sardo un fenomeno ideologico e politico caratteristico
di borghesie deboli e arretrate ovvero di piccole borghesie retrive e
reazionarie.
La classe borghese, sul piano economico, è
internazionale; deve, necessariamente, saldarsi, attraverso le differenziazioni
nazionali; la sua dottrina di classe è il liberalismo in politica e il
liberismo in economia. [...] Il nazionalismo, come dottrina politica e come
dottrina economica, si restringe necessariamente agli interessi di categorie
singole di produttori, sceglie, nella classe, i nuclei già formati e
consolidati, e tenta perpetuarne il dominio e il privilegio.[3]
Lo stesso processo di genesi e di
formazione delle grandi nazioni europee aveva
rappresentato la prima grande manifestazione della tendenza propria del
mondo moderno ad assumere forme di
organizzazione economica e politica sempre più larghe ed espansive, sia di tipo
nazionale che sovra-nazionale. Una tendenza destinata a culminare nel
superamento delle divisioni nazionali e della stessa forma politica dello
Stato-nazione. In tal senso, di contro ad ogni visione statica o
“sovra-storica” delle realtà delle nazioni, Gramsci sottolineava con grande
forza la transitorietà ovvero la “storicità” di queste ultime.
[la nazione] non è alcunché di stabile e di
definitivo, ma è solo un momento dell’organizzazione economico-politica degli
uomini. [...] Essa si è allargata dal Comune artigiano allo Stato nazionale,
dal feudo nobilesco allo Stato nazionale borghese. […] Tende ad allargarsi
maggiormente, perché le libertà ed autonomie realizzate finora non bastano più,
tende a organizzazioni più vaste e comprensive: la Lega delle Nazioni borghesi,
l’Internazionale proletaria.[4]
Al progetto di un nuovo ordine
nazionale garantito dalla Lega delle Nazioni,
il giovane Gramsci ancora legato alla tradizione liberale e liberista
che tanto aveva influenzato la sua formazione intellettuale e politica, guarda
con evidente simpatia.[5] Non a
caso egli sottolinea l'autorità e il prestigio che la figura di Wilson riscuote
tra "i socialisti e il proletariato organizzato"[6]. "La
concezione del mondo implicita nei messaggi del presidente americano e nel
progetto della Lega delle Nazioni" coincide per Gramsci con "quella
presupposta dalla dottrina marxista per l'avvento dell'Internazionale
socialista"[7]. La
concezione internazionalistica della rivoluzione operaia era scaturita infatti
dall'elaborazione critica della tradizione economica pacifista e
liberoscambista che Cobden aveva predicato in tutta Europa. In continuità con
tale tradizione il disegno di pace di Wilson preparava così oggettivamente il
terreno storico all'avvento dell'internazionalismo operaio. Tuttavia le
prospettive di realizzazione della strategia del presidente americano
apparivano a Gramsci strettamente legate ai destini del nuovo stato sorto dalla
Rivoluzione d'Ottobre, nel quale Gramsci
individuava il primo e più potente motore del processo di ricostruzione di una
nuova unità mondiale.
L'avvenire delle nazioni e dei popoli dovrà ai
massimalisti russi le maggiori garanzie di pace che certamente saranno
assicurate. [...] Il programma di Wilson, la pace delle nazioni, si avvererà
solo per il sacrifizio della Russia, per il matrimonio della Russia. [...]
Wilson lo ha sentito, e ha reso omaggio
a quelli che pure sono anche i suoi avversari.[8]
La realizzazione del disegno
wilsoniano avrebbe infatti condotto il processo di unificazione mondiale al suo
compimento, sia pure dentro i limiti invalicabili della produzione
capitalistica, ponendo così le basi di una nuova struttura del mondo, non più
centrata sul tradizionale sistema westfaliano dell'equilibrio degli stati, ma sulla formazione attorno alla
Società delle Nazioni di una sorta di super-stato di tipo cosmopolitico, anche
se ad egemonia anglosassone o americana. In tal senso un'economia sempre più
internazionalizzata avrebbe avuto la possibilità di adeguare alle sue esigenze
di crescita su scala mondiale le stesse forme istituzionali del governo e della
politica trascendendone i tradizionali confini nazionali. In continuità con
tale motivo della sua riflessione giovanile, nei Quaderni Gramsci individuerà proprio nella contraddizione tra il "cosmopolitismo
dell'economia" e il "nazionalismo della politica" una delle
cause fondamentali della crisi generale del mondo capitalistico. La società
capitalistica sarebbe entrata in una fase del suo sviluppo caratterizzata dal
pieno dispiegamento dell'individualismo proprietario e dal conseguente declino
storico dello Stato-nazione.
Noi crediamo che dei fatti politici di straordinaria
grandezza siano in maturazione e crediamo che la discussione del problema dei
superstati ne sia appunto il sintomo esteriore. In seno a tutte le singole
nazioni del mondo esistono energie capitalistiche che hanno interessi
permanentemente solidali tra loro: queste energie vorrebbero assicurarsi
garanzie permanenti di pace, per svilupparsi ed espandersi. Esse cercano di
rivelarsi e cercano di organizzarsi internazionalmente: la Società delle
Nazioni è l'ideologia che fiorisce su questa solida base economica [...] La
legge intrinseca del regime opera necessariamente e implacabilmente e porta al
costituirsi di questi mastodontici organismi economico-politici.[9]
Gli imperi inglese e americano
appaiono agli occhi di Gramsci come l'espressione di "una forma nuova di
società" capace in virtù del suo dinamismo e della sua modernità economica
di avviare a soluzione perfino i contrasti e le divisioni nazionali.
Interessante a tal proposito è quanto scrive Gramsci a proposito del
"problema delle nazionalità" nell'ambito dell'impero inglese.
Gli inglesi hanno incominciato ad attuare nel loro
impero la forma nuova di società, trasformando il territorio dei loro domini in
una colossale federazione di nazioni -poichè le colonie inglesi sono ormai
diventate delle vere nazioni, a sviluppo economico notevole, e tra gli indigeni
sono sorte le classi sociali, e la borghesia indigena sente di essere unita da
vincoli di solidarietà con la borghesia della madre-patria. Gli inglesi hanno
risolto il problema delle nazionalità, hanno cercato con la federazione di
evitare la secessione, di veder sfasciarsi la formidabile concentrazione di
capitali che rappresenta l'Impero britannico.[10]
Evidente appare la
trasfigurazione dei rapporti di dipendenza economica e politica tra
l'imperialismo inglese e i popoli coloniali ad esso soggetti e la
sottovalutazione della "questione coloniale". Anche l'assoggettamento
delle nazioni capitalisticamente più arretrate ad una possibile
"federazione" degli imperi globale e americano appare a Gramsci come
una prospettiva non solo probabile ma perfino auspicabile. Sono particolarmente
le "nazioni latine" ovvero l'Italia e la Francia ad apparirgli meno
avanzate dell'Inghilterra e degli Stati Uniti sul piano dell'evoluzione
economica come su quello dello sviluppo politico: perciò esse sono
inevitabilmente costrette "a diventare satelliti della nuova formidabile
forza storica che si sta costituendo". Ma anche la Germania e l'Austria
non avrebbero potuto che soccombere all'immensa forza egemonica del mondo anglosassone.
Solo dentro un tale scenario, caratterizzato dall'ingresso nel mercato mondiale
degli stati più deboli e arretrati anche a scapito della loro stessa autonomia
e indipendenza nazionale, appare a Gramsci possibile uno sviluppo pacifico del
quadro mondiale.
E la pace? Forse sarà assicurata proprio da questo
costituirsi di una immane potenza, contro cui ogni altra sarebbe debole e si
frangerebbe nel cozzo. La necessità di vita costringerà i minori Stati a
rinunziare alla loro assoluta indipendenza per resistere alla libera
concorrenza scatenata su così vasta base.
La pace sarà data dal predominio, - ottenuto per sviluppo spontaneo di
potenza economica - del mondo anglosassone: anche la Mitteleuropa dovrà piegar
il capo ed assoggettarsi.[11]
E' soprattutto nell'internazionalismo di
Wilson che la immane "potenza economica" del mondo anglosassone trova
la sua più chiara espressione politica e ideologica: Gramsci ne esalta il
significato progressivo dell'internazionalismo wilsoniano: in aspra polemica
con i cattolici italiani ne sottolinea insieme la matrice calvinista e il carattere
moderno, diametralmente contrapposto al "cosmopolitismo" della Chiesa
romana, di natura "gerarchica" e "feudale".
L'internazionalismo di Wilson si presenta, agli occhi di Gramsci una delle più
straordinarie manifestazioni del dinamismo economico e della modernità
culturale prima ancora che politica del capitalismo americano. Il tema
dell'"americanismo" destinato com'è noto a tornare nella più matura
riflessione dei Quaderni, è in tal
senso uno degli aspetti fondamentali della concezione dell'internazionalismo
propria del giovane Gramsci.[12]
Per una predicazione simile a quella del presidente
Wilson, il papa è stato privato del potere temporale e i sudditi si sono
ribellati alla sua autorità teocratica: l'ideologia wilsoniana della Società
delle Nazioni è l'ideologia propria del
capitalismo moderno, che vuole liberare l'individuo da ogni ceppo autoritatio
collettivo dipendente da struttura economiche precapitalistiche, per instaurare
la cosmopoli borghese in funzione di una più sfrenata gara all'arricchimento
individuale, possibile solo con la caduta dei monopoli nazionali dei mercati
del mondo: l'ideologia wilsoniana è anticattolica, è antigerarchica, è la
rivoluzione capitalistica demoniaca che il papa ha sempre esorcizzato, senza riuscire
a difendere contro di essa il patrimonio tradizionale economico e politico del
cattolicismo feudale.[13]
Convinto che il comunismo altro
non sia che l'effettivo compimento della modernità, Gramsci tende in questra
fase del suo pensiero ad accentuare fortemente gli elementi di continuità della
rivoluzione bolscevica con i principi liberali, soprattutto nella loro versione
anglo-sassone, piuttosto che quelli di conflitto o di rottura. Come è stato
opportunamente notato egli "sembra sottovalutare l'asprezza dello scontro
già in atto tra Russia sovietica e movimento comunista da un lato e Occidente
capitalista, compresa la sua componente liberale, dall'altro"[14]. Non
sfuggiranno tuttavia a Gramsci il carattere pur sempre imperialista della
nascente egemonia statunitense e le modalità in cui essa viene manifestandosi
in un quadro internazionale, certo tutt'altro tutt'altro che pacificato. Soprattutto
a partire dagli scritti del 1919, la sua attenzione viene sempre più
concentrandosi sui caratteri monopolistici e imperialistici del capitalismo
anglo-americano di cui cure aveva in passato teso ad evidenziare come si è
visto le tendenze liberali e liberoscambiste. Il nuovo quadro delle
contraddizioni inter-imperialistiche che viene via via delineandosi insieme ai
fallimenti delle varie ipotesi di riorganizzazione pacifica della struttura del
mondo inducono Gramsci, in alcuni articoli del 1919, a denunciare in termini in
termini netti il carattere astratto e utopistico dell'ideologia
liberoscambista: quest'ultima gli appare adesso del tutto inadeguata a
comprendere la reale struttura dei rappporti internazionali caratteristica
dell'epoca del capitalismo monopolitistico e imperialistico. L'unificazione
capitalistica del mondo si è effettivamente realizzata ma solo attraverso il
brutale assoggettamento degli stati capitalisti più deboli ad una ristretta
oligarchia industriale e finanziaria
composta dai grandi gruppi monopolistici inglesi e americani. L'unificazione
capitalistica lungi dal configurarsi come l'avvento di una pacifica struttura
del mondo all'insegna dell'unità e dell'interdipendenza tra le nazioni è in
realtà la conseguenza di un profondo riassetto delle gerarchie del potere
mondiale e di una nuova divisione internazionale del lavoro immediatamente
funzionale agli interessi dell'imperialismo anglo-americano. Scrive in un
articolo su L'Ordine nuovo, del 15
maggio 1919:
Il mito della guerra - l'unità del mondo nella
Società delle Nazioni - si è realizzato nei modi e nella forma che poteva
realizzarsi in regime di proprietà privata e nazionale: nel monopolio del globo
esercitato e sfruttato dagli anglosassoni. La vita economica e politica degli Stati
è controllata strettamente dal capitalismo angloamericano. [...] Lo Stato
nazionale è morto, diventando una sfera di influenza, un monopolio in mano a
stranieri. Il mondo è "unificato" nel senso che si è creata una
gerarchia mondiale che tutto il mondo disciplina e controlla autoritariamente;
è avvenuta la concentrazione massima della proprietà privata, tutto il mondo è
un trust in mano di qualche decina di banchieri, armatori e industriali
anglosassoni.[15]
Viene così emergendo in Gramsci
una più matura percezione del ruolo fondamentale degli stati nazionali e in
particolare degli stati politicamente e militarmente più forti nei processi di
internazionalizzazione dell'economia capitalistica. Imperialismo e "libero
scambio" non appaiono più incompatibili ove il loro nesso venga colto
nella concreta dialettica storica della società borghese. Gramsci sottolinea
come anche nell'ambito delle relazioni internazionali e non solo nella sfera
interna della vita dei singoli stati, il rapporto tra economia e politica sia
sempre stato un rapporto storicamente complesso e contraddittorio. Nonostante
il carattere in linea di principio antistatalista e antiinterventista
dell'ideologia liberale la concorrenza non avviene certo in modo pacifico, non
potendo non svolgersi nell'epoca del capitalismo monopolistico nella forma
della lotta violenta e della guerra tra gli stati. La formazione di una economia mondiale
rafforza e non diminuisce la funzione dello stato nazionale nella concorrenza internazionale tra i grandi
gruppi monopolistici. Non sfugge a Gramsci il contrasto tra l'"ideologia"
liberale e la "realtà" dell'imperialismo: se è vero che l'ideologia
cosmopolitica del libero scambio ha storicamente costituito una delle fonti
originali del marxismo e del carattere
eminentemente internazionale del suo disegno di emancipazione, è anche vero che
la dottrina di Marx è scaturita da una critica profonda e quindi da un
superamento di quanto di astratto e di "utopistico" quell'ideologia
conteneva.
Tutta la tradizione liberale è contro lo Stato. [...]
La concorrenza è la nemica più accerrima dello stato. La stessa idea
dell'Internazionale è di origine liberale; Marx la assunse dalla scuola di
Cobden e dalla propaganda per il libero scambio, ma criticamente. I liberali
sono impotenti a realizzare la pace e l'Internazionale, perchè la proprietà
privata e nazionale genera scissioni, confini, guerre, Stati nazionali in
conflitto permanente tra di loro.[16]
L'imperialismo e la guerra
mettono a nudo la reale natura e gli insuperabili limiti storici dell'internazionalismo
capitalistico anche nelle sue forme più "moderne" e avanzate. Crisi
dello stato-nazione e suo rafforzamento e allargamento coesistono per Gramsci
in un indissolubile nesso dialettico: la tematica, che sarà fondamentale nella
riflessione dei Quaderni,
dell'allargamento delle funzioni dello stato nazionale come tratto fondamentale
dell'evoluzione della politica borghese nell'epoca dell'imperialismo, è già un
tema ricorrente nel pensiero di Gramsci negli anni 1918-20. Ma è proprio la
crisi del capitalismo mondiale ad assegnare alle classi operaie dei paesi
capitalistici una precisa funzione nazionale. Particolarmente significativo a
tal proposito è un articolo pubblicato su L'Avanti
il 18 luglio 1919, dal titolo Italiani e
cinesi, dove Gramsci si sofferma
sulla collocazione subordinata dell'Italia nell'ambito della divisione
internazionale del lavoro. Una collocazione che, dice Gramsci, ha fatto degli
italiani "un popolo di cinesi".
L'Italia è diventata un mercato di sfruttamento
coloniale, una sfera di influenza, un dominion, una terra di capitolazioni,
tutto fuorchè uno stato indipendente e sovrano. [...] Quanto più la classe
dirigente ha precipitato in basso la nazione italiana, tanto più aspro
sacrificio deve sostenere il proletariato per ricreare alla nazione una
personalità storica indipendente.[17]
Ma la condizione dell'Italia è
comune al complesso delle nazioni e
degli stati sottoposti sia economicamente che politicamente, allo strapotere dell'imperialismo britannico.
Perciò attraverso la sua iniziativa rivoluzionaria, il proletariato, dice Gramsci, "entra nel gioco della
politica mondiale, per fini e con preoccupazioni mondiali", con effetti
che "peseranno nella fortuna di tutti i popoli del mondo, di tutti i
popoli oppressi che aspettano quella liberazione che la guerra 'democratica'
non poteva dare"[18]. Le
istanze e rivendicazioni politiche nazionali ancora vive nei paesi europei
all'indomani della prima guerra mondiale, in quelli usciti formalmente
"vincitori" come in quelli vinti si uniscono in tal modo alle lotte e
ai movimenti di emancipazione anti-imperialista dei popolo coloniali. Lo
scontro su scala mondiale tra Lenin e Churchill ovvero tra l'impero inglese e
l'emergente potenza sovietica è in larga parte in larga parte scandito da
questo nuovo intreccio tra "questione nazionale" e "questione
coloniale". La lotta per l'indipendenza nazionale da parte di tutti i
popoli oppressi è un momento della lotta di classe del proletariato mondiale.
Classe e nazione non sono per Gramsci ove siano colte nella loro storicità
concreta due categorie contrapposte o incompatibili tra loro: anzi solo la
lotta di classe è in grado di conferire un contenuto storico concreto alla
stessa lotta nazionale.
Egiziani, indiani, cinesi, irlandesi, come complesso
nazionale, tutti i popoli del mondo, come proletariato, vedono nel duello
Lenin-Churchill la lotta tra la forza che li tiene soggetti e la forza che può
creare le condizioni della loro autonomia. La nazione italiana, come
proletariato, ha dunque ripreso la
tradizione mazziniana dandole una sostanza storica e una forma concreta nella
lotta di classe.[19]
E' in relazione con tale
acquisizione teorica della centralità della questione nazionale che viene
maturando in Gramsci la consapevolezza del carattere complesso e contraddittorio
del processo di transizione dal capitalismo al comunismo. Lungi dal comportare
un rapido dissolvimento di tutti gli stati nazionali e di ogni divisione
nazionale in una superiore unità mondiale, tale processo non potrà per Gramsci
che prendere le mosse dal rafforzamento insieme politico e militare dello stato
sovietico ovvero dalla sua affermazione come nuova "potenza mondiale"
nel sistema egemonico e di dominio dei maggiori stati capitalistici. E' una
consapevolezza che affiora particolarmente in
un articolo dell'agosto 1920 intitolato La Russia potenza mondiale. Nella misura in cui ha impedito che si
realizzasse il disegno di una unficazione capitalistica del mondo perseguito
dalla borghesia monopolitistica anglo-americana, la Russia dei Soviet ha finito
per rimettere al centro della dialettica della storia mondiale la lotta per
l'egemonia tra i vari stati nazionali: una lotta che continuerà a scandire la
dialettica della storia mondiale e lo stesso processo della rivoluzione
internazionale.
La Russia dei Soviet acquistando la posizione di
grande potenza ha infranto il sistema egemonico, ha riportato il principio della lotta tra gli
stati, ha imposto su una scala mondiale, in una forma assolutamente impreveduta
per il pensiero socialista, la lotta
dell'Internazionale operaia contro il capitalismo.[20]
Per Gramsci, del resto, neanche
dopo la rivoluzione internazionale si può dire che si estingueranno gli stati
nazionali. Anche il sistema politico del comunismo internazionale si sarebbe
perciò necessariamente articolato per Gramsci in una molteplicità di stati
socialisti nazionali distinti fra loro e relativamente autonomia per quanto non
divisi da interessi antagonistici.
Il comunismo sarà solo quando e in quanto sarà
internazionale. In tal senso il movimento socialista e proletario è contro lo
Stato, perché è contro gli Stati nazionali capitalistici, perché è contro le economie nazionali, che
hanno la loro sorgente di vita e traggono forma dallo Stato nazionale. Ma se
nell'Internazionale comunista verranno soppressi gli Stati nazionali, non verrà
soppresso lo Stato, inteso come "forma" concreta della società umana.
[...] L'idea socialista è rimasta un mito, un'evanescente chimera, un mero
arbitrio della fantasia individuale, fin
quando non si è incarnato nel movimento
socialista e proletario, nelle istituzioni di difesa e di offesa del
proletariato organizzato: [...] da esse ha generato lo Stato socialista
nazionale, disposto e organizzato in
modo da essere capace di ingranarsi con gli altri Stati socialisti:
condizionato anzi in modo tale da essere capace di vivere e di svilupparsi solo
in quanto aderisca agli altri Stati socialisti per realizzare l'Internazionale
comunista nella quale ogni Stato, ogni istituzione, ogni individuo troverà la
sua pienezza di vita e di libertà.[21]
La critica ad ogni visione
puramente utopistica dell'internazionalismo contenuta in nuce in questo testo
giovanile, è destinata come è noto nella più matura riflessione dei Quaderni. E' qui uno dei tratti
essenziali del leninismo di Gramsci, il quale prende le mosse dalla
rivendicazione leniniana dell'attualità della questione nazionale nell'epoca
dell'imperialismo. Lo sforzo di definire in termini storicamente e
politicamente concreti il rapporto tra la dimensione sempre più internazionale
della lotta rivoluzionaria per la democrazia e il socialismo da un lato e
dall'altro l'articolazione nazionale del movimento operaio, in Occidente come
in Oriente, aveva com'è noto scandito la ricerca teorica e l'azione politica di
Lenin durante il periodo immediatamente precendente la Rivoluzione d'ottobre.
Fondamentali in particolare alcuni scritti sulla questione nazionale degli anni
1915-16. In essi il rivoluzionario russo aveva evidenziato la dinamica
complessa e contraddittoria dei processi di internazionalizzazione, i quali
stavano generando non a caso nuovi e dirompenti conflitti nazionali
particolarmente nei paesi coloniali soggetti al dominio delle grandi potenze
imperialistiche: l'imperialismo e i processi di "crisi generale" del
capitalismo avevano secondo Lenin modificato profondamente il nesso tra
nazionale e internazionale, rendendo molto più intrecciato e complesso il loro
rapporto ma non avevano per questo reso storicamente obsoleta la questione
nazionale.
Già in un articolo del 1913 Lenin
aveva affermato:
Il capitalismo conosce due tendenze storiche nella
questione nazionale. La prima è il ridestarsi di una vita e di movimenti
nazionali, la lotta contro ogni oppressione nazionale, la creazione di stati
nazionali. La seconda consiste nello sviluppo e nella intensificazione di ogni
specie di rapporti tra le nazioni, nella distruzione delle barriere nazionali,
nella creazione dell'unità internazionale del capitale, della vita economica in
generale, della politica, della scienza. Queste due tendenze sono una legge
generale del capitalismo. La prima prevale all'inizio del suo sviluppo, la
seconda caratterizza il capitalismo maturo, che si avvia alla trasformazione in
società socialista.[22]
E' in stretta relazione a questa
impostazione teorica destinata come è noto a segnare il dibattito della III
Internazionale negli anni '20 e '30 sulla questione nazionale e su quella
coloniale, che si muoverà la riflessione di Gramsci sui temi del rapporto
nazionale-internazionale, soprattutto a partire dagli anni 1922-23. Nei Quaderni la riflessione sul tema
dell'internazionalismo e sul suo rapporto con il terreno nazionale si
collegherà strettamente con quella sulle ragioni della sconfitta della
rivoluzione in Occidente e sulle prospettive nuove che il processo di
costruzione del "socialismo in un solo paese" apre all'insieme del
movimento rivoluzionario mondiale. Ed è ancora la concezione leniniana del
nesso tra nazionale e internazionale ad esser fatta propria da Gramsci in
carcere: nei Quaderni, egli
sottolineerà la natura insieme profondamente nazionale e profondamente europea
della concezione leniniana della rivoluzione mondiale, contrapponendola alla
concezione trockista della rivoluzione in permanenza: l'astratto
"cosmopolitismo" di Trocki appare a Gramsci solo
"superficialmente nazionale e superficialmente occidentalista o europeo"[23].
Tramontata l'ipotesi di una rapida accelerazione del processo rivoluzionario su
scala mondiale per effetto della spinta propulsiva della Rivoluzione d'ottobre
e degli stessi processi di internazionalizzazione economica del mondo
capitalista, il movimento comunista si avviava ad affrontare una lunga e
difficile fase di "guerra di posizione", dagli esiti certo allora non
prevedibili. Gramsci comprese molto presto che tale "guerra di
posizione" avrebbe obbligato i partiti comunisti a ricercare un più
profondo radicamento nei loro rispettivi "terreni nazionali". In un
nuovo e inedito quadro mondiale segnato da imponenti processi di
riorganizzazione sociale e politica del mondo capitalistico ma anche dal
rafforzamento dell'Unione sovietica e dal processo di costruzione del
"socialismo in uno solo paese", il terreno nazionale era destinato a
diventare ancor più che in passato quello più importante e decisivo per vincere
la lotta per l'egemonia. Di qui l'affemazione del carattere insieme
"nazionale" e"popolare" del "blocco storico" che
i comunisti avrebbere dovuto tendere a costruire e a dirigere.
Il processo di unificazione integrale del "genere umano" sarà necessariamente graduale e di lungo periodo, corrispondentemente allo stesso carattere ineguale dello sviluppo del capitalismo su scala mondiale; non potendo coinvolgere simultaneamente tutti gli stati e le nazioni esso si svolgerà necessariamente secondo una molteplicità di fasi successive "in cui le combinazioni regionali (di gruppi di nazioni) possono essere varie".
Il processo di unificazione integrale del "genere umano" sarà necessariamente graduale e di lungo periodo, corrispondentemente allo stesso carattere ineguale dello sviluppo del capitalismo su scala mondiale; non potendo coinvolgere simultaneamente tutti gli stati e le nazioni esso si svolgerà necessariamente secondo una molteplicità di fasi successive "in cui le combinazioni regionali (di gruppi di nazioni) possono essere varie".
Una classe di carattere internazionale in quanto
guida strati sociali strettamente nazionali (intellettuali) e anzi spesso meno
ancora che nazionali, particolari e municipalisti (i contadini), deve
"nazionalizzarsi", in un certo senso, e questo senso non è d'altronde
molto stretto, perchè prima che si formino le condizioni di una economia
secondo un piano mondiale, è necessario attraversare fasi molteplici in cui le
combinazioni regionali (di gruppi di nazione) possono esser varie.[24]
Dunque la "rivoluzione
mondiale" non potrà svolgersi che, gradualmente "a tappe": la
costruzione del socialismo in Urss e il consolidamento della potenza sovietica
in una condizione di isolamento e di
accerchiamento capitalistico costituiscono una condizione fondamentale del
processo rivoluzionario su scala globale, almeno "prima che si formino le
condizioni di una economia secondo un piano mondiale". La concezione
staliniana della "rivoluzione mondiale" appare in questo senso come
quella più legata alla concezione leniniana del nesso tra "nazionale"
e "internazionale". Nello stesso tempo essa si presenta come l'unica visione politicamente realistica del
processo rivoluzionario mondiale, laddove completamente ineffettuale sembra
Gramsci la "teoria generale della rivoluzione permanente", ovvero la
concezione trockiana della "rivoluzione internazionale", definita
come nient'altro che "una previsione generica presentata come un dogma e
che si distrugge da sé, per il fatto che non si manifesta effettualmente".[25] La
strategia del "socialismo in un solo paese" non andava, dunque,
interpretata come una mera chiusura nazionalistica dell'esperienza sovietica
tale da determinare un indebolimento o una crisi della sua capacità di
espansione mondiale. Non a caso, nella stessa celebre lettera del '26 all'Ufficio
politico del partito russo, nella quale, pure,
si paventava il rischio di una chiusura in sé dell'Urss e quindi di una
crisi della sua funzione mondiale, Gramsci aveva ribadito con forza la sua
adesione alla strategia del "socialismo in un solo paese"[26]. Di qui,
nei Quaderni del carcere, la sua
interpretazione di tale strategia come una politica che andava posta in
assoluta continuità con un tratto essenziale della storia precedente del
bolscevismo, ovvero la sua capacità di radicarsi profondamente nello specifico terreno nazionale russo e
insieme di guidare una esperienza
rivoluzionaria di straordinaria portata mondiale.
Se si studia lo sforzo dal 1902 al 1917 da parte dei
maggioritari si vede la sua originalità nel depurare l'internazionalismo di
ogni elemento vago e puramente ideologico (in senso deteriore) per dargli un
contenuto di politica realistica.[27]
Ma, nonostante l'accento sulla
centralità della questione nazionale, Gramsci non si stanca di sottolineare la
necessità di non smarrire il carattere internazionale della prospettiva
rivoluzionaria.
Certo lo sviluppo è verso l'internazionalismo, ma il
punto di partenza è "nazionale" ed è da questo punto di partenza che
occorre prender le mosse. Ma la prospettiva è internazionale e non può essere che
tale. Occorre pertanto studiare esattamente la combinazione di forze nazionali
che la classe internazionale dovrà dirigere e sviluppare secondo la prospettiva
e le direttive internazionali.[28]
Come si vede, l'accento posto da Gramsci sul
carattere internazionale della prospettiva dello sviluppo storico non è meno
forte di quello posto sulla sua dimensione nazionale. Per quanto fondamentale e
imprenscindibile, la dimensione nazionale della politica non deve essere
considerato un dato permanente o storicamente intrascendibile: Gramsci
sottolinea anzi come la natura sempre più internazionale dei processi economici
sia già di fatto strutturalmente contraddittoria con il mantenimento di rigidi
confini nazionali tra gli stati e le economie dei vari paesi. Tali processi non
avrebbero tuttavia comportato per il pensatore sardo una immediata estinzione
del ruolo degli stati nazionali.
Una delle contraddizioni fondamentali è questa: che
mentre la vita economica ha come premessa necessaria l'internazionalismo o
meglio il cosmopolitismo, la vita
statale si è sempre più sviluppata nel senso del "nazionalismo",
"del bastare a se stessi" ecc. Uno dei caratteri più appariscenti
della "attuale crisi" è niente altro che l'esasperazione dell'elemento
nazionalistico (statale nazionalistico) nell'economia.[29]
Ancora una volta non sfugge,
dunque, a Gramsci il carattere contraddittorio dei processi di
internazionalizzazione e di unificazione mondiale: proprio la crisi del
capitalismo globale esaspera la contraddizione tra la dimensione espansiva del
modo di produzione borghese ovvero la sua tendenza al superamento delle
barriere nazionali da un lato e dall'altro la tendenza delle maggiori economie
capitalistiche ad adottare politiche autarchiche e protezionistiche. Una
tendenza particolarmente forte proprio proprio nelle fasi di acuta crisi
capitalistica. Non v'è dubbio che Gramsci colga con esattezza un aspetto
fondamentale della crisi del capitalismo negli anni '30: alla fine di quel
decennio la chiusura dei maggiori stati capitalistici dentro i confini dei loro
rispettivi imperi avrebbe di fatto determinato la fine del mercato mondiale e
posto così le condizioni per lo scoppio della guerra. Tuttavia, in continuità
con alcunti motivi della sua riflessione giovanile, Gramsci non manca di
sottolineare la rilevanza delle tendenze all'internazionalizzazione, sottolinenando
in particolare l'esistenza in Europa di forti tendenze favorevoli o interessate
alla formazione di un'unione continentale, sia a livello della struttura
economica che nelle sfere della vita intellettuale e politica. Gramsci non
sottovaluta tali tendenze e il loro ancoraggio a forze sociali ed economiche
effettivamente operanti e non esclude che, anche se in un arco di tempo
presumibilmente molto lungo, esse possano realizzarsi, prefigurando così uno scenario molto vicino
alla realtà dell'Europa di oggi.
Esiste oggi una coscienza culturale europea ed
esiste una serie di manifestazioni di intellettuali e uomini politici che
sostengono la necessità di una unione europea: si può anche dire che il
processo storico tende a questa unione e che esistono molte forze materiali che
solo in questa unione potranno svilupparsi: se fra x anni questa unione sarà realizzata la parola
"nazionalismo" avrà lo stesso valore archeologico che l'attuale
"municipalismo".[30]
In polemica con ogni forma di
nazionalismo, Gramsci procede a recuperare perfino il valore positivo della
vocazione cosmopolitica della nazione italiana. Se il tradizionale
cosmopolitismo italiano ha svolto in passato una funzione storica negativa,
nella misura in cui ha ostacolato e ritardato il processo di formazione in
Italia di uno stato nazionale unitario, ciò non toglie che esso possa svolgere,
nel contesto di un'economia mondiale sempre più integrata, una funzione positiva,
innestandosi nei grandi fenomeni di emigrazione delle classi lavoratrici
italiane. Proprio lo sfruttamento capitalistico cui queste ultime sono state soggette
nei paesi economicamente più avanzati e che è stato un fattore importante dello
sviluppo economico e produttivo su scala mondiale aveva finito per consolidare
nel popolo italiano la sua "vocazione cosmopolitica".[31] Di qui
l'interesse anche nazionale dell'Italia alla definizione di nuove forme di
integrazione economica internazionale, non più fondate sullo sfruttamento
imperialistico delle risorse e della forza-lavoro dei paesi economicamente più
deboli ma su politiche di cooperazione e di collaborazione economica tra tutti
i popoli e le nazioni.
Il popolo italiano è quel popolo che "nazionalmente"
è più interessato a una moderna forma di cosmopolitismo, non solo l'operaio, ma
il contadino e specialmente il contadino meridionale. Collaborare a ricostruire
il mondo economicamente in modo unitario è nella tradizione del popolo italiano
e della storia italiana, non per dominarlo egemonicamente e appropriarsi il
frutto del lavoro altrui, ma per esistere e svilupparsi appunto come popolo
italiano: si può dire che Cesare è all'origine di questa tradizione... La
"missione" del popolo italiano è nella ripresa del cosmopolitismo
romano e medioevale, ma nella sua forma più moderna e avanzata.[32]
Nella produzione e nel lavoro
Gramsci individua le basi di una nuova civiltà globale, profondamente diversa e
alternativa sia all'unificazione di tipo solo
"finanziario-capitalistico" già in atto, che alle tradizionali forme "imperiali"
di "cosmopolitismo". Insomma la vera, effettiva
"globalizzazione" del mondo per Gramsci non potrà essere che quella
della produzione e del lavoro socializzato su scala mondiale.
L'espansione italiana può essere solo
dell'uomo-lavoro e l'intellettuale che rappresenta che rappresenta
l'uomo-lavoro non è quello tradizionale, gonfio di retorica e di ricordi
cartacei del passato. Il cosmopolitismo tradizionale italiano dovrebbe diventare
un cosmopolitismo di tipo moderno, cioò tale da assicurare le condizioni
migliori di sviluppo all'uomo-lavoro italiano, in qualsiasi parte del mondo
egli si trovi. Non il cittadino del mondo in quanto civis romanus o in quanto
produttore di civiltà.[33]
Dunque, il rapporto tra
internazionalismo e "interesse nazionale" non è un rapporto solo
"contraddittorio" ma anche di complementarietà: l'esempio italiano
dimostra, agli occhi di Gramsci, come esso possa e debba essere reso produttivo
e fecondo, nella prospettiva di una
unificazione solidale, ovvero non più fondata sulle logiche dell'imperialismo,
del genere umano. Ancora una volta internazionalismo e questione nazionale
appaiono stretti in modo indissolubile: l'internazionalizzazione capitalistica
dispiegatasi nel corso del Novecento non ha certo annullato la distinzione tra
le nazioni e la loro specificità e neanche l'esistenza di culture e civiltà
profondamente diverse da quella dominante europea. Solo nel Novecento, per
Gramsci, la storia diventa effettivamente "storia mondiale". Netto in
tal senso è il suo rifiuto di ogni visione della storia universale di tipo
eurocentrico:"fino a poco tempo fa - scrive - non esisteva il 'mondo' e
non esisteva una politica mondiale; d'altronde la civiltà cinese e quella
indiana hanno pur contato qualcosa"[34]. La
dimensione globale attinta dalla civiltà capitalistica nel XX secolo, nella
fase della sua piena maturità storica, non potrà in tal senso che rimettere in
discussione lo stesso primato mondiale dell'Europa.[35] La
politica mondiale e quella europea "non sono una stessa cosa. Un duello
tra Berlino e Parigi o tra Parigi e Roma non fa del vincitore il padrone del
mondo l'Europa ha perduto la sua importanza e la politica mondiale dipende da
Londra, Washington, Mosca, Tokyo più che dal continente"[36]. Dunque
lungi dal configurarsi puramente e semplicemente come un processo di
"europeizzazione" o di "occidentalizzazione" del mondo,
l'internazionalizzazione capitalistica ha in realtà finito per mettere in crisi
le basi stesse dell'imperialismo "europeo".[37] Al di
là dei suoi caratteri apparentmente "catastrofici", la crisi organica
si configura così, in Gramsci, anche come un processo di trasferimento dei
centri dell'egemonia e del potere su scala mondiale da un'area geopolitica
all'altra: l'esplosione di grandi movimenti di emancipazione nazionale in
paesi-continenti come l'India e la Cina, all'origine della loro odierna
spettacolare crescita economica e industriale, sta, infatti, di fatto
determinando per Gramsci uno spostamento dell'asse geopolitico mondiale
dall'Atlantico al Pacifico.
Funzione dell'Atlantico nella civiltà e
nell'economia moderna. Si sposterà questo asse nel Pacifico? Le masse più
grandi di popolazione del mondo sono nel Pacifico: se la Cina e l'India
diventassero nazioni moderne con grandi masse di produzione industriale, il
loro distacco dalla dipendenza europea romperebbe appunto l'equilibrio attuale:
trasformazione del contimente americano, spostamento dalla riva atlantica alla riva del Pacifico dell'asse della vita
americana, ecc.[38]
La stessa egemonia americana
sarebbe dunque uscita rafforzata da uno spostamento nel Pacifico del centro
dell'economia mondiale e dal nuovo ruolo economico e politico dei principali
paesi dell'Oriente asiatico che ne sarebbe seguito. E' lo stesso tradizionale
rapporto tra "Occidente" e "Oriente" e non solo quello tra
l'Europa e la sua "propaggine" americana ad uscire profondamento
modificato dai processi di "crisi organica" del mondo capitalistico. La
questione nazionale è dunque per Gramsci un tema strettamente legato agli
equilibri geopolitici, coinvolgendo non soltanto la struttura di quella che
Braudel avrebbe chiamato "l'economia-mondo", ma gli stessi rapporti
tra civiltà e continenti, entrati nel XX secolo in una nuova e più complessa
trama di relazioni.
Salvatore Tinè
[1] Antonio Gramsci, Scritti giovanili 1914-1918, Torino,
1975, pp. 156-57.
[2] Ibidem, p. 157.
[3] Ibidem, p. 159.
[4] Ibidem, pp. 200-1
[5] Sulla simpatia del giovane
Gramsci nei confronti di Wilson e più in generale del mondo liberale
anglosassone, cfr. Domenico Losurdo, Antonio
Gramsci dal liberalismo al "comunismo critico", Roma, 1997, pp.
75-86. Losurdo nota opportunamente come per qualche tempo "le posizioni di
Gramsci non sembrano molto lontane da quelle di Schumpeter" e come esse
non solo sorvolino "sulla vitalità dell'antico regime nella stessa Inghilterra"
ma non sussumino "sotto le categorie di guerra le spedizioni coloniali
britanniche o i ripetuti interventi militari statunitensi nell'emisfero
occidentale." (p. 28).
[6] Ibidem, p. 319
[7] Ivi.
[8] Ibidem, p. 186.
[9] Antonio Gramsci, Il nostro Marx (1918-1919), a cura di
Sergio Caprioglio, Torino, 1984, pp. 175-176
[10] Ibidem, p. 175.
[11] Ibidem, p. 176.
[12] Sui giudizi del giovane
Gramsci sugli Stati uniti e la centralità della sua riflessione sulla natura
del capitalismo americano, cfr. Leonardo Rapone, Antonio Gramsci nella grande guerra, in "Studi storici",
gennaio-marzo 2007, anno 48, pp. 3-96. cfr. anche Claudio Natoli, Crisi organica e rinnovamento del
socialismo: il laboratorio degli scritti giovanili di Gramsci in
"Studi storici", gennaio-marzo 2009, anno 50, pp. 167-230.
[13] Ibidem, p. 348-49.
[15] Antonio Gramsci, L'Ordine nuovo, 1919-1920, Torino, 1954,
pp. 227-28.
[16] Ibidem, p. 380.
[17] Ibidem, pp. 262-63.
[18] Ibidem, p.264.
[20] Ibidem, p. 146.
[21] Ibidem, p. 378-79.
[22] V. I. Lenin, L'autodecisione delle nazioni, Roma,
1976, p. 28.
[23] Antonio Gramsci, Quaderni del carcere, edizione critica a
cura di Valentino Gerratana, Torino, 1975, p. 866.
[24] Ibidem, p. 1729.
[25] Ibidem, p. 1730
[26] Sulla lettera del '26
all'Ufficio politico del partito russo e più in generale sull'esigenza in essa
affermata di unire strettamente autonomia nazionale e internazionalismo,
cfr. il saggio di Giuseppe Vacca
contenuto in Gramsci a Roma, Togliatti a
Mosca, Il carteggio del 1926, a cura di Chiara Daniele, Torino, 1999, pp.
3-149.
[27] Antonio Gramsci, Quaderni del carcere, cit. p. 1729.
[28] Ivi.
[29] Ibidem, p.1756.
[30] Ibidem, p.748.
[31] Sul tema della vocazione
cosmopolitica della "nazione italiana" in Gramsci, cfr. Michele
Ciliberto, Cosmopolitismo e Stato
nazionale nei Quaderni del carcere, in Gramsci
e il Novecento, a cura di Giuseppe Vacca, Roma, 1999, vol. I, pp. 157-173.
[32] Antonio Gramsci, Quaderni del carcere, cit., pp. 1988-9.
[33] Ibidem, p. 1988.
[34] Ibidem, p. 166
[35] Sui concetti di
"mondo" e di "storia mondiale" in Gramsci, cfr. Giorgio
Baratta, Le rose e i quaderni. Saggio sul
pensiero di Antonio Gramsci, Roma, 2000, pp. 259-77.
[36] Antonio Gramsci, Quaderni del carcere, cit., p. 181
[37] Sul tema del primato
dell'Europa e dell'Occidente nel pensiero di Gramsci, cfr. Mario Telò, Note sul futuro dell'Occidente e la teoria
delle relazioni internazionali, in Gramsci
e il Novecento, cit., pp. 51-74.
[38] Antonio Gramsci, Quaderni del carcere, cit., p. 242.
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