Al cinema
Iris di Messina, nel quadro di una splendida “Settimana Pasoliniana” presento “Uccellacci
e uccellini”. La prima didascalia del film che leggiamo sulla sua prima
inquadratura riassume uno dei suoi temi: è una sintesi ironica di una celebre
intervista a Mao, ovvero a una delle icone
e a uno dei principali riferimenti ideologici di quel ’68 che esploderà
appena due anni dopo Uccellacci e
uccellini. Un’intervista riassunta in questi termini: “dove va l’umanità?
Boh!”. Il film ci indica quindi sin dal suo inizio il tema del futuro, ovvero
del senso del cammino o della storia dell’umanità. Non a caso la didascalia è
sovrapposta all’immagine in campo lungo di una strada sul cui orizzonte
scorgiamo appena, piccolissimi, i due protagonisti del film che conosceremo
qualche attimo dopo. La strada è appunto la metafora visiva, chapliniana della
storia come cammino dell’umanità. Subito dopo conosciamo i due personaggi del
film, finalmente inquadrati da vicino: un padre e un figlio, interpretati da
Totò e Ninetto Davoli, in realtà interpreti di se stessi, i quali percorrono
quella strada di periferia, apparentemente senza un motivo o una precisa direzione:
di nuovo un tema che precorre il ’68, quello del conflitto tra le generazioni,
tra la vecchia Italia cattolica e contadina, quella appunto dei padri, e la nuova
Italia dei giovani, uscita profondamente trasformata dal boom economico e dai
radicali processi di modernizzazione che lo hanno accompagnato. Il bar di
periferia in cui vediamo fermarsi i due
protagonisti è la prima stazione del
loro viaggio, il cui svolgimento in forma poetica più che narrativa sarà
appunto il film. Allegro e sorridente,
Ninetto si aggiunge ad un gruppo di ragazzi che ballano davanti al bar: una
sequenza che sembra voler restituirci attraverso il movimento e il ritmo
frenetico di quei giovani corpi e della loro danza, lo slancio vitale, il
prepotente impulso di cambiamento che anima le giovani generazioni nell’Italia
appena uscita dal boom della fine degli anni ’60. La corsa improvvisa di
quei giovani verso un autobus interrompe
bruscamente il loro ballo e il cammino dei due vagabondi riprende così in una
sterminata periferia, in uno spazio deserto quasi beckettiano. E del resto vagamente beckettiano appare pure
lo stesso personaggio di Totò, di cui Pasolini esalta i tratti grotteschi e
assurdi della sua maschera triste, in contrasto con l’infantile allegria e la
innocente vitalità da angioletto del figlio Ninetto. Le insegne stradali che
scandiscono il cammino senza meta dei due personaggi indicano città e paesi di
continenti diversi e così la periferia e la campagna romane finiscono per
mutarsi nella periferia e nella campagna del mondo. I campi lunghi e
lunghissimi, dentro i quali Totò e Ninetto sembrano perdersi, disegnano uno
spazio che si fa metafora di un mondo che si è dilatato, oggi diremmo globalizzato,
privo ormai di quella stabile e rassicurante distinzione tra centri e periferie
che lo ha per un lunghissimo periodo storico strutturato. Si direbbe allora che
il deserto della periferia sia l’immagine di una realtà assurda, svuotata ma
anche l’immagine di una apertura di spazi, di nuove possibilità storiche. Non
sappiamo dove vada l’umanità come ci dice Mao all’inizio del film, ma sappiamo
che c’è un cammino nello spazio di un mondo che è infinitamente più vasto e
aperto di quello che abbiamo conosciuto sino ad ora. Di qui il senso di libertà
dei due personaggi e del loro vagabondare per le strade del mondo. Pasolini esalta la semplicità e lo slancio
della loro ingenua vitalità proletaria, l’essenziale autenticità dei loro
istinti primordiali che si esprime negli impulsi della fame e del sesso,
privati però adesso di quei tratti di aggressività e di violenza che li
connotavano nei suoi film precedenti. Di qui il tono favolistico del film, il
suo tocco di comica leggerezza quasi chapliniano. Nei titoli di testa esso
viene definito “un triste girotondo” e insieme un “lieto girotondo”. Totò e
Ninetto ci appaiono come l’espressione immediatamente fisica di una vitalità
proletaria che non ha tuttavia più niente della collera e della violenta
disperazione del sottoproletariato delle borgate romane di Accattone.
Nessuna aperta o consapevole ribellione esprime la loro, povera, nuda esistenza:
e tuttavia quest’ultima si impone come una oggettiva negazione dell’ordine
fondato sulla proprietà privata e la sua violenza, sebbene l’esplicita
ribellione ad esso si manifesterà soltanto nell’atto del defecare sul terreno
di un proprietario e poi nella fuga per sfuggire alle sue fucilate. Il cinema
di poesia sembra risolversi qui nel linguaggio non-verbale dei corpi di Totò e
Ninetto, nella poetica grazia e nella
sublime semplicità dei loro gesti: nello splendido apologo degli “uccellacci e
degli uccellini” i due protagonisti, nei
panni di due frati francescani del Duecento, troveranno il modo di comunicare
con gli uccelli nel puro linguaggio dei gesti, l’unico in grado di comunicare
ad essi la religione della pace e dell’Amore. Nella misura in cui esso libera il gesto, il
cinema di poesia si pone dunque come ritorno e recupero del cinema muto. Esso
non è più soltanto la “lingua scritta della realtà” ma anche la lingua
proletaria del corpo. Ma proprio l’ironico
ricorso alle caratteristiche didascalie del cinema muto consente a Pasolini di
esplicitare i contenuti politici ed ideologici del suo film e insieme di
sottoporli tuttavia ad una spietata e dolorosa riflessione autocritica. La
comicità di Totò come “uomo umano” si impone infatti come la loro critica
implicita. La maschera ilare e triste, ingenua e folle dell’attore napoletano,
massima espressione della vitalità e dell’ “umanità” dell’uomo si contrappone alla
razionalità ossessiva e disperata del corvo marxista che come un insopportabile
grillo parlante accompagna i due vagabondi in tutto il corso del loro cammino.
Il corvo definisce “religione” la “ forza che un passo dopo l’altro” fa muovere
i due pellegrini “lungo una strada che nessuno sa”, quella in cui crede siano
destinate a convergere tutte le altre. Una religione che li rende “beati”,
espressione di una forza inattingibile per lui, i cui genitori sono non a caso
il “Dubbio” e la “Coscienza”. Ma qui “passione” e “ideologia” si intrecciano e
insieme si contraddicono. L’apologo francescano che viene recitato dagli stessi
Totò e Ninetto è tuttavia raccontato dal corvo. Esso non è quindi tanto l’espressione
di quella “religione” immanente nella vitalità proletaria dei due pellegrini
quanto della concezione della religione propria dell’intellettuale marxista, ovvero
della religione che si nasconde nella sua ideologia e che viene esplicitata
nello splendido discorso di Francesco d’Assisi: la profezia di quest’ultimo,
dell’avvento di una sorta di Messia marxista, quindi la rivendicazione di una
religione fondata sull’impegno politico quotidiano contro l’oppressione e la
diseguaglianza tra le classi come condizione per l’avvento di un mondo
all’insegna dei valori evangelici di amore e di pace sembra intrecciare e
conciliare una prospettiva religiosa e apocalittica con una concezione della
storia come graduale progresso della coscienza. L’incontro tra il corvo e i due
pellegrini è allora la metafora di quello tra la concezione della religione che
il corvo rende esplicita nel discorso di Francesco e quella “religione” che è
lo stesso cammino senza meta dei due vagabondi, ovvero la metafora del
disperato tentativo dell’intellettuale marxista di portare al livello della coscienza
e della storia come storia di lotta di classi la vitalità proletaria, al di qua
o al di là della storia, che si incarna in Totò e Ninetto. Ma al corvo che gli
chiede dove stiano andando, Totò risponde semplicemente “laggiù, in fondo”: il
suo senso della vita è proprio il contrario di una prospettiva finalistica. Perciò
il suo unico senso è la morte in cui la vita si compie, di contro ad ogni
dimensione storica. Significativo in questo senso il dialogo tra Totò e Ninetto
sulla vita e la morte: quando uno muore, dice Totò- rispondendo ad una ingenua
domanda del figlio su come si passi dalla vita alla morte- vuol dire che tutto
quello che doveva fare lo ha fatto. Una didascalia ci informa che il corvo “è
un intellettuale marxista di prima della morte di Togliatti”. E qui Pasolini
introduce un altro elemento essenziale per definire la dimensione storica del
film. I giovani che danzano all’inizio del film, come il paesaggio urbano e le
industrie che di tanto in tanto scorgiamo nella campagna sterminata ci dicono
che siamo appunto nell’Italia “di dopo la morte di Togliatti”. La splendida
sequenza dei funerali, montata con soli documenti di repertorio è una delle più
grandi pagine del cinema di Pasolini. La morte di Togliatti è la fine di una
certa Italia contadina e proletaria, quella che ha vissuto le lacerazioni
terribili del fascismo e della guerra ma anche le grandi speranze di
rinnovamento e di trasformazione radicali della società del dopoguerra, della
Resistenza e degli anni ’50, il decennio
in cui si svolge la formazione politica e ideologica di Pasolini. La sua fine
Pasolini la racconta attraverso il pianto, il dolore e la disperazione di una
folla sterminata che nel film si fa immagine di una comunità, ovvero di un
popolo che attraverso il partito si è data una coscienza. E’ forse tra tutte le
sequenze dei suoi film quella in cui meglio Pasolini ha saputo risolvere nel
cinema la sua poesia civile e l’ideologia populista che vi si esprime. Si
direbbe che qui “passione” e “ideologia” per una volta, si confondono
completamente, di là dal loro lacerante conflitto che scandisce la poesia e il
cinema di Pasolini, di là da quello “scandalo del contraddirmi” che Pasolini
confessava a Gramsci davanti alla sua tomba, in versi celebri del poemetto Le ceneri di Gramsci. Non più soltanto
“estetica passione” come lo stesso Pasolini la definiva in quei versi, qui la
visione “sacrale” del popolo, tutta figurativamente risolta nelle immagini di
repertorio dei funerali, riassume e condensa, infatti, la stessa passione
politica di Pasolini. L’ideologia si fa passione. Ciò non toglie tuttavia che
questa identificazione avvenga nel segno della morte, del dolore, della
“passione” intesa anche in senso cristologico: i pugni chiusi dei proletari che
sfilano davanti al feretro di Togliatti sembrano scandire un rito religioso,
come le stesse bandiere rosse a lutto sotto le quali si compone e raccoglie il popolo fattosi comunità
politica. Se la morte di Togliatti è la fine di un’epoca storica, essa ne è
anche il compimento, racchiudendone il senso. Ancora una volta, secondo le
parole di Totò che citavamo prima, la vita si compie nella morte. Nel film
tuttavia a questo motivo se ne accompagna e intreccia un altro, apparentemente
opposto: quello della identità tra vita e morte intesa nel senso del ciclo,
ovvero l’idea della morte come rinascita della vita. Ancora una volta si tratta
di un motivo che in Pasolini non è esente da tratti cristologici. La morte del
corvo, mangiato da Totò e Ninetto è appunto la metafora di questa potenza della
vita che si incarna nei due vagabondi. La concezione della vita e del mondo
espressione di un epoca storica ormai compiutasi viene digerita e quindi assimilata
da Totò e Ninetto. E’ lo stesso Pasolini a suggerire didascalicamente questa
interpretazione nella citazione ironica di una frase del grande filologo
Giorgio Pasquali: “i professori vanno mangiati sempre in salsa piccante, perché
chi se li mangia diventa un po’ professore anche lui”. Io credo che qui il registro ironico sia
fondamentale per capire la conclusione del film, se di una vera e propria
conclusione possiamo parlare e il suo stesso senso e quindi il senso della sua
poesia. Per un verso l’immagine delle ceneri del corvo, inquadrate in primo
piano da Pasolini, forse evocative di quelle di Gramsci, sono in questo senso
anche l’immagine-simbolo del martirio: l’intellettuale mangiato dai due
sottoproletari si fa martire e la sua vita e il suo impegno acquistano il loro
senso in questa fine. Ma per un altro verso questo compimento si configura
nello stesso tempo come l’inizio di una nuova storia e di una nuova vita.
Perciò l’intellettuale marxista non può che finire mangiato. L’atto del
mangiare è nello stesso tempo l’espressione della eterna Fame dei due vagabondi
e insieme un rinnovato ma laico rito eucaristico: mangiando il corvo, Totò e
Ninetto ne digeriscono e assimilano alcuni essenziali “insegnamenti” impliciti
nelle sue parole e diventano almeno un po’ come lui. Dunque la morte come
compimento e insieme passaggio ad un “al di là” storico e terrestre. La morte
del corvo, ovvero quella di Pasolini acquista non a caso un senso liberatorio
che non ha quella di Togliatti nella sequenza dei funerali. Ci si libera della “ideologia”
solo assimilandola. “Il cammino è appena iniziato, ma il viaggio è già finito.”,
dice il corvo, all’inizio del film. Ma in fondo se un cammino può ancora darsi
è proprio perché il viaggio è finito. In realtà ogni “viaggio” è sempre già
finito, il suo “fine” dandosi infatti in esso come già predeterminato nel suo
inizio, come “compimento” di quest’ultimo. Se allora la morte di Togliatti
sembra volerci dire che la storia è finita, quella del corvo ci suggerisce
invece che è finita una certa concezione
finalistica della storia, di là dalla quale propria la storia potrà continuare
sebbene non verso uno scopo o un fine predeterminato ma verso quel “laggiù”
indicato da Totò e che non conosciamo ancora.
Salvatore
Tinè