martedì 8 dicembre 2015

Stato e rivoluzione


Ha ragione Maduro quando a proposito della grave sconfitta in Venezuela ha richiamato la tragedia del Cile del 1973, ovvero l'intervento brutale dell'imperialismo americano a sostegno di un golpe fascista per schiacciare nel sangue il tentativo di quel paese di avviare un processo di transizione al socialismo. Ancora una volta, l'esperienza storica dimostra che la transizione pacifica al socialismo è un processo difficilissimo, perennemente insidiato dal potere, dalla violenza delle classi dominanti e dell'imperialismo. La sconfitta in Venezuela è l'ennesima conferma di una verità fondamentale del leninismo, ovvero che la vittoria storica del socialismo presuppone la conquista del potere politico. Tale conquista è il presupposto dello stesso consenso, di quella che Gramsci definiva l'egemonia. Ciò è tanto più vero per la lotta sul socialismo su scala mondiale: sono i rapporti di forza politici e politico-militari tra le potenze e gli Stati a condizionare tale lotta e a determinarne in ultima analisi le prospettive di avanzamenti e gli esiti ultimi. C'è un nesso strettissimo, organico tra "dittatura" ed "egemonia", tra "stato" e "rivoluzione". Il secolo breve si è chiuso con la sconfitta del socialismo come "sistema mondiale". Ma nel contesto della crisi generale del capitalismo e dell'imperialismo è un nuovo "sistema mondiale", ovvero un nuovo campo anti-imperialista che si sta delineando. Dal suo rafforzamento in termini politici e politico-militari dipenderanno le prospettive future della lotta per la democrazia, per la pace e per il socialismo in tutto il mondo.

Salvatore Tinè

lunedì 30 novembre 2015

Buon giorno, Preside!


Il mito di Giarrizzo ha segnato la storia della Facoltà di Lettere dell'Università di Catania sin dai tempi di Mazzarino e di Cataudella. Negli ultimi decenni quella storia e quella Facoltà hanno continuato a vivere esclusivamente nella figura di Giarrizzo, con la cui scomparsa viene così meno l'ultima memoria vivente che le custodiva. L'immobile maschera triste del suo volto che tutte le mattine vedevo passando per il corridoio della mia stanza mi richiamava sempre alla memoria il peso schiacciante e a tratti insopportabile che questa figura ha rappresentato per tutti coloro che hanno trascorso la loro vita di studenti o di studiosi in quella che si chiamava "Facoltà di Lettere", negli ultimi 50 anni. Quel peso, continuavo a subirlo tutte le volte che al mio "Buon giorno, Preside" il Preside rispondeva, gelidamente, con un vago, quasi scortese, cenno. Ma nei corridoi e nella biblioteca della sua "ex-Facoltà" tristemente mutatasi in "Dipartimento di Scienze Umanistiche", totalmente diversa, culturalmente e direi perfino antropologicamente, dalla sua "creatura" storica, egli continuava ad aggirarsi come l'unico "vivo" in una università ormai spettrale, popolata da inutili, a lui estranei, fantasmi, ignari di lui e della storia che incarnava. E tuttavia il mito è sopravvissuto, anche grottescamente. E direi che diverse generazioni in quella Facoltà si sono formate proprio nel confronto con il mito. In questo senso, Giarrizzo ha incarnato la figura freudiana e lacaniana del Padre. Come Saturno egli ha spesso mangiato, ucciso i suoi figli: ad una continua rivendicazione della funzione di guida intellettuale e politica dello studioso accademico, di stampo illuminista, si è sempre accompagnata in lui una concezione e una pratica cinica e spregiudicata del potere. Ma solo rifiutando il Padre si diventa liberi. "La nostra generazione è quella degli epigoni" ripeteva tristemente negli ultimi anni, evocando i suoi maestri, ovvero Santo Mazzarino, Federico Chabod e Franco Venturi. Una frase che tradiva quanto avesse sofferto e soffrisse ancora il confronto schiacciante con essi, con i suoi padri che anche grazie a lui imparavamo a considerare nostri. E forse, con una punta di malizia, potremmo dire che del peso di quel confronto si è come dire "rifatto" schiacciando i suoi figli mancati. La sua fine è allora quella di una epoca e di una storia che si chiude. Ma è una fine triste.

Salvatore Tinè

domenica 25 ottobre 2015

A Messina con Pasolini



Al cinema Iris di Messina, nel quadro di una splendida “Settimana Pasoliniana” presento “Uccellacci e uccellini”. La prima didascalia del film che leggiamo sulla sua prima inquadratura riassume uno dei suoi temi: è una sintesi ironica di una celebre intervista a Mao, ovvero a una delle icone  e a uno dei principali riferimenti ideologici di quel ’68 che esploderà appena due anni dopo Uccellacci e uccellini. Un’intervista riassunta in questi termini: “dove va l’umanità? Boh!”. Il film ci indica quindi sin dal suo inizio il tema del futuro, ovvero del senso del cammino o della storia dell’umanità. Non a caso la didascalia è sovrapposta all’immagine in campo lungo di una strada sul cui orizzonte scorgiamo appena, piccolissimi, i due protagonisti del film che conosceremo qualche attimo dopo. La strada è appunto la metafora visiva, chapliniana della storia come cammino dell’umanità. Subito dopo conosciamo i due personaggi del film, finalmente inquadrati da vicino: un padre e un figlio, interpretati da Totò e Ninetto Davoli, in realtà interpreti di se stessi, i quali percorrono quella strada di periferia, apparentemente senza un motivo o una precisa direzione: di nuovo un tema che precorre il ’68, quello del conflitto tra le generazioni, tra la vecchia Italia cattolica e contadina, quella appunto dei padri, e la nuova Italia dei giovani, uscita profondamente trasformata dal boom economico e dai radicali processi di modernizzazione che lo hanno accompagnato. Il bar di periferia in cui  vediamo fermarsi i due protagonisti è la  prima stazione del loro viaggio, il cui svolgimento in forma poetica più che narrativa sarà appunto il film.  Allegro e sorridente, Ninetto si aggiunge ad un gruppo di ragazzi che ballano davanti al bar: una sequenza che sembra voler restituirci attraverso il movimento e il ritmo frenetico di quei giovani corpi e della loro danza, lo slancio vitale, il prepotente impulso di cambiamento che anima le giovani generazioni nell’Italia appena uscita dal boom della fine degli anni ’60. La corsa improvvisa di quei  giovani verso un autobus interrompe bruscamente il loro ballo e il cammino dei due vagabondi riprende così in una sterminata periferia, in uno spazio deserto quasi beckettiano.  E del resto vagamente beckettiano appare pure lo stesso personaggio di Totò, di cui Pasolini esalta i tratti grotteschi e assurdi della sua maschera triste, in contrasto con l’infantile allegria e la innocente vitalità da angioletto del figlio Ninetto. Le insegne stradali che scandiscono il cammino senza meta dei due personaggi indicano città e paesi di continenti diversi e così la periferia e la campagna romane finiscono per mutarsi nella periferia e nella campagna del mondo. I campi lunghi e lunghissimi, dentro i quali Totò e Ninetto sembrano perdersi, disegnano uno spazio che si fa metafora di un mondo che si è dilatato, oggi diremmo globalizzato, privo ormai di quella stabile e rassicurante distinzione tra centri e periferie che lo ha per un lunghissimo periodo storico strutturato. Si direbbe allora che il deserto della periferia sia l’immagine di una realtà assurda, svuotata ma anche l’immagine di una apertura di spazi, di nuove possibilità storiche. Non sappiamo dove vada l’umanità come ci dice Mao all’inizio del film, ma sappiamo che c’è un cammino nello spazio di un mondo che è infinitamente più vasto e aperto di quello che abbiamo conosciuto sino ad ora. Di qui il senso di libertà dei due personaggi e del loro vagabondare per le strade del mondo.  Pasolini esalta la semplicità e lo slancio della loro ingenua vitalità proletaria, l’essenziale autenticità dei loro istinti primordiali che si esprime negli impulsi della fame e del sesso, privati però adesso di quei tratti di aggressività e di violenza che li connotavano nei suoi film precedenti. Di qui il tono favolistico del film, il suo tocco di comica leggerezza quasi chapliniano. Nei titoli di testa esso viene definito “un triste girotondo” e insieme un “lieto girotondo”. Totò e Ninetto ci appaiono come l’espressione immediatamente fisica di una vitalità proletaria che non ha tuttavia più niente della collera e della violenta disperazione del sottoproletariato delle borgate romane di  Accattone. Nessuna aperta o consapevole ribellione esprime la loro, povera, nuda esistenza: e tuttavia quest’ultima si impone come una oggettiva negazione dell’ordine fondato sulla proprietà privata e la sua violenza, sebbene l’esplicita ribellione ad esso si manifesterà soltanto nell’atto del defecare sul terreno di un proprietario e poi nella fuga per sfuggire alle sue fucilate. Il cinema di poesia sembra risolversi qui nel linguaggio non-verbale dei corpi di Totò e Ninetto, nella poetica  grazia e nella sublime semplicità dei loro gesti: nello splendido apologo degli “uccellacci e degli uccellini”  i due protagonisti, nei panni di due frati francescani del Duecento, troveranno il modo di comunicare con gli uccelli nel puro linguaggio dei gesti, l’unico in grado di comunicare ad essi la religione della pace e dell’Amore.  Nella misura in cui esso libera il gesto, il cinema di poesia si pone dunque come ritorno e recupero del cinema muto. Esso non è più soltanto la “lingua scritta della realtà” ma anche la lingua proletaria del corpo.  Ma proprio l’ironico ricorso alle caratteristiche didascalie del cinema muto consente a Pasolini di esplicitare i contenuti politici ed ideologici del suo film e insieme di sottoporli tuttavia ad una spietata e dolorosa riflessione autocritica. La comicità di Totò come “uomo umano” si impone infatti come la loro critica implicita. La maschera ilare e triste, ingenua e folle dell’attore napoletano, massima espressione della vitalità e dell’ “umanità” dell’uomo si contrappone alla razionalità ossessiva e disperata del corvo marxista che come un insopportabile grillo parlante accompagna i due vagabondi in tutto il corso del loro cammino. Il corvo definisce “religione” la “ forza che un passo dopo l’altro” fa muovere i due pellegrini “lungo una strada che nessuno sa”, quella in cui crede siano destinate a convergere tutte le altre. Una religione che li rende “beati”, espressione di una forza inattingibile per lui, i cui genitori sono non a caso il “Dubbio” e la “Coscienza”. Ma qui “passione” e “ideologia” si intrecciano e insieme si contraddicono. L’apologo francescano che viene recitato dagli stessi Totò e Ninetto è tuttavia raccontato dal corvo. Esso non è quindi tanto l’espressione di quella “religione” immanente nella vitalità proletaria dei due pellegrini quanto della concezione della religione  propria dell’intellettuale marxista, ovvero della religione che si nasconde nella sua ideologia e che viene esplicitata nello splendido discorso di Francesco d’Assisi: la profezia di quest’ultimo, dell’avvento di una sorta di Messia marxista, quindi la rivendicazione di una religione fondata sull’impegno politico quotidiano contro l’oppressione e la diseguaglianza tra le classi come condizione per l’avvento di un mondo all’insegna dei valori evangelici di amore e di pace sembra intrecciare e conciliare una prospettiva religiosa e apocalittica con una concezione della storia come graduale progresso della coscienza. L’incontro tra il corvo e i due pellegrini è allora la metafora di quello tra la concezione della religione che il corvo rende esplicita nel discorso di Francesco e quella “religione” che è lo stesso cammino senza meta dei due vagabondi, ovvero la metafora del disperato tentativo dell’intellettuale marxista di portare al livello della coscienza e della storia come storia di lotta di classi la vitalità proletaria, al di qua o al di là della storia, che si incarna in Totò e Ninetto. Ma al corvo che gli chiede dove stiano andando, Totò risponde semplicemente “laggiù, in fondo”: il suo senso della vita è proprio il contrario di una prospettiva finalistica. Perciò il suo unico senso è la morte in cui la vita si compie, di contro ad ogni dimensione storica. Significativo in questo senso il dialogo tra Totò e Ninetto sulla vita e la morte: quando uno muore, dice Totò- rispondendo ad una ingenua domanda del figlio su come si passi dalla vita alla morte- vuol dire che tutto quello che doveva fare lo ha fatto. Una didascalia ci informa che il corvo “è un intellettuale marxista di prima della morte di Togliatti”. E qui Pasolini introduce un altro elemento essenziale per definire la dimensione storica del film. I giovani che danzano all’inizio del film, come il paesaggio urbano e le industrie che di tanto in tanto scorgiamo nella campagna sterminata ci dicono che siamo appunto nell’Italia “di dopo la morte di Togliatti”. La splendida sequenza dei funerali, montata con soli documenti di repertorio è una delle più grandi pagine del cinema di Pasolini. La morte di Togliatti è la fine di una certa Italia contadina e proletaria, quella che ha vissuto le lacerazioni terribili del fascismo e della guerra ma anche le grandi speranze di rinnovamento e di trasformazione radicali della società del dopoguerra, della Resistenza  e degli anni ’50, il decennio in cui si svolge la formazione politica e ideologica di Pasolini. La sua fine Pasolini la racconta attraverso il pianto, il dolore e la disperazione di una folla sterminata che nel film si fa immagine di una comunità, ovvero di un popolo che attraverso il partito si è data una coscienza. E’ forse tra tutte le sequenze dei suoi film quella in cui meglio Pasolini ha saputo risolvere nel cinema la sua poesia civile e l’ideologia populista che vi si esprime. Si direbbe che qui “passione” e “ideologia” per una volta, si confondono completamente, di là dal loro lacerante conflitto che scandisce la poesia e il cinema di Pasolini, di là da quello “scandalo del contraddirmi” che Pasolini confessava a Gramsci davanti alla sua tomba, in versi celebri del poemetto Le ceneri di Gramsci. Non più soltanto “estetica passione” come lo stesso Pasolini la definiva in quei versi, qui la visione “sacrale” del popolo, tutta figurativamente risolta nelle immagini di repertorio dei funerali, riassume e condensa, infatti, la stessa passione politica di Pasolini. L’ideologia si fa passione. Ciò non toglie tuttavia che questa identificazione avvenga nel segno della morte, del dolore, della “passione” intesa anche in senso cristologico: i pugni chiusi dei proletari che sfilano davanti al feretro di Togliatti sembrano scandire un rito religioso, come le stesse bandiere rosse a lutto sotto le quali si compone e  raccoglie il popolo fattosi comunità politica. Se la morte di Togliatti è la fine di un’epoca storica, essa ne è anche il compimento, racchiudendone il senso. Ancora una volta, secondo le parole di Totò che citavamo prima, la vita si compie nella morte. Nel film tuttavia a questo motivo se ne accompagna e intreccia un altro, apparentemente opposto: quello della identità tra vita e morte intesa nel senso del ciclo, ovvero l’idea della morte come rinascita della vita. Ancora una volta si tratta di un motivo che in Pasolini non è esente da tratti cristologici. La morte del corvo, mangiato da Totò e Ninetto è appunto la metafora di questa potenza della vita che si incarna nei due vagabondi. La concezione della vita e del mondo espressione di un epoca storica ormai compiutasi viene digerita e quindi assimilata da Totò e Ninetto. E’ lo stesso Pasolini a suggerire didascalicamente questa interpretazione nella citazione ironica di una frase del grande filologo Giorgio Pasquali: “i professori vanno mangiati sempre in salsa piccante, perché chi se li mangia diventa un po’ professore anche lui”.  Io credo che qui il registro ironico sia fondamentale per capire la conclusione del film, se di una vera e propria conclusione possiamo parlare e il suo stesso senso e quindi il senso della sua poesia. Per un verso l’immagine delle ceneri del corvo, inquadrate in primo piano da Pasolini, forse evocative di quelle di Gramsci, sono in questo senso anche l’immagine-simbolo del martirio: l’intellettuale mangiato dai due sottoproletari si fa martire e la sua vita e il suo impegno acquistano il loro senso in questa fine. Ma per un altro verso questo compimento si configura nello stesso tempo come l’inizio di una nuova storia e di una nuova vita. Perciò l’intellettuale marxista non può che finire mangiato. L’atto del mangiare è nello stesso tempo l’espressione della eterna Fame dei due vagabondi e insieme un rinnovato ma laico rito eucaristico: mangiando il corvo, Totò e Ninetto ne digeriscono e assimilano alcuni essenziali “insegnamenti” impliciti nelle sue parole e diventano almeno un po’ come lui. Dunque la morte come compimento e insieme passaggio ad un “al di là” storico e terrestre. La morte del corvo, ovvero quella di Pasolini acquista non a caso un senso liberatorio che non ha quella di Togliatti nella sequenza dei funerali. Ci si libera della “ideologia” solo assimilandola. “Il cammino è appena iniziato, ma il viaggio è già finito.”, dice il corvo, all’inizio del film. Ma in fondo se un cammino può ancora darsi è proprio perché il viaggio è finito. In realtà ogni “viaggio” è sempre già finito, il suo “fine” dandosi infatti in esso come già predeterminato nel suo inizio, come “compimento” di quest’ultimo. Se allora la morte di Togliatti sembra volerci dire che la storia è finita, quella del corvo ci suggerisce invece che è  finita una certa concezione finalistica della storia, di là dalla quale propria la storia potrà continuare sebbene non verso uno scopo o un fine predeterminato ma verso quel “laggiù” indicato da Totò e che non conosciamo ancora.


Salvatore Tinè

domenica 11 ottobre 2015

Odissea nello spazio


Catania, 3 agosto 2015. All'Argentina rivedo, ma per la prima volta sul grande schermo, "2001 Odissea nello spazio". Mi è capitato di rileggere alcune pagine dell'"Ulisse" di Joyce proprio in questi giorni. Perciò rivedo l'"Odissea" di Kubrick ancora suggestionato da quella dell'irlandese. In fondo, anche il capolavoro di Joyce è un'Odissea nello spazio, lungo l'arco temporale di un giorno immensamente dilatato. Alla fine di una interminabile passeggiata nella sua Dublino, Bloom ritrova il letto di Molly, il cui enorme sedere assurge nel racconto di Joyce a metafora del mondo; alla fine del suo viaggio, "oltre" l'infinito spazio-temporale dell'universo sconosciuto, l'astronauta ritrova invece se stesso, prima invecchiato e poi addirittura sulla soglia della morte, prima di trasformarsi in un gigantesco  bambino cosmico. Dunque due viaggi diversissimi ma accomunati dal loro svolgersi nello spazio piuttosto che nel tempo, ovvero due Odissee in cui l'interiorità della "coscienza", della "soggettività" dei loro rispettivi protagonisti finisce per rendersi indistinguibile dallo "spazio" in cui si svolgono le loro vicende. Come l'"Ulisse" di Joyce, anche l'Odissea di Kubrick problematizza fino a dissolverli i confini tra soggetto e oggetto, come tra natura e tecnica, tra pensiero e sensibilità. L'enigmatico monolito il cui periodico ritorno  lega tra loro gli episodi pur nei vertiginosi salti temporali che li separano, si presenta così come una figura geometrica e astratta, forse prodotta da una intelligenza extra-terrestre e insieme un inquietante totem arcaico. Ma se nel capolavoro di Joyce il racconto si risolveva tutto nell'oggettività del flusso magmatico della vita colta nella pura esteriorità del suo manifestarsi, di là da ogni rigida separazione tra "soggetto" e "oggetto", tra "io" e "mondo", nel film di Kubrick la vicenda narrata si presenta come mera visione, puro spettacolo di immagini e colori, una sorta di "opera d'arte totale" in cui tuttavia il cinema ambisce a farsi pensiero, sguardo assoluto sulla realtà, scienza e arte insieme. Ed è forse proprio questa superiore potenza della visione l'unico senso dell'umano che Kubrick ci restituisce in questo film: gli immensi spazi interstellari, il loro pauroso buio cosmico sono pur sempre inquadrati dentro il campo visivo dello sguardo, ora tranquillo, ora atterrito ma sempre lucido e freddo dell'astronauta Bowman. Dissolti il tempo e la storia umani nell'immobilità dello spazio, la visione di quest'ultimo, sia essa quella di una scimmia antropoide o di un moderno Ulisse perso tra le stelle, racchiude forse ancora la possibilità di un futuro.

Salvatore Tinè

venerdì 9 ottobre 2015

Alice nel paese delle meraviglie.


All'Argentina per "Eyes wide shut". Dopo tanti anni rivedo il film di Kubrick. Una sequenza in particolare mi colpisce: quella in cui Bill piange tra le braccia di Alice, per la prima volta senza la "maschera" che l'ha diviso dalla moglie, di nuovo "nudo" dinanzi a lei nuda come nella prima scena del film, ma questa volta anche nell'anima e non solo nel corpo. Difficile dire se è un pianto liberatorio o soltanto disperato. Ma la carezza quasi materna di Alice e l' amore tenero e triste per il marito che sembra esprimere sono un grande momento di cinema e anche di poesia, in un film pure così "perturbante" e a tratti perfino terribile. Finalmente fuori dall'incubo del suo "paese delle meraviglie", l'Alice di Kubrick conserva ancora qualche tratto "salvifico" della Eleonora beethoveniana del "Fidelio", sebbene non sia stata lei ma un'altra donna già morta a trar fuori il marito dall'incubo da quale ha rischiato di non uscire più. Così, anche se per per vie tortuose e traverse, anche qui, l'amore coniugale finisce per  trionfare come nel finale dell'unica opera lirica di Beethoven  "Ti voglio bene" dice Alice a Bill, quando lei come lui sono finalmente "svegli, usciti, forse perfino indenni, dal "doppio sogno" che li ha divisi. "C'è una sola cosa che dobbiamo fare, subito: scopare" dice Alice nell'ultima battuta del film. Dunque solo da svegli ci si ama; solo da sposati "si scopa".

Salvatore Tinè

mercoledì 29 luglio 2015

Eternità


"Mentre scrivo- leggiamo nella conclusione di "Tonio Kroeger" di Thomas Mann -il mormorio del mare sale fino a me e io chiudo gli occhi. Guardo in un mondo non ancora nato, soltanto abbozzato, che cerca ordine e forma..." Anche nell'episodio de "La spiaggia" dell' "Ulisse" di Joyce davanti al mare di Sandycove, simbolo dell'informità dell'essere, ovvero della sua "proteiforme" natura, Stephen Dedalus, artista come Tonio Kroeger, chiudeva gli occhi e "guardava": in dubbio sulla realtà esterna del mondo, ma  a differenza del suo omologo manniano ansioso di coglierla e afferrarla, di là da ogni sua illusoria, solo superficiale visione, nella concretezza dello spazio e del tempo, "forme" e "ordine" dell'essere."Stephen chiuse gli occhi per sentire le sue scarpe schiacciar scricchiolanti marami e conchiglie. Ci cammini attraverso comunque. Io lo faccio. un passo alla volta. Un brevissimo spazio di tempo attraverso brevissimi tempi di spazio. Cinque, sei: il nacheinander. Esattamente: è questa è l'ineluttabile modalità dell'udibile.""Un mondo non ancora, nato, soltanto abbozzato" e perciò tragicamente privo di ordine e forma, mera "possibilità": questo forse la "sostanza" poetica dell'arte di Mann. come forse tout court, dell'arte come intesa dalla tradizione; il mondo "già nato" perchè mai nato ma eterno, ovvero già dato, duro, impenetrabile ma meravigliosamente, terribilmente presente, spinoziana "sostanza", quello dell'arte di Joyce, unica arte possibile forse dopo la sua hegeliana morte.

lunedì 27 luglio 2015

Medea



Su Rai 5 vedo la Medea di Paolo Magelli. Lo sfondo non è più il Teatro Antico di Siracusa ma il Colosseo. Tuttavia la Medea che vediamo sulla scena è più greca, più "euripidea" che "latina". E' una donna che vive la sua passione d'amore fino all'estremo e che ferita dal tradimento dell'uomo che ha amato e per il quale ha perfino ucciso rivendica i suoi diritti di donna fino a negare tragicamente la parte vitale, "materna" di se stessa. E tuttavia la Medea di Seneca è forse in questo conflitto interno a lei stessa tra la sua sete di vita e di amore e il suo impulso distruttivo e autodistruttivo. Seneca ci mostra l'assassinio dei suoi bambini. La scena in cui vediamo Valentina Banci accarezzare i corpi insanguinati dei suoi figli allude visivamente al nesso inestricabile tra vita e morte che lega il sangue della madre a quello dei figli. Ma non è tanto la ferocia "barbara" insieme autodistruttiva e vendicativa di Medea che si consuma in quella finale esplosione di follia il "tema" centrale di questa reinterpretazione del mito, quanto l'estrema coerenza del suo amore per Giasone, colta in modo particolarmente intenso nella recitazione di Valentina Banci nei suoi momenti più "modernamente" femminili, in cui la violenza della sua passione nulla toglie alla sua fragilità di donna, alla purezza assoluta del suo amore. "Una donna-Ulisse": così Paolo Magelli l'ha definita. E mi pare una splendida definizione. E' Medea in fondo l'anti-Penelope dei mito. Non la donna che aspetta a lui fedele il suo compagno a casa, ma quella che lo affianca nei suoi viaggi sul mare, la compagna delle sue avventure. Forse un altro ideale di fedeltà, oltre che un' altra idea di donna e di moglie. Ma Giasone è forse l'incarnazione della maschile insostenibilità di tale ideale. La sua fragilità, un tratto della "vittima" di Medea su cui Magelli ha insistito fortemente, è forse un aspetto di questa insostenibilità. Nel finale lo vediamo inginocchiarsi impotente a Medea mentre assiste alla morte dei suoi figli. Paga così atrocemente la sua colpa, il non essersi mostrato all'altezza della fedeltà assoluta che la compagna tradita ha preteso da lui, all'altezza del suo amore nudo e scabro come la sabbia della spiaggia deserta in cui si svolge il finale. Un deserto in cui perfino il sangue sui corpi dei bambini morti si fa immagine di vita e di amore.

Salvatore Tinè

lunedì 13 luglio 2015

Leninismo o socialdemocrazia?


Appena qualche giorno fa, Massimo Cacciari pateticamente, ridicolmente sosteneva che che destra e sinistra sono categorie ormai vecchie. Il filosofo che pure è solito darci sempre lezioni di "realismo politico", di critica ad ogni utopia "ineffettuale", sogna ancora, pateticamente, una Ue non dominata dalla Germania e rispettosa della libertà dei popoli. Ma la realtà della vera e propria "tragedia greca" cui stiamo assistendo è che le categorie di destra e sinistra sono "tragicamente" attuali!!! La destra è quell'insieme di forze che difende il potere sempre più arrogante, brutale, apertamente dittatoriale, del grande capitale finanziario, delle banche, dei grandi monopoli, di quell'intreccio che Lenin definiva un "meccanismo unico", mentre la sinistra è quel complesso di forze che si batte per difendere contro quel potere la democrazia perfino quella formale, "borghese", e i diritti dei lavoratori e dei popoli oppressi. Ma senza una prospettiva di cambiamento radicale di questa società, ovvero di rottura di quel potere, quali possibilità concrete hanno le forze della sinistra di prevalere, fermando quella "tendenza alla reazione", per dirla ancora con Lenin, che è connaturata al dominio del capitale finanziario? Insomma: leninismo o socialdemocrazia? "That's the question", direbbe Amleto, uno che di tragedie se ne intendeva.

Salvatore Tinè

domenica 12 luglio 2015

Le Supplici a Siracusa




Le Supplici" di Eschilo rivisitate da Moni Ovadia su RAI 5 ieri sera. Ovadia ci porta Eschilo direttamente sulla scena: il grande tragico parla in dialetto siciliano come un antico cantastorie, impersonato da Mario Incudine. Così la grande, solenne, altissima poesia di una tragedia tra le più religiose e "liturgiche" di Eschilo si fa spettacolo popolare, antico e modernissimo. Uno spettacolo che proprio riportando la tragedia alle sue origini più remote, al canto, alla musica, alla danza rivela in essa il nucleo più profondo e insieme più drammaticamente vivo e attuale della nostra identità europea. Il Mediterraneo, le città e le coste della Grecia come quelle della Sicilia e dell'Africa sono infatti i luoghi della genesi dell'Europa, della sua stessa identità culturale, come condensata ne "Le supplici" di Eschilo nel principio della "democrazia" e in quello dell'"accoglienza". Perciò Pelasgo il re di Argo interpretato dallo stesso Ovadia parla insieme in dialetto siciliano e in greco moderno: c'è una "origine" delle lingue e dei dialetti che tutti li accomuna nello spazio come nel tempo. Il principio sacro dell'accoglienza che le nere Danaidi rivendicano con accenti commossi nella preghiera al loro protettore Zeus ci riporta proprio a quella origine che fa dello straniero un "discendente" della medesima stirpe di chi lo accoglie. Il Mediterraneo è il luogo, lo spazio in cui la tragedia è nata ma è ancora quello in cui, tutti i giorni, essa si ripete. Le supplici che fuggite dalla coste della Libia chiedono asilo ad Argo sono nere come i "migranti" che tutti i giorni muoiono sulle coste del Mediterraneo. La stessa "democrazia" sembra nascere dall'urgente, drammatico problema di "decidere" sulla questione della loro accoglienza. Come non pensare alla vera e propria scena da tragedia greca cui abbiamo assistito solo pochi giorni fa in Grecia, a Tzipras che come un novello Pelasgo, sua "moderna" ripetizione, posto di fronte all'impossibilità di decidere sul "destino" del suo paese e dei suoi rapporti con quella Europa di cui è stato la culla, chiama il popolo greco a pronunciarsi  direttamente con il voto, simbolicamente, tragicamente ritornando alla democrazia nel senso greco, originario, di democrazia diretta, ovvero di "potere del popolo". Solo dove non c'è "soluzione" come grida disperato Pelasgo di fronte alla preghiera delle "supplici" nasce la democrazia, che in tal senso è da intendersi non come la "soluzione" della tragedia ma piuttosto come la sua massima espressione. Sappiamo che la decisione di ospitare le Danaidi trascinerà Argo nella guerra con l'Egitto. Ma qui Ovadia ha voluto piuttosto celebrare la potenza della democrazia, ovvero della decisione politica che scaturisce dal consenso e dall'unanime volontà del popolo, di fronte alla violenza e alla barbarie della prepotenza del "maschio" e della guerra. Il finale con le altissime parole di Pelasgo che parlando prima in greco e poi in siciliano si oppone trionfalmente all'assalto dei soldati di Egitto alle donne è la premessa non certo di un "lieto fine" ma di un utopistico ma vivo potente canto di libertà e di amore.
(La foto è di Maria Pia Ballarino)

Salvatore Tinè

venerdì 10 luglio 2015

Meraviglioso Boccaccio



All'Arena Corsaro per "Meraviglioso Boccaccio" dei Taviani. La "brigata" boccaccesca che fugge da Firenze e dalla peste, la villa in cui si rifugia mi hanno ricordato i carcerati di "Cesare deve morire", la loro unica fuga possibile, quella nell'arte, nella "messa in scena" di loro stessi, del loro dramma. Perciò la villa, pure immersa nei dolcissimi verdeggianti paesaggi toscani è come la prigione del film precedente il luogo da cui soltanto è possibile evadere, fuggire dalla "peste" del tempo, oltre che dal tempo della peste. Il passaggio dal film precedente a questo è allora quello dal dramma alla novella, dall'azione che si svolge dinanzi a noi, ogni volta ripetendosi sebbene sempre nuova e diversa commuovendoci e scuotendoci nel profondo al racconto dell'azione già svoltasi e una volta per sempre. Il cinema forse è dramma e novella insieme, azione e racconto di essa nello stesso momento, nel tempo e fuori del tempo. Ma qui il dramma non esplode mai in forme aperte ed evidenti. Nessuna carnalità, nessuna violenza del desiderio in questa rivisitazione di alcune novelle del "Decamerone". Niente della stessa violenza fisica, della fatale immediata identificazione tra realtà e dramma che come un pugno nello stomaco ci avevano colpiti nella messa in scena da parte dei carcerati dell'assassinio di Giulio Cesare di "Cesare deve morire". Qui è invece con un tocco di delicata, "casta" poesia che i Taviani raccontano alcune delle storie di Boccaccio.  Il racconto degli amori, dei desideri della carne e del corpo di uomini e donne si risolve tutto nelle tenue evidenza delle immagini, senza nessuna violenza fisica, come se tutto ormai di quelle storie fosse ormai risolto e come per sempre pacificato nel tranquillo abbandonato conversare dei giovani della brigata, mentre quanto di "melodrammatico" si nasconde in esse è soltanto evocato, suggerito dalle musiche di Verdi e di Puccini. Questo tempo sospeso è quello dell'arte. Ma esso non può durare per sempre. Così, allo stesso modo in cui i carcerati dovranno tornare, sebbene interiormente mutati, nella realtà delle loro celle, tremenda come la peste di Firenze, così i giovani decideranno, dopo una pioggia purificatrice, di por termine al "raccontare" che li ha salvati, nella loro Firenze.

Salvatore Tinè

giovedì 9 luglio 2015

Verga e la musica.


Proprio mentre leggo le grandi pagine del "Doktor Faustus" sul rovesciarsi della soggettività nell'oggettività, sul loro totale identificarsi nella politica come nell'arte, Peppe mi sottopone un brano di Arturo Pompeati sulla poesia di Giovanni Verga che delle affermazioni di Leverkuhn è forse una esemplificazione: "Poesia quasi incapace di abbandonarsi, tutta suscitata nel profondo, dono di un mondo segreto da interrogare senza violarne la purezza antica e la nobiltà. Pietà contenuta, intenzionalmente per uno scrupolo di impersonalità, ma effettivamente per un rispetto involontario che trattiene l'autore dinanzi ad una realtà così lontana dalle sue esperienze di uomo, e insieme così vicine alle sue simpatie ideali. A questa contenutezza risponde anche la prosa, originalissima, del romanzo. Una prosa che procede per brevi costrutti allacciati empiricamente da 'e' e da 'che', quasi per tentativi di aggirare la materia e includerla in un discorso continuo. In verità da questo procedimento e dal tono dialettale dell'espressione risulta un andamento ritmico che acquista via via un valore sinfonico regolato da una coerenza assoluta, che solo ha il difetto di una innegabile monotonia. Si pena che so a certi prolissi sviluppi di Schubert, benché nel Verga a differenza dell'autore dell'' incompiuta' la prolissità non si avverta mai, e l'uniformità sia interamente negli effetti verbali e fraseologici." Per Leverkuhn solo nella musica si dava l'identità assoluta tra soggettività e oggettività. Verga attinge tale identità nella letteratura, rovesciando l'impersonalità naturalistica nell'oggettività di una sinfonia letteraria, sia pure tutta risolta nel ritmo e nella cadenza, apparentemente monotona, sempre eguale, di rotti frammenti, così risolvendo l'oggettività della realtà nella sua musica. "Scrittore di cose" e non di parole ebbe a definirlo una volta, Pirandello. Ma anche la sua "musica" è fatta di "cose", come forse sempre la vera musica.

Salvatore Tinè

martedì 30 giugno 2015

Falstaff


La battaglia di Shrewsbury nel "Falstaff" di Orson Welles è forse una delle sequenze più grandi della storia del cinema. Essa divide in due parti il film, segnando la perdita dell'innocenza del suo protagonista, il principe Hal, futuro Enrico V. Lo stesso vecchio Falstaff vi partecipa ma alla sua maniera, reclutando nella sua compagna i peggiori e corrompendo i migliori. La sua vecchiaia è al di qua e insieme al di là della guerra. Immerso nella terrestrità della vita come i cadaveri di soldati intrecciati tra loro affondati nel fango della battaglia, con tutta l'obesità e la pesantezza del suo corpo, Falstaf continua a giocare, a recitare divertendosi perfino nell'inferno della guerra, fuori dalle sue amate taverne. Padre adottivo del principe Hal, è l'antitesi perfetta in questo senso del vero padre di quest'ultimo, un Enrico IV superbamente interpretato da John Gilgoud, ennesima shakesperiana incarnazione del potere, della sua violenza come della ideologia che lo giustifica e glorifica. Hal dovrà tradire il padre adottivo per diventare re e raccogliere così l'eredita del padre usurpatore. Il tradimento inevitabile, come scritto nel "destino", è il preludio della morte di Falstaff. Ma esso è anticipato nella sequenza in cui il vecchio Sir John recita parodiandola la parte di Enrico IV davanti al futuro Enrico V e quest'ultimo quella del suo "vero" padre così beffando e insultando quello adottivo. "La rivolta contro il padre non è una tragedia ma una commedia", ha detto una volta Franz Kafka. Ma qui la commedia prefigura la tragedia sia pure parodiandola e come rifiutandola: parodia della rappresentazione del potere, il Falstaff attore, padre finto e insieme vero, sembra smascherarne con il suo più sano che cinico buon senso l'ideologia e il nulla che vi si nasconde. Alla tragedia del potere e della guerra per esso Orson Welles mai così aderente al personaggio che interpreta contrappone la commedia e quindi la poesia della vita. Così prima della sua morte, ci mostra Falstaff godere del suo ultimo bacio, tra le calde braccia di Doll Tearsheet, velato da un'ombra di senile malinconia. Non vedremo tuttavia la morte di Falstaff, la quale viene soltanto raccontata dagli amici e dalle donne vecchie e giovani della sua taverna, in una grande sequenza, di grande, "shakesperiana" poesia. Immagine in movimento e racconto, cinema e teatro, silenzio e parola, commedia e tragedia: come poche volte nella storia del cinema, Welles li ha fusi insieme, in una sintesi perfetta.

Salvatore Tinè

venerdì 26 giugno 2015

Touch of evil




Uno splendido piano-sequenza apre "Touch of evil" di Orson Welles. L'esplosione della bomba che lo chiude è preceduta da un bacio tra un uomo e una donna in viaggio di nozze in una città al confine tra gli USA e il Messico. L'esplosione è un assassinio e le vicende della indagine su di esso vedranno contrapporsi non tanto i poliziotti e gli assassini quanto piuttosto i poliziotti tra loro, un ispettore messicano e un poliziotto americano. La violenza di quest'ultimo è al di là della legge cui si invece non cessa di appellarsi il messicano, convinto che la giustizia non possa prescindere dal diritto. Il confine tra gli Usa e il Messico ci rinvia così anche a quello tra bene e male, tra violenza e diritto. Nei panni del violento e razzista Quinlan, nella sua debordante e mostruosa obesità, Welles  ci appare come la metafora visiva dell'impero americano e insieme del suo ormai irreversibile declino. Solo all'estremità dei suoi confini la realtà dell'impero si rende visibile di là dalla sua retorica del diritto e dagli infingimenti della ideologia: la mostruosa, kafkiana "metamorfosi" di Orson Welles nei panni di Quinlan è l'immagine stessa di tale verità. Non a caso il potere "assoluto", ovvero sciolto dalla legge, esercitato soltanto in nome di una astratta e inattingibile "giustizia", di Quinlan si dispiega lungo quel confine: come Walter Benjamin ci ha spiegato nel suo grande saggio sulla violenza, il potere della polizia è quello che sospende la legge proprio per difenderla, sempre al "confine" tra il potere di fondare la legge e quello di mantenerla. Eppure, il personaggio che interpreta è visto dallo stesso Welles non senza una qualche simpatia. Il suo "intuito" sembra non avere bisogno di prove "vere"; i suoi metodi brutali  e violenti appaiono come gli unici adeguati a fronteggiare una città dominata dal disordine e dall'anarchia. In questo universo quasi kafkiano il poliziotto messicano e il suo culto della legalità finiscono per apparirci quasi banali. Paradossale che sia il messicano a ricordare al collega americano il corretto comportamento della polizia in uno stato "libero". Tradito e spiato dal suo più fedele collaboratore, decisosi  a collaborare col suo antagonista messicano, Quinlan morirà alla fine del film e la scena finale in cui vediamo il suo pesante corpo scivolare lentamente nel fango e nella sporcizia di una discarica è certo tra le immagini più forti e pregnanti del film. In quel fango e in quella sporcizia affondano le loro radici la società e l'impero americani. L'esplosione della macchina all'inizio del film ne racchiude allora il suo senso più profondo: essa ci rinvia infatti alla realtà di un mondo già esploso i cui frantumi e detriti Welles non cessa di mostrarci in un film ancora una volta superbo per la sua potenza visionaria, per i suoi eccessi barocchi. "Qual è il mio futuro?" domanda il poliziotto americano ad una zingara chiromante interpretata da Marlene Dietrich. "Non ce l'hai!": risponde lei.

Salvatore Tinè

Gradisca

Se ne va Magali Noel. Mi ritorna in mente la sequenza di "Amarcord" in cui Titta vede o sogna la Gradisca sola nel buio di un cinema di paese e sogna di sedersi accanto a lei e di sfiorarne una coscia. L'onirica fisicità di quel corpo così morbidamente materno così come la tenerezza quasi infantile dei suoi grandi occhi, la sua ingenuità così "familiare" e rassicurante erano in fondo le stesse della Fanny della "Dolce vita", la ballerina protagonista di uno degli episodi più belli e poetici di quel grande film, la figura che forse più di ogni altra incarnava quella pura "dolcezza" della "vita" cui alludeva il suo titolo. Dolcemente materna col vecchio padre non meno che col figlio maturo, in un locale notturno di Via Veneto, lontano dalla loro provincia, Fanny finiva per unirli di nuovo, forse prima del loro ultimo incontro.

Salvatore Tinè

lunedì 1 giugno 2015

Zeno e la bellezza


"Poi, quando poche ore dopo cominciai a sognare Carla, immaginai che su quella faccia ci fosse stata una lotta fra la letizia e il dolore. Nulla di tutto questo trovai poi in lei ed una volta di più appresi che la bellezza femminile simula dei sentimenti coi quali nulla ha a vedere." In questa pagina de "La coscienza di Zeno"; Svevo coglie lucidamente il carattere di "simulazione", ovvero di esteriorità della bellezza femminile. Mi chiedo tuttavia sino a che punto tale esteriorità possa considerarsi puramente "vuota" e se proprio nel non rimandare ad altro che a se stessa, della bellezza non ci celi paradossalmente proprio il suo enigma. La bellezza insomma non "significa" niente, non allude a nessun "contenuto" sentimentale e meno che mai morale e proprio perciò è "indisvelabile".

Salvatore Tinè

domenica 24 maggio 2015

La donna a pezzi


"Fui sincero come in confessione: la donna a me non piaceva intera, ma ... a pezzi!" dice Zeno al suo medico ne "La coscienza di Zeno". Cerchiamo la totalità nella donna. E invece è proprio di fronte ad essa che essa va in frantumi. L'inquietante confessione di Zeno mi fa venire in mente il corpo a pezzi di Jenet Leigh di una celebre di "Psycho" ( la più "ejzenstejniana" della storia del cinema) ma anche, forse per contrasto, certi ritratti e nudi di Picasso che proprio nella scomposizione cubista del corpo della donna sembrano cercarne l'intero e il suo enigma.

Salvatore Tinè

giovedì 21 maggio 2015

'Ntoni


Finisco di leggere "Il fu Mattia Pascal". La pagina in cui il Paleari spiega a Mattia Pascal diventato Adriano Meis come Oreste diventi Amleto è certo la più grande del libro. Ripenso a Sciascia che nella differenza tra la tragedia antica di Oreste e quella moderna di Amleto vide nientemeno che quella tra Verga e Pirandello, tra la Sicilia greca del primo e quella "araba" del secondo, tra Catania e Girgenti. Ma se fosse vero che Verga ci ha dato una "tragedia antica" come pensa Sciascia, ciò significherebbe che essa è ancora possibile nella modernità, nella contemporaneità. Che 'Ntoni sia già un Amleto che agisce ancora come un Oreste?

Salvatore Tinè

sabato 16 maggio 2015

Il ballo di Turturro


Il ballo di John Turturro in "Mia madre" di Moretti è tra le scene più belle del film. Moretti non balla più nel film, si direbbe. Ma per lo "splendido quarantenne" di una volta il ballo sembrerebbe ancora la più pura manifestazione della vita, qui nel film evocata nella sua contrapposizione ad una morte non più esorcizzabile, quella della madre, realtà pesante come un macigno. Ancora nel medesimo spazio del set di un film ma nella sospensione del suo artificio, della sua realtà soltanto possibile e virtuale, anche le agili, flessuose movenze del corpo di Turturro non più attore ma mimo si impongono con l'immediata evidenza fisica del cinema come non meno "reali" della morte che incombe fuori dal recinto protetto della finzione cinematografica. Le immagini del cinema fissano il movimento non tuttavia negandolo ma riproducendolo: il ballo di Turturro ne è forse in questo senso una metafora del cinema, del suo paradosso, della sua impossibilità.  Ma la troupe che circonda l'attore americano è forse anche l'immagine di una "comunità" possibile. Come ne "La stanza del figlio" anche qui il dolore divide e isola, chiude l'individuo dentro i confini della propria individualità: la madre, si direbbe, è sempre "mia" come heideggerianamente la morte. Dinanzi al ballo del suo attore, in mezzo agli amici della troupe Magherita sorride: per la prima volta il suo sguardo si fa appena più lieve come se una raggiunta consapevolezza dell'indissolubile intreccio che stringe la vita e la morte la staccasse dalla morsa del dolore e la vita fuori di lei fosse ritornata visibile al suo sguardo nel suo scorrere.

Salvatore Tinè

martedì 12 maggio 2015

Fidelio


Ripenso al "Fidelio". Credo abbia ragione Barenboim ad accostarlo al "Tristano" di Wagner. Il tema dell'amore è al centro delle due opere. Si potrebbe forse dire che se ad esso nel "Tristano" si congiunge il tema della morte, nell'unica opera lirica beethoveniana, il tema dell'amore si congiunge al contrario a quello della vita e della libertà. Perciò il Fidelio è un'opera politica. Il vincolo coniugale che lega Florestan ad Eleonore libera il prigioniero. L'amore consacrato nel matrimonio libera Florestano dal carcere in cui lo ha rinchiuso un potere tanto oppressivo quanto arbitrario, riportandolo dalle tenebre alla luce. Dunque la luce dell'amore di contro alle tenebre del potere. Impossibile non pensare ad "Eyes wide shut" di Kubrick, geniale riscrittura del "Fidelio" beethoveniano. Kubrick ci racconta un altro viaggio nelle tenebre che sembra reinterpretare quello di Eleonore, attraverso Schnitzler e quindi Freud. A differenza che in Beethoven, nel film è il marito a portare la maschera e non sarà la moglie a salvarlo dal carcere in cui finisce per cacciarsi e quindi dalla morte. Ma alla fine come nel finale del "Fidelio" di nuovo riportato alla luce dalla tenebre della notte e del sogno è la moglie che ritroverà e forse è proprio lei che lo ha salvato.

Salvatore Tinè

sabato 9 maggio 2015

Teatro universale


Con Peppe rivediamo un passaggio di una grande edizione dei "Sei personaggi in cerca d'autore" con Romolo Valli. Mi ritorna in mente il riferimento di Benjamin ai "sei di Pirandello" che nel teatro, come tutti i chiamati al Teatro di Oklahoma nell'America di Kafka cercano asilo, rifugio e non è detto che non troveranno la loro "redenzione". In effetti i personaggi in cerca d'autore rifiutano gli attori che dovrebbero impersonarli "recitando", ovvero ripetendo la loro vita, solo perchè intendono recitare loro stessi se stessi. Dunque, si direbbe, alla falsa recitazione degli attori, ovvero alla finzione di un teatro diventato mera mistificazione, sembrano opporre un altro teatro, quello in cui ciascuno recita se stesso, solo così potendo "essere" se stesso, ovvero essere autenticamente, impersonare la "propria" parte, quella che abbiamo scordato. In questo senso il teatro è un esercizio di memoria, di rammemorazione: ci trae fuori dall'oblio del senso delle nostre parole, come dei nostri gesti. Sebbene ancora "in cerca di autore", i personaggi pirandelliani non cercano più in colui che li ha creati per poi un attimo dopo abbandonarli questo senso dimenticato. Sarà compito soltanto loro ritrovare nella totale immanenza dei loro gesti muti come delle loro parole quel senso che nessun autore e nessun dio trascendente può assicurare loro. Il teatro è la vera incarnazione della idea verghiana dell'opera d'arte che è tale in quanto si fa da sé, vive di vita propria, totalmente immanente a se stessa. Come quello di Kafka secondo Benjamin, anche il mondo di Pirandello può forse definirsi allora un "teatro universale", a cui tuttavia, paradossalmente ci si può opporre solo recitando se stessi. In quanto "universale" il teatro è nello stesso tempo il luogo della nostra dannazione e quello della nostra solo possibile salvezza, inferno, insieme e paradiso.

Salvatore Tinè

mercoledì 6 maggio 2015

Mann e l'infinito


Aschenbach che in "La morte a Venezia", seduto sulla spiaggia di fronte all'immensità del mare si volge improvvisamente dalla perfezione del nulla a quella della forma è uno dei grandi momenti della letteratura di tutti i tempi.
"Da profondi motivi nasceva il suo amore del mare: bisogno di riposo dopo il duro lavoro dell'artista che, dinanzi all'invadente multiformità delle apparenze, aspira a rifugiarsi in seno all'immensa semplicità; e nello stesso tempo una tendenza colpevole, affatto opposta al suo compito, e appunto perciò piena di seduzione, verso l'inarticolato, l'indeterminato, l'eterno: verso il nulla. Riposare nella perfezione è l'anelito di chi si affatica verso l'eccelso; e non è forse anche il nulla una forma di perfezione? Ma proprio mentre sprofondava nel vuoto di queste riflessioni, ecco tutto a un tratto, sull'orizzonte della sponda, stagliarsi una figura umana; e appena il suo sguardo si risollevò dall'infinito e riuscì a fissarsi, riconobbe il bel fanciullo".
Come non pensare a "L'infinito" di Leopardi? Ma nella pagina di Mann è un movimento inverso a quello che conduceva il poeta a naufragare sia pure solo col pensiero nell'immensità, nel mare dell'infinito. L'assoluto della forma, la sua visione che come una "rivelazione" si staglia dinanzi al suo sguardo distolgono Aschenbach da quell'impulso ad annullare la propria individualità di uomo e perciò di artista nella quiete del nulla cui solo un attimo prima sembrava soccombere. Così la creazione si volge in visione, in quella platonica della bellezza. "E un impulso paterno riempì e mosse il suo cuore, il tenero turbamento di chi si sacrifica in ispirito per creare il bello, verso chi la bellezza possiede". Non più culmine della creazione, del "lavoro dello spirito" la bellezza preesiste a chi la contempla. Aschenbach è in tal senso l'antitesi di Faust, l'eroe goethiano che abbandona la bellezza "senza spirito" di Margherita nella sua tensione verso l'infinito. Ma proprio il suo configurarsi solo nella visione la rende inattingibile a chi anela ad essa. La quiete della forma, della "perfezione" della "figura umana" non è meno "mortale" di quella del "nulla". E di essa Aschenbach morirà.

Salvatore Tinè.

Il cane di Godard.


Un cane è il protagonista di "Addio al linguaggio" di Godard. Il film in 3 D racconta infatti il suo sguardo, forse l'unico  primigenio ancora possibile, sul mondo e su noi stessi. Godard sembra contrapporlo al "nostro" liinguaggio" fatto di parole o di immagini già esaurite cui il regista francese già oltre gli ottanta anni dà, forse addirittura felicemente, l'addio. La "profondità" dell'immagine tridimensionale che si finge "veramente" tale è in fondo questo addio. L'immagine "piatta" tradizionale del vecchio cinema, di fronte a noi, oggettiva nella sua apparente verità è già satura. Qui invece in "Addio al linguaggio" l'immagine 3D sembra uscire fuori dallo schermo, attraversarci, coinvolgerci pienamente, come se in fondo fosse "lei" a guardarci e non più noi di fronte a lei, lei. "Odio i personaggi" dice ad un certo punto la protagonista del film. Ed in effetti quello di Godard è un film di spettri, spettri fuori dallo schermo, in mezzo a noi. Di qui la difficoltà di guardarli, di metterli a fuoco. "Addio al linguaggio" sembrerebbe in questo senso anche un addio allo sguardo, a quello sguardo cinematografico che in quanto tale ha sempre preteso di porsi come oggettivo, fotografico, l'unico in grado di mettere a fuoco la realtà. Alla "visione" del cinema Godard sembra contrapporre quella della pittura. E tuttavia lo sguardo del pittore non è propriamente una visione: citando Monet, Godard ci suggerisce che esso in grado di riprodurre non ciò che sfugge al nostro sguardo, l'invisibile, quanto il nostro stesso "non vedere". Solo il cane allora "vede": il suo sguardo di là dal linguaggio, ovvero dall'insuperabile scissione tra soggetto e oggetto, tra il "vivere" e il "raccontarsi", ne fa l'unico personaggio possibile in un film di soli fantasmi. Mi viene in mente il cane di un pagina dell'"Ulisse" di Joyce: "Un punto, cane vivo, si ingrandiva alla vista lungo la distesa di sabbia. SIgnore, mi sta per attaccare? Rispetta la sua libertà". Questa joyciana "libertà" del cane, l'unica ancora possibile e perciò degna di "rispetto" è forse il tema vero del film di Godard.

Salvatore Tinè

sabato 2 maggio 2015

Theatrum Mundi



Recitare significa citare di "nuovo": sembrerebbe in tal senso una coazione a ripetere. Nel mondo totalmente mercificato viviamo infatti recitando. Mi vengono in mente il kafkiano teatro naturale di Oklahoma in cui tutti vengono chiamati a recitare, ognuno recitando se stesso. Non a caso Benjamin ha visto nel mondo di Kafka un "teatro universale". Lo stesso pensatore tedesco ha visto tuttavia proprio nel teatro cui vengono chiamati i personaggi di Kafka un possibile luogo di "redenzione" evocando a questo proposito la ricerca da parte dei sei personaggi di Pirandello del loro autore. Dunque il luogo per eccellenza della estraneazione nel quale siamo noi stessi recitando noi stessi può rovesciarsi nel luogo del nostro ritrovarci. Non si tratta allora forse di non recitare più, quanto di recitare veramente, impersonando veramente la nostra vera parte. "Nati vivi- dice Pirandello dei suoi personaggi in cerca d'autore- volevano vivere". Ma solo recitando, ovvero solo ritrovando l'autore che li ha rifiutati dopo averli creati- essi possono vivere." Nell'universo totalitario del "teatro universale", della mistificazione fattasi totale, il teatro è paradossalmente l'unico fuga possibile da esso.

Salvatore Tinè

venerdì 1 maggio 2015

Primo Maggio



Il tema della felicità, o meglio del cammino storico verso di essa è il vero tema di "Tempi moderni" di Chaplin. Ma il grande artista inglese lo collega a quello del lavoro, della sua emancipazione dalla meccanizzazione e dalla schiavitù cui lo condannano la disumana, assurda ferocia del mercato e e del capitalismo, Perciò "l'iniziativa individuale", evocata nella didascalia iniziale del film, intanto può affermarsi in quanto si lega alla "marcia dell'umanità alla conquista della felicità". Una "marcia" che scandisce un altro tempo rispetto a quello ridotto a pura, "astratta" misura dell'orologio che vediamo nella prima inquadratura del film, il tempo di quello che il vecchio Marx chiamerebbe "lavoro astratto". Forse è a questa duplice scansione temporale della modernità che i "tempi moderni" del titolo alludono. L'immagine di Chaplin che per caso si ritrova tra le mani una bandiera rossa è quella della vita inesorabilmente "oltre" l'ordine del capitale e tuttavia ancora al di qua della coscienza e della storia. Il tempo del lavoro è certo quello dell'orologio, non ancora quello della vita e da esso Chaplin non può che divergere e fuggire. Ma solo nel loro convergere potrà consistere la felicità.

Salvatore Tinè.

martedì 21 aprile 2015


L'epigrafe al primo aforisma di "Strada a senso unico" di Walter Benjamin: "Questa strada si chiama VIA ASJA LACIS dal nome di colei che da INGEGNERE l'ha aperta dentro l'autore". Ecco la strada che apre l'amore per una donna, viene fatto di pensare, leggendo l'aforisma: una strada a "senso unico" aperta dentro di noi, ma forse, come quella che porta, porterà (sebbene non noi), al comunismo, anche fuori di noi. Chiamiamo "utopia" il convergere di queste due strade.

Salvatore Tinè

sabato 18 aprile 2015

Mia madre


“Mia madre” di Nanni Moretti. Difficile scrivere del film subito dopo averlo visto. E' forse l'opera più intimamente, soffertamente autobiografica del regista romano. Più infatti che in ogni altro film l'autobiografismo spesso perfino scopertamente "diaristico" di Moretti, scava qui nel dolore, nella sofferenza più lancinante. Non lo strazio fisico del dolore che esplode come in un grido, come ne "La stanza del figlio" ma la tristezza, la cupezza di un dolore muto e fondo dominano infatti in "Mia madre". Felice tuttavia la scelta di Moretti di "distanziare" una materia sentimentale così forte e incandescente decidendo di raccontarla attraverso il filtro di un personaggio femminile, una regista, che sta girando un film di forte impegno politico e sociale sul tema del lavoro e della lotta per la sua difesa e dignità. La madre malata e  morente è una professoressa di latino e greco, una donna solida e forte nella cui vita i valori antichi di quelle lingue “morte” hanno continuato a vivere, dando valore e senso alla sua vita di donna e di madre. Difficilissimo, tuttavia appare alla figlia, sotto il peso e la fatica del  dolore. il compito di raccogliere e continuare a far vivere questa preziosa eredità materna, che si imporrà alla morte della madre, come “ripetendo” ma in un mondo e in contesto del tutto stravolti e mutati ciò di cui lei era stata capace. Di qui la fatica di insegnare alla propria figlia la lingua e le “parole” latine della propria madre. Ancora una volta Moretti ci ricorda come in “Palombella rossa” che “le parole sono importanti”. La malattia e la morte scandiscono le scene che raccontano la vita della regista, mentre nelle sequenze che raccontano il set e quindi il suo "lavoro" la vita si intreccia strettamente fino a confondersi con la finzione, con l'artificio del cinema. Viene in mente Cocteau che una volta definì il cinema "la morte al lavoro". E Moretti in alcune sequenze che vedono come protagonista l'attore John Turturro nei panni dell'attore e quindi di se stesso sembra parlarci proprio nel contesto di un film che riporta la morte "nel" cinema, della morte "del" cinema. La scena in cui sullo sfondo di una Roma notturna e deserta per niente felliniana, Turturro accenna al motivo di Rota che commentava "Le tentazioni del dottor Antonio" gridando dal finestrino il nome di Peppino De Filippo non ci parla tanto della nostalgia del cinema ma della sua morte, ovvero della perdita del suo senso, della sua funzione ridotta a mera finzione. Fuori dal set, l'ingegnere interpretato da Moretti, fratello della regista sembra per tutto il film molto più "dentro" la realtà che la sorella. La sua "razionalità" da "ingegnere" si contrappone ma teneramente all'incoercibile tendenza della sorella a negare la realtà o a fuggire da essa nell'evasione del cinema, come al suo apparente egoismo, alla sua inadeguatezza e fragilità. Ma alla fine anche l'ingegnere "getta la spugna" e lascia il lavoro in una scena tristissima in cui sembra che sia piuttosto Moretti a gettare la maschera oltre che la spugna. Impossibile non ricordare la scena in cui felice ballava per strada nel "Caro diario" dello "splendido quarantenne" guardando la scena di "Mia madre" in cui John Turturro festeggia con la troupe con un ballo sensualissimo che sa di amore e di vita. Il cinema si fa così ancora una volta "diario". Un diario che come tale non può non raccontare la perdita e il dolore ma il cui ritmo è pur sempre quello lento e eguale della fatica di vivere e del quotidiano lavoro. Moretti lascia il lavoro sfinito, annientato dall'immane dolore della perdita ma è con il "domani" evocato dall'ultima parola della madre già morta che il film si concluderà.

Salvatore Tiné

mercoledì 18 marzo 2015

Leggendo "L'anima e le forme".


 Ne "L'anima e le forme", Lukacs sembra considerare non solo l'artista ma anche ogni uomo sempre indeciso tra vita e forma. Si può vivere veramente, "autenticamente" ma "nella" vita, ovvero senza rinuncia, di là dal "non-senso" del presente e tuttavia "nel" presente, non nell'attesa che anticipi un futuro inattingibile, solo sognato ma che lo colga ora, nella chiusa perfezione di un attimo, finalmente desti? Che sia questa "domanda" il nucleo" tragico di quel grandissimo libro? La "possibilità oggettiva" di "Storia e coscienza di classe" è in fondo una coscienza non ancora "desta". Il suo risveglio è l'attualità della rivoluzione: vita, ("processo") certo e tuttavia condensata in un "atto", ovvero non in azione soltanto ma in "azione presente". L'atto è certo un "novum" e tuttavia e insieme l'attualità, l'attualizzarsi di una già data "possibilità", di un "passato" forse perfino "eterno" che si fa presente per la prima volta, "forma" che scaturisce dal processo ma senza derivarne, insieme presupposto e prodotto di esso. Lukacs sembra non riuscire mai veramente a rendere "dialettica" questa tensione che resta insostenibile tra vita e forma, tra processo e atto. Il partito comunista cui aderisce con tutto stesso è in fondo l'unica possibile mediazione sebbene non dialettica tra i due poli in cui Lukacs continua e continuerà per tutta la sua vita di uomo, di intellettuale e di comunista a dibattersi. Il partito come figura della coscienza di classe fino al momento del suo risveglio, e perciò contraddittoriamente ma non dialetticamente insieme espressione e prefigurazione dell'attualità della rivoluzione, forma "assoluta" certo ma proprio perciò in tensione con la vita, di là da essa, verità ancora in cerca della vita.

Salvatore Tinè