venerdì 31 gennaio 2014

La famiglia


"In Sabato, domenica e lunedi", De Filippo ci parla della famiglia, della sua crisi, dei conflitti che la attraversano nel profondo e che in genere esplodono la domenica, quando la dimensione attiva della vita, il duro, faticoso lavoro quotidiano si interrompono e le contraddizioni, fino ad allora nascoste o accantonate, non possono più essere eluse. Nel corso di un pranzo domenicale cui partecipano tutti i membri della famiglia insieme ad alcuni vicini, quelle contraddizioni trovano un punto di rottura, di drammatica precipitazione. Il tempo circolare del rito è anche quello della tragedia. Il pranzo della domenica è il vero teatro della famiglia, ovvero quello che spezza, sia pure solo per attimo, il teatro falso, convezionale fino ad allora svoltosi: le maschere fino a a quel momento indossate vengono meno e i convitati, parenti e amici, si mettono a nudo. La tragedia è il momento di questo riconoscimento che è anche uno smascheramento, il suo rito sempre ripetuto. Il tragico è freudianamente il rimosso che ritorna e si ripete. Il luogo di un'altra temporalità. Ma per fortuna c'è anche il lunedi, quando il teatro "vero" finisce e ricomicia quello "falso", con le maschere della vita reale miracolosamente ricomposte. La tragedia si volge così in commedia. La vita riprende il suo corso normale e quello che fino a un attimo prima era apparso come il luogo della contraddizione, per eccellenza, ovvero la la famiglia, diventa come per incanto quello della riconciliazione. La contraddizione tra uomo e donna, nelle vesti di marito e moglie e quindi in quelle di padre e madre, insieme alla contraddizione tra genitori e figli trovano proprio nello spazio claustrofobico che incessantemente le genera l'unica possibilità di mediazione. La tragedia è finita, insomma, ma, come dicono gli attori, "lo spettacolo deve continuare".... La famiglia come inferno e insieme unico rifugio possibile, finto "paradiso": è questo forse il tema di "Sabato domenica e lunedi".

Salvatore Tinè

mercoledì 29 gennaio 2014

Amor matris

17 settembre 2013 

Il tema "edipico" dell'odio per il padre e dell'amore per la madre è al centro di "The tree of life" di Terrence Malick. Il regista americano narra quasi solo per immagini la storia di una normale famiglia del Texas negli anni '50, ma inserendola dentro il "racconto" della nascita dell'universo e della vita. Un racconto che non coincide con quello della creazione divina del mondo: eppure non si può certo che il Dio, così tante volte evocato nei più lancinanti momenti di dolore e di disperazione dei personaggi del film, coincida senz'altro con quello spinoziano, ovvero con il "Deus sive Natura" e che quindi la vita dell'uomo appaia nel film come spinoziamente "parte" soltanto e mai come "scopo o "fine" ultimo dell'esistenza del mondo. Pure, "The tree of life" si presenta in larga parte come un film sulla Natura e sul suo rapporto con la vita e l'esistenza dell'uomo, da Malick indagate in una prospettiva fortemente etica. Solo dentro questa prospettiva, Malick si interroga sul tema dell'amore, ovvero come si dice  in "To the wonder", l'ultimo film del regista americano, dell'"amore che ci ama, che viene dal nulla e da tutte le cose." Ma in che senso il Dio-Natura spinoziano, nonostante la sua potenza infinita e la sua "indifferenza" alla nostra vita, il suo essere " al di là del bene e del male" può essere concepito "cristianamente" come un Dio-Amore, "che ci ama"? E, ancora, in che senso un Dio concepito come Natura e non come Persona può amare e non solo essere amato? Certo, nel film è presente anche un'altra visione di Dio, quella del Padre crudele, che "ci odia". In questo senso il conflitto  tra il figlio e il padre che scandisce il racconto della vita  della famiglia si carica di un fondamentale significato teologico: a quel conflitto si accompagnano infatti i primi dubbi del figlio sulla "bontà" di Dio. "Perchè devo essere buono se tu non lo sei", egli si chiede, proprio nel momento in cui la sua contrapposizione al padre e alla sua pedagogia così apparentemente dura e "autoritaria" sconfina nell'odio e nella tentazione di uccidere il genitore. La morte di un ragazzo è un momento fondamentale nel corso della sua scoperta del dolore e della sofferenza: una esperienza che prefigura e rimanda a quella della morte del fratello da cui prende le mosse il film. Mai come questa volta, forse, il cinema era riuscito a fare del passato, del presente e del futuro un unico tempo. Il "passato" abissalmente remoto dell'inizio della vita nell'universo cui veniamo riportati nel momento più drammatico e sconvolgente del film, quello che narra di un enorme lutto che colpisce la famiglia con la la morte di uno dei figli, viene "raccontato" come se si svolgesse nuovamente davanti ai nostri occhi. Evocato dai personaggi del film, dalle loro domande tra loro intrecciate sul senso della loro vita e del loro dolore, quel passato appare tale solo nella sua "eternità". Così la storia del "big bang" diventa paradossalmente un momento dell'elaborazione del lutto da parte della madre e il suo dolore ci appare non meno "abissale" e gigantesco dell'universo che ci si squaderna davanti. E tuttavia ciò nulla toglie alla potente "oggettività" di quelle immagini "cosmiche", sebbene soltanto nel racconto della vita concretamente e dolorosamente vissuta nel "presente" dai personaggi del film esse acquistino senso per noi. Questa "joyciana" coincidenza, in un unico tempo e in un unico spazio, della vita nel suo semplice eppure così misterioso fluire quotidiano da un lato e della indifferente immensità del mondo dall'altro, dell'infinitamente piccolo e dell'infinitamente grande, è in fondo ciò che questo straordinario artista ci restituisce attraverso un vertiginoso, ininterrotto flusso di immagini, nelle quali come oggettivati vediamo riflessi i vissuti e le memorie più profonde dei personaggi. Perfino nella immensità dello spazio, nella sua paurosa, terribile bellezza, di là dai confini della terra, riecheggiano le voci fuori campo dei personaggi, e con esse è la loro interiorità spesso più profonda e abissale a risuonare. Ma dal cielo il cinema di Malick finisce sempre per riportarci sulla terra, ovvero sul mondo così come esso si mostra a noi nel nostro rapporto vissuto e quotidiano con esso.  Forse è proprio questo atteggiamento di "apertura" al mondo, ovvero di totale "accettazione" del suo "essere" che incarna la figura della madre. La sua evocazione dell'amore come condizione stessa della felicità del vivere, come sintesi vivente di memoria e speranza, non è in questo senso in contraddizione con l'idea continuamente richiamata dal padre ai figli, della "cattiveria" del mondo, della "crudeltà" dell'esistere. "Voi lotterete sempre dentro di me" dice la voce fuori campo del figlio, idealmente rivolgendosi ad entrambi i genitori. Un conflitto che sebbene interiorizzato dal figlio si risolve tuttavia, nel primato della figura materna e dell'idea di "amore" da essa incarnata. "Amor matris, genitivo soggettivo e oggettivo. Questa è forse l'unica cosa vera della vita", pensava Stephen Dedalus nell'"Ulisse" di Joyce.

Salvatore Tinè

domenica 26 gennaio 2014

Senza Papi

28 aprile 2011 


Non credo che "Habemus papam" sia solo un film sulla fragilità umana. Credo che sia anche e forse in primo luogo un film sul potere. Non a caso segue di qualche anno "Il Caimano", un film che del potere rivelava le tante facce, quelle attraenti e fascinose come quelle più orrende e ripugnanti, più abissalmente distanti da ogni idea di giustizia e di  moralità. Il film parla di un papa che rifiuta la sua elezione ovvero la "scelta dello Spirito Santo" e della costernazione in cui questo gesto così radicale da rasentare l'assurdità getta le masse che pure del potere del papa hanno maledettamente bisogno. Dunque più che della fragilità il film ci parla dei limiti della autonomia degli uomini ovvero della loro capacità, si potrebbe dire parafrasando Immanuel Kant, di usare il loro intelletto e di decidere della loro vita, senza la guida di un altro. Il potere, infatti, non è solo coercizione; esso è anche guida, guida morale e spirituale, "egemonia", per dirla con Gramsci. Quella del  papa che nega se stesso mescolandosi in mezzo ad una folla di giovani che cantano e suonano in Piazza San Pietro è un'immagine straordinariamente poetica ma anche terribile. Significa che per quei giovani non c'è più una guida, che devono fare da soli, ricostruire da soli una società andata in pezzi, ripensare la loro vita senza più i riferimenti e gli schemi ideologici tradizionali. Lo scetticismo dello psicanalista, un'altra guida fallita, non è una vera alternativa: è solo la consapevolezza solo apparentemente ironica e leggera, della crisi nella quale ci troviamo. Il gioco della pallavolo è la metafora di una "leggerezza" terribile, quella di una vita senza più un senso predeterminato. E' cioè in fondo il modo in cui lo stesso psicanalista ironizza sulla illusorietà delle soluzioni cosiddette post-moderne, tutte centrate sull'idea che, proprio perchè senza un senso imposto da dio o da un'autorità che lo sostituisca, la vita possa trasformarsi in un "gioco" fine a se stesso: lo psicanalista che pure è riuscito a trascinare i cardinali in attesa del papa, a giocare un torneo di pallavolo rimane non a caso chiuso nel Vaticano insieme con quei cardinali un po' ingenui e bambini, come in un film di Bunuel, prigioniero del proprio "inconscio" come il papa lo è della propria "anima". Ma neanche la fuga del papa da San Pietro in una Roma di cui pure Moretti esalta la luce e la bellezza da cui è meravigliosamente avvolta, è veramente liberatoria. Non si esce dalla crisi dell'autorità, solo uscendo fuori da un palazzo diventato per lo stesso papa appena eletto  una prigione soffocante e claustrofobica. Lo "spettacolo" del potere deve continuare. Moretti riflette in fondo su questa essenza "barocca" del potere, in nessuna altra sua manifestazione più clamorosamente evidente che nel caso della Chiesa cattolica, gigantesca messa in scena di una autorità che si vuole sia politica che spirituale, "sacra rappresentazione" del potere. Perciò il papa è, deve essere per svolgere il suo ruolo, il più grande attore del mondo. La passione per il teatro del papa ha questo significato profondo e straordinariamente inquietante: il potere non è solo terribile e schiacciante per chi lo esercita e per coloro su cui viene esercitato ma può spesso essere solo una maschera vuota. Non a caso l'unico momento in cui vedremo il papa felice sarà  dentro un teatro, mentre da da spettatore applaude la performance di un attore pazzo. Ma è solo un'illusione; presto arriveranno i cardinali a riprenderlo, ad applaudire lui, pure seduto in un palco, ritornato attore. Il papa ritornerà nel palazzo con i cardinali, come la responsabilità di chi guida e governa gli impone. Ma il suo ultimo gesto sarà appunto quello di gettare la maschera. La conclusione del film non potrà allora che essere quell'inquadratura sulla finestra del Vaticano, vuota. Del "cambiamento" evocato dal papa nel suo primo e ultimo discorso nulla sapremo: né sapremo se esso alluda alla "fine" del potere così come lo abbiamo conosciuto nella storia o ad un'altra ancora sconosciuta sua figura, magari in un utopico mondo senza Papi.

Salvatore Tiné

Habemus papam



La scena madre di "Habemus papam" di Nanni Moretti è senz'altro da considerarsi quella in cui il protagonista del film, uno psicanalista, tenta di psicanalizzare il papa, colto da un attacco di panico subito dopo essere stato eletto. Una scena memorabile che vede un papa, per la prima volta "confessarsi" con uno psicanalista, sostituto e parodia insieme del prete e quindi della stessa figura "paterna" del papa, vicario del "Padre" eterno. Non a caso ne "La stanza del figlio" lo stesso Moretti interpretava il ruolo di uno psicanalista in crisi per l'improvvisa morte del figlio. Si direbbe che in quel film alla morte del figlio faceva seguito quella del padre, rimasto "solo"...psicanalista. Del resto l'identità tra Padre e Figlio è il cuore stesso del cristianesimo come religione della "morte di dio".  In questo senso "Habemus papam" è la continuazione ideale de "La stanza del figlio". "Confessando"  il papa, in "Habemus papam" lo psicanalista psicoanalizza infatti se stesso, e in primo luogo se stesso come padre: qualcosa dello psicanalista del film ricorda il prete de "La messa è finita", il suo sconforto, la sua impotenza. Apicella in quel film era diventato prete in fondo perchè non era riuscito a diventare padre. Forse il prete è un fallito in quanto tale, ovvero un un padre solo "spirituale" e quindi illusorio. Non più "onnipotente" del resto il padre non è più tale; la sua impotenza e fragilità ne delegittima ruolo e funzione. Come il sovrano, il padre è tale solo se "assoluto". Anticipando le dimissioni vere di Benedetto XVI, quelle immaginarie del papa morettiano si presentano in tal senso come la metafora di una epoca "post-edipica", nella quale tuttavia la ricerca di padri veri o presunti è tutt'altro che assente. Cosa era "il caimano" di un altro grande film di Moretti se non un'altra, ennesima incarnazione della figura paterna, una variante parzialmente parodistica ma non per questo meno tragica del Padre dell'orda primordiale di cui parlò Freud in "Totem e tabù", ovvero della sua tendenza al potere e al "godimento" illimitati?  In questo senso, il papa dimissionario di "Habemus papam" è l'"anti-Berlusconi" per eccellenza. E tuttavia le sue dimissioni sono forse soltanto immaginarie, soltanto il sogno di un potere effettivo e tuttavia soltanto "spirituale" come tale contrapposto a quello "politico", il sogno di una "impossibile" "paternità".

Salvatore Tinè.

Todo modo. Una discussione tra me e Dario Stazzone

22 aprile 2012
Salvatore Tinè

‎"Todo modo" mi sembra uno straordinario gioco di rispecchiamenti e di sdoppiamenti. Il pittore, scrittore di gialli, protagonista del romanzo è un intellettuale volteriano. Eppure egli finisce per rispecchiarsi proprio nella figura di Don Gaetano, personaggio tanto misterioso quanto inquietante. Come lui, anche il pittore cerca la verità di là dalle sue apparenze, sebbene ritenga che essa sia conoscibile solo con gli strumenti della critica e dell'indagine razionali. Ma Don Gaetano pensa che l'unica verità sia al fondo lo stesso mistero di Dio, quindi una verità di là non non solo dalle sue apparenze ma anche da ogni distinzione tra bene e e male, tra giusto e ingiusto. In questo senso, come e perfino più lucidamente dello stesso protagonista del romanzo, doppio di Sciascia, Don Gaetano ha colto l'essenza "impolitica" del cristianesimo: in quanto religione della caduta e della morte, il cristianesimo è insieme, paradossalmente, critica e "giustificazione" del potere. E' proprio a tale concezione del potere che Sciascia sembra contrappone il "giacobinismo" del commissario di polizia, la sua religione della Giustizia da realizzarsi tagliando le teste. Il poliziotto è convinto che l'intellettuale illuminista la pensi come lui. Ma non pare che tale convinzione sia condivisa dallo stesso Sciascia.



Dario Stazzone

La tua lettura è acuta ed affascinante. Ma la distinzione tra i due uomini non è sempre così netta, il pittore razionalista è ammirato da Don Gaetano ed è certamente, ripetutamente spiazzato dalla sua morale molinista, dall'essenza "impolitica", direi crudamente cinica delle sue parole e delle sue azioni, sopratutto se riferite alla stessa chiesa cattolica. Il pittore si proietta nel gioco dell'intelligenza con malcelata ammirazione per il mefistofelico Don Gaetano: l'ordine delle somiglianze sciasciano, i riflessi demonici degli occhiali hanno senso in questa prospettiva perturbante. E lo stesso pittore sembra cedere, se non alla religione "giacobina" della giustizia, ad una pulsione molto più profonda e irrazionale.

Salvatore Tinè

Sono d'accordo con te. Ci sarebbe anche da indagare sulla figura del magistrato, del procuratore Scalambri, una figura intermedia tra quelle del poliziotto e del prete. Mi colpisce che l'intellettuale sia più vicino al commissario che al procuratore. Mi viene fatto di pensare a quanto scrive Benjamin sul potere della polizia, potere che conserva e che insieme sospende il diritto. Sciascia non vuole la "ghigliottina" evocata dal commissario come metodo per estirpare il delitto e tuttavia la figura di Scalambri è quella più scialba e incolore del romanzo, sempre preoccupato di chiudere al più presto l'indagine per non disturbare il potere e i suoi complicati equilibri. C'è insomma qualcosa che accomuna la "curiosità" dell'intellettuale, capitato apparentemente per caso in quello strano, orrendo albergo, e il sogno di un cambiamento tanto radicale quanto sanguinoso, del commissario ormai vicino alla pensione

Dario Stazzone 

Ecco, volevo dirti proprio questo, ma mi sono fermato temendo di rivelarti il finale che poi non è finale del giallo o antigiallo di Sciascia. Siciliano, Pasolini e molti altri commentatori concordano nel sostenere che il pittore abbia ucciso don Gaetano. Se così fosse il protagonista cede al sogno sanguinoso o forse, più irrazionalmente, alla pulsione ed al desiderio di uccidere il religioso che nella sua scepsi si fa veramente un doppio perturbante, e che, nelle ultime pagine, è investito di una singolare luce cristologica e martiriologica.

Salvatore Tinè 

Io ho pensato che l'ipotesi che sia stato il pittore a uccidere Don Gaetano sia piuttosto ironica, anzi autoironica visto che è lo stesso pittore ad evocarla. Ma ciò non toglie che quella ironia rifletta anche una desiderio, una pulsione inconfessata e inconfessabile del protagonista. Non avevo invece pensato a Don Gaetano come figura cristologica. Ti ringrazio per questa tua indicazione: peraltro potrebbe spiegare la pagina del romanzo in cui il prete sollecita il pittore a fare un ritratto del Cristo.

Dario Stazzone 

Esatto, ricordo una serie di occorrenze cristologiche nelle ultime pagine del libro. Il romanzo è incredibilmente complesso e a mio giudizio avrebbe poco significato se lo si leggesse sul piano di una contrapposizione rigorosa tra i due uomini. Don Gaetano è per il pittore perturbante nel senso freudiano del termine. Questo spiegherebbe la pulsione ad ucciderlo, ossia a sopprimere una parte di sé. Dovrei comunque rileggerlo, ogni parola va soppesata con attenzione. Sciascia nel suo momento più alto, che fa i conti con sé stesso, con la razionalità illuminista e il gesuitismo spagnolesco.

Salvatore Tinè 

Bella l'ipotesi che uccidendo Don Gaetano, il pittore avrebbe ucciso una parte di se. Penso anch'io che via sia una contrapposizione tra la razionalità illuministica e il gesuitismo spagnolesco: in realtà proprio radicalizzata la prima sembra rovesciarsi nel secondo. La ragione vuole distinguere e contrapporre: perciò essa deve affilare le sue "armi", tendere al massimo della precisione e della sofisticazione. Ecco in questa sofisticazione c'è tutto il pirandellismo di Sciascia: la ragione è al fondo questo tentativo di ripercorrere all'indietro, come si dice proprio all'inizio del romanzo, un'intera "catena di causalità". Ma c'è sempre "un anello che non tiene", direbbe Montale.

giovedì 23 gennaio 2014

La forma cinematografica


La “teoria generale del montaggio” di Sergej Ejzenstejn deve essere considerata non soltanto una teoria del linguaggio cinematografico, ma anche come una vera e propria estetica generale, ovvero una straordinaria riflessione teorico-politica sul tema della "forma". Sintesi di tutte le arti, il cinema è in grado di raggiungere per il grande regista sovietico il fine che ciascuna di esse ha sempre ma invano perseguito, ovvero di rappresentare insieme, simultaneamente, il mondo interiore dell’uomo e quello esteriore. Per Ejzenstejn, James Joyce è stato, nell’ambito della letteratura, lo scrittore che più degli altri ha tentato di avvicinarsi a tale fine, fino a spezzare i limiti stessi della letteratura. “L’originalità di Joyce – scrive in un suo scritto, intitolato “Traguardi”, del 1939 - si rivela nel suo tentativo di risolvere il problema con un metodo speciale: scrivere su due piani, rappresentando lo svolgersi degli avvenimenti contemporaneamente al modo particolare in cui questi passano attraverso la coscienza e i sentimenti, le associazioni e le emozioni di uno dei suoi personaggi principali. Qui la letteratura raggiunge, come mai era riuscita a far prima, una palpabilità quasi fisica. All’arsenale di metodi e influenze letterarie s’è aggiunta una struttura compositiva che chiamerei ‘ultralirica’. Ché, mentre la lirica, come le concezioni figurate, ricostruisce la logica interiore del sentimento, Joyce modella questa sull’organizzazione fisiologica delle emozioni e sull’embriologia della formazione del pensiero.” In tale tendenza a forzare i limiti della forma letteraria, Ejzenstejn individua l’espressione della impossibilità di superare quelli della stessa vita umana nell’ambito dell’ordine capitalistico. Di qui il suo carattere puramente “distruttivo” e non anche “creativo": la letteratura, infatti, può tentare di raggiungere o raggiungere effettivamente una “palpabilità quasi fisica” solo a costo di negare, ovvero "distruggere" se stessa come rispecchiamento della realtà, ponendosi essa stessa come "realtà". Perseguendo una struttura compositiva “ultralirica” Joyce aveva tentato di superare l’idea che l’arte rispecchi il mondo,  senza tuttavia poter attingere il terreno materiale della prassi su cui solo è possibile la sua trasformazione materiale. Tale “ultraliricità” non mette in discussione soltanto l’interiorità del sentimento svelandone l’organizzazione fisiologica ma anche la stessa maniera tradizionale di intendere l'autonomia del "pensiero" di cui Joyce mostra le radici corporee, mettendo a nudo l'embriologia della sua formazione. Il suo "Ulisse" è il prodotto di una grandiosa operazione "intellettuale" di scomposizione e di analisi della realtà del mondo e dell'uomo, Siamo di fronte insomma ad una rottura dei confini che separano l’interiorità dall’esteriorità, i sentimenti dalla loro corporeità, il pensiero dalla sensibilità, così come l'arte dalla scienza. In tal modo l'"Ulisse" di Joyce aveva aperto la strada al cinema, cioè ad un nuovo linguaggio eminentemente "intellettuale" in quando fondato non soltanto sulla riproduzione fotografica della realtà fisica ma anche  sulla scomposizione e sulla ricomposizione delle sue immagini. Il cinema attinge quella "palpabile fisicità delle cose" ricercata da Joyce attraverso la riproduzione delle cose stesse e non più attraverso un sistema di segni, sempre inevitabilmente "astratto". Ma proprio in tal modo esso riesce ad attingere un superiore livello di conoscenza e di approfondimento intellettuale della realtà. Alcuni dei maggiori registi sovietici dell'epoca di Ejzenstejn tentarono di valorizzare proprio i caratteri nuovi ed inediti del linguaggio del cinema: si pensi al "cine-occhio" di Vertov, da Deleuze definito "la pura visione di un occhio non-umano, di un occhio che sarebbe nelle cose". Per Ejzenstejn si trattava tuttavia di volgere in senso "creativo" e non meramente "distruttivo" la vera e propria "rivoluzione" formale che Joyce aveva rappresentato nell'ambito della letteratura. Del resto lo stesso Joyce aveva tentato con l'Ulisse di attingere una nuova concezione dell'unità organica dell'opera d'arte, sforzandosi di modellarla su quella dell'uomo e del suo "corpo". Nella "Teoria generale del montaggio", Ejzenstejn definisce l'"Ulisse" di Joyce un "romanzo-corpo", sulla base di una teoria del montaggio che lo faceva risalire addirittura al mito del corpo di Dioniso. In questo senso nella teoria e nella pratica artistica del regista sovietico, l'arte non è più il goethiano "specchio del mondo", ovvero il suo rispecchiamento da parte dell'uomo, quindi pur sempre "soggettivo", filtrato proprio da quella "logica interiore del sentimento" che Joyce aveva letteralmente mandato in frantumi. In realtà, dopo la vera  e propria esplosione delle "forme" realizzatasi nei romanzi maturi di Joyce, solo il cinema avrebbe potuto arrestare "salvare" l'arte, da una crisi potenzialmente mortale, espressione della più generale crisi del mondo borghese. “Soltanto il cinema – scrive Ejzenstejn - può prendere come base estetica non solo la statica del corpo umano e la dinamica della sua azione e della sua condotta, ma una gamma infinitamente più ampia, che riflette il movimento multiforme e i mutevoli sentimenti e pensieri dell’uomo. Non si limita a rappresentare sullo schermo le azioni e il comportamento dell’uomo, ma le compone in un quadro dove si riflettono la coscienza e il sentimento del mondo e della realtà.” Com’è noto Ejzenstejn ha difeso con forza in polemica con Vertov l’idea dell’”artisticità” del cinema. Eppure la sua concezione di tale “artisticità” sembra “distruggere” i limiti della tradizionale concezione dell’arte come rispecchiamento o rappresentazione della realtà da parte di un soggetto rigidamente contrapposto ad essa. Il montaggio dinamico e conflittuale di Ejzenstejn mira infatti a cogliere la la “palpabile fisicità” della “realtà” proprio attraverso e di là dalla apparente "oniricità" delle immagini del cinema, di là da ogni immanenza a una qualche trascendentale coscienza, come da ogni  ogni barriera tra "percezioni" e "concetti", tra "sensibilità" ed "intelletto". E tuttavia è pur sempre una superiore visione intellettuale che presiede al montaggio delle immagini, a garanzia del carattere comunque linguistico e artistico del cinema. Il più ampio "quadro" in cui il cinema "compone", sulla base di quello che Ejzenstejn definiva un "montaggio intellettuale", una gamma infinitamente più ampia" della realtà della natura e dell'uomo, proprio dopo averla preliminarmente "scomposta" e analizzata, è in fondo la stessa "totalità" del mondo, la sua "immagine" integrale, la sua, si direbbe, "immagine-corpo".


Salvatore Tinè

domenica 19 gennaio 2014

Nella neve


NELLA NEVE


Edere? stelle imperfette? cuori obliqui?
Dove portavano, quali messaggi
accennavano, lievi?
Non tanto banali quei segni.
E fosse pure uno zampettio di galline-
se chiaro cantava l'invito
di una bava celeste nel giorno fioco.
Ma già pioveva sulla neve, duro si rifaceva il caro enigma.
Per una traccia certa e confortevole
sbandavo,tradivo ancora una volta.

Vittorio Sereni

Le strade della vita che avremmo potuto prendere e non abbiamo preso: sembra questo il tema della poesia di Sereni. Quindi il conflitto tra ciò che non conosciamo ma che potrebbe o avrebbe potuto rinnovarci e il tenace legame con tutto ciò che ci è vicino, familiare, il "duro" ma anche "caro enigma" della nostra vita quotidiana. Eppure in una strana, grigia giornata, di neve e poi di pioggia, una pur debolissima luce celeste sembra addirittura "cantare", invitando il poeta a una nuova, non mai conosciuta vita, a nuove, ignote strade, che non prenderà. Poesia delle "occasioni" quella di Sereni e insieme e ancor più del nostro mancare ad esse. Le strade non prese sono anche le occasioni mancate, spesso per un mancato coraggio, per timore e rinuncia del rischio che ad ogni avventura si accompagna. Non sono le occasioni a "mancarci" allora, ma, più tragicamente, siamo noi a non saperle cogliere, a mancare ad esse. Ma "tradendole", per ciò che è "certo" e "confortevole", non soltanto finiamo per tradire noi stessi, la parte più profonda, forse perchè più inquietante e perciò più vera, di noi stessi, ma finiamo perfino per perderci. Dunque ci si perde proprio restando avvinti al "confortevole", come se il vero "enigma" fosse solo quello che sempre vi si annida. Il poeta sembra aver perso e per sempre il senso del rischio e dell'avventura che conduceva Leopardi ad abbandonarsi dolcemente, sebbene solo nel pensiero, nel mare dell'infinito, perfino naufragandovi. Di qui il finale "sbandare" del poeta, proprio nel suo ritrarsi leopardianamente "spaurito" "ancora una volta" di fronte ai più inquietanti messaggi di quelle strane forme disegnate sulla neve. Solo dopo il loro instantaneo svanire, l'immediato sopravvenire della pioggia che le ha già cancellate, il poeta si avvede del suo ennesimo "sbandamento". La poesia ha colto l'occasione: ma questa è più veloce di lei. Come il pensiero per Hegel, forse anche la poesia per Sereni arriva sempre troppo tardi.


Salvatore Tiné


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venerdì 17 gennaio 2014

Capitale umano


"Il capitale umano" di Paolo Virzì è un film interessante, sicuramente il più importante e impegnato del regista toscano. E' una commedia feroce e a tratti perfino crudele che tuttavia ad un certo punto si volge apertamente in tragedia. E' ambientato in Italia, in un immaginario, gelido paesino della Brianza, ma non vuole essere l'ennesimo film sull'Italietta cinica e corrotta. Non a caso è tratto da un romanzo di uno scrittore americano ambientato negli Stati Uniti. La Brianza, la sua economia, la sua società appaiono nel film tutt'altro che delle realtà provinciali o locali. L'umanità che Virzì ci racconta, quella "borghese" delle famiglie appartenenti alle classi ricche come quella propria del ceto medio impoverito e impaurito dalla crisi è il vero "capitale umano" cui ci rimanda il titolo del film. E quella tra "borghesia" e "ceto medio" è l'unica dialettica sociale di cui il film parla: il cameriere che vediamo morire investito da un suv in una strada di perifieria nella prima scena del film è l'unica figura "proletaria" che ci sarà dato vedere nel film, non a caso solo appena visibile e subito scomparsa come pura "vittima". Si uccide solo per caso, così come si muore solo per l'indifferenza degli altri, in una società in cui la violenza si fa tanto più atroce quanto meno apparentemente "tragica" e "visibile". E cosa è il mercato se non il regno della violenza invisibile, nascosta dietro un'economia sempre più astratta e virtuale, che ci appare soltanto come un "gioco": un gioco metaforizzato proprio dalle partite di tennis in cui un magnate locale e il piccolo, buffonesco immobiliarista brianzolo finiranno per diventare soci in affari e falsamente amici, scommettendo proprio sulla crisi e la rovina degli altri. I morti sulla strada di un gioco pericoloso quanto insensato anche quando si svolge nel rispetto delle regole e della leggi, restano così ai margini, invisibili, non visti. Nessuna consolatoria dialettica "generazionale", ovvero nessun conflitto tra padri e figli sembra scandire la vicenda del film: in realtà la figlia dell'immobiliarista fraudolento e il figlio del magnate della finanza, solo apparenti "fidanzati", non sono per niente "migliori" dei loro rispettivi padri: chiusi nelle angustie del loro privato sembrano non accorgersi della quotidiana catastrofe delle famiglie di cui pure sono parte, come delle loro vite tanto frenetiche quanto insensate. In questo senso, il titolo del film sembra alludere più in generale all'"umanità" del "capitale", ovvero delle società "globalizzate" di oggi, dominate da un capitalismo sempre più finanziario perché in crisi e in preda alla disperazione e che tuttavia proprio sulla crisi punta per continuare a fare profitti e sopravvivere, secondo una logica "vampiresca" che la "critica dell'economia politica" del vecchio Marx aveva colto molto bene. Il "capitale umano" è allora certamente anche l'umanità moralmente e materialmente devastata dal capitale. E tuttavia tale devastazione non sembra intaccare minimamente la logica che la determina. "Avete vinto scommettendo sulla perdita dell'Italia" dice la moglie del finanziere brianzolo al marito di nuovo trionfante. La "vittoria" finale del protagonista e del suo gruppo è dunque la metafora della "vittoria" della logica capitalistica in quanto tale. Dopo il "lieto fine", una didascalia ci informa della somma di denaro con cui la famiglia del cameriere morto in un incidente per non essere stato soccorso è stata risarcita e che il risarcimento si chiama tecnicamente "capitale umano". In quella nuda cifra, valore di scambio della vita umana, è per l'appunto riassunta come in un geroglifico l'umanità del capitale.

Salvatore Tiné

giovedì 16 gennaio 2014

Antigone e il desiderio

12 novembre 2013 


Difficile non pensare ad Antigone vedendo "La vita di Adele" di Abdel Kechiche. Il personaggio del mito greco è non a caso esplicitamente citato in una scena del film. Ma è in particolare all'interpretazione lacaniana dell'Antigone sofoclea che mi è venuto fatto di pensare: un'interpretazione, com'è noto, tutta centrata sul tema della "fedeltà al proprio desiderio".  La ragazza adolescente protagonista del film, Adele, ci appare infatti come un altro esempio di totale, ostinata volontà di non rinunciare al proprio desiderio. C'è un che di "assoluto", di intransigente nella sua ricerca di se stessa, nella rivendicazione della libertà della propria persona come del proprio corpo. Ma, nonostante gli espliciti riferimenti a Sartre e all'esistenzialismo che ritornano nel film, la scoperta di se stessa e della sua libertà che scandisce la vicenda di questa piccola Antigone sembra radicarsi nella purezza e nella mera vitalità del proprio corpo piuttosto che nell'"angoscia" dell'esistere. La fame di piacere che sembra animare il suo corpo non ha niente di morboso o deviato. Adele e il suo corpo sono un tutt’uno: nessuno scarto, nessuna “riflessione” di una qualche "coscienza" sembra mai sospendere questa sostanziale, “ontologica” identità. Una identità che forse solo il cinema, o almeno quello che Pasolini avrebbe definito “cinema di poesia”,  come “linguaggio stesso della realtà” e quindi dei corpi è in grado di restituirci attraverso la pura fisicità delle immagini e del loro movimento. Eppure il film di Kechiche è una riflessione tormentassima sul "mistero" di questa in fondo solo apparente "immediatezza" dei corpi. L’amore è incontro, tanto “irrazionale” e “insensato” quanto casuale. L’amore di Adele per Emma  nasce in modo fulmineo dalla mera casualità di uno sguardo reciproco: due persone possono amarsi senza che l'una sappia niente dell'altra. Pure, "il caso non esiste"  dice Emma ad Adele. In fondo, non possiamo non muovere da questo segreto presupposto quando cerchiamo di cogliere l'amore nella sua essenza, di là dall'apparente "casualità" dell'"incontro" da cui pure sempre si origina. La ricerca del suo senso ritorna ma, per superarlo, a questo mistero impenetrabile dell’origine che è tuttavia il suo incanto. Eppure è la stessa Emma ad evocare nel film l'esistenzialismo di Sartre, centrato proprio sull'idea della contingenza dell'esistere. Non esiste un senso dell'esistenza che la trascenda: dunque... "il caso esiste". Emma è una pittrice: cosa è la pittura se non la ricerca del senso della realtà e della vita, di là dalla loro "fisicità", dalla loro "oggettiva" concretezza. In tal senso la pittura si contrappone al cinema, alla sua totale immanenza alla vita. E' questa immanenza che Kechiche si sforza di cogliere, raccontando dell'incontro e dello scontro tra il tormentato "intellettualismo" di Emma e la verginale e sensuale insieme fisicità di Adele. Un contrasto reso tanto più evidente dalla differenza di età e di maturità tra le due giovani donne. Le lunghe estenuanti sequenze erotiche raccontano certo l’amore come ricerca dell’assoluto, ma “solo” come tensione impossibile e insostenibile alla fusione dei corpi, al superamento del limite non trascendibile che sembra separarli come  "monadi". Forse l'amore è proprio questa "impossibile" armonia tra monadi, per niente leibnizianamente “prestabilita” per quanto sempre spasmodicamente, dolorosamente cercata dai corpi che si amano. “Il rapporto sessuale non esiste” ha detto una volta Lacan. Ed è proprio la solitudine del desiderio che sembra evocare l'ultima inquadratura del film, il finale che mostra Adele camminare sola lungo una strada, al culmine della sua “educazione sentimentale”, finalmente donna e tuttavia fedele come prima a se stessa e al suo desiderio.

Salvatore Tinè

mercoledì 15 gennaio 2014

L'Anti-Amleto


Nella postilla all'edizione italiana del suo "Lenin", del 1967, Lukacs completava la sua riflessione giovanile sulla figura e l'opera teorica e pratica del grande rivoluzionario russo con un geniale ritratto della sua personalità, ovvero del suo "tipo umano". Egli sottolineava come la possibilità di un contrasto tra due convinzioni o sentimenti entrambi fondati sulla realtà e tale da mettere in pericolo "l'interiore esistenza umana" di un individuo in Lenin non si desse mai. Di qui il essere sempre "pronto", "preparato" all'azione: un carattere della sua personalità che ne fa l'"Anti-Amleto" per eccellenza. Il Lenin di Lukacs ci appare in questo senso come forse l'unica, vera incarnazione di quell'"uomo totale" al cui avvento alludeva il giovane Marx nella "Introduzione alla filosofia del diritto di Hegel" sintesi vivente di "teoria" e "prassi", di "pensiero" e "azione". Lukacs ricorda le parole di Amleto ad Orazio: "...beati coloro/ in cui sangue e giudizio son così ben  mescolati/ che essi non servono da zampogna su cui il dito della Fortuna/ possa suonare il tasto che vuole". Al contrario che nel principe di Danimarca, "sangue" e "giudizio", sono invece, per Lukacs, "giustamente mescolati" in Lenin, proprio perchè "la sua conoscenza della società era rivolta in ogni momento all'agire che proprio allora era socialmente necessario". Nella riflessione del pensatore ungherese, la figura del rivoluzionario russo si staglia così nella storia del mondo come quella di un grande uomo cui nella vita è riuscito di "realizzare moltissimo, di realizzare l'essenziale." Difficile non pensare che dietro la citazione di Shakespeare non si celi un'ambigua o forse addirittura tragica allusione a se stesso, ovvero al "tipo umano" proprio da lui incarnato del borghese aristocratico parzialmente rimasto tale anche dopo avere "tradito" la sua classe ed essere diventato comunista e rivoluzionario. Ma forse ogni individuo comunista è un uomo "interiormente" scisso, un almeno potenziale Amleto, con l'unica eccezione di Lenin, se il ritratto lukacsiano del suo tipo umano è da considerarsi corretto. E', in questo senso, un nuovo ideale etico di "saggezza" quello contenuto nell'opera di Lenin: una saggezza, tuttavia, non più solo non più solo contemplativa come quella antica, ma sempre "pronta all'azione", attualissima in un'epoca in cui, dice Lukacs, "la manipolazione divora la prassi e la deideologizzazione divora la teoria": Così, egli sembra volgersi alla figura di Lenin come al suo forse irraggiungibile ma indispensabile ideale regolativo di uomo "totale", in grado di conciliare sempre, perfino nella sua interiorità più profonda, la conoscenza della verità e l'impulso all'azione, il freddo rigore della scienza e il semplice amore della vita."Lenin- ha scritto Tito Perlini nel suo "Lenin"- è per Lukacs, l'anti-Amleto ed è insieme ciò di cui Amleto aveva nostalgia e verso cui disperatamente tendeva, ciò che egli trovava incarnato nella figura del padre: la mescolanza di sangue e intelletto che consente l'unità di pensiero e azione, l'accordo tra coscienza e impulso."

Salvatore Tinè

Passione


"L'uomo - scrive Marx nei suoi "Manoscritti economico-filosofici" del 1844 - come essere oggettivo sensibile è quindi un essere passivo, e poiché sente questo suo patire, è un essere appassionato. La passione è la forza essenziale dell'uomo che tende energicamente al proprio oggetto." Basterebbe questa affermazione per mostrare tutta l'infondatezza dell'idea "heideggeriana" secondo cui il materialismo di Marx consisterebbe nella riduzione dell'uomo ad "animale da lavoro", ovvero nella identificazione della sua essenza con una "soggettività" astratta e "incondizionata. In realtà già il giovane Marx procede ad un critica radicale di ogni nozione idealistica dell'uomo come "pensiero puro" o "autocoscienza". Una critica che sembra muovere da premesse filosofiche totalmente spinoziane, come l'idea della essenziale, insopprimibile naturalità dell'uomo, quindi del suo essere un "ente oggettivo", "pars naturae". Nessuna concettualizzazione è data di qualunque forma di attività umana che non rinvii a questa fondamentale condizione di "passività" naturale dell'uomo. Solo che il giovane Marx non concepisce in termini tradizionalmente metafisici tale condizione. E' proprio infatti il suo essere essenzialmente passivo a fare dell'uomo un essere "appassionato". L'attività dell'uomo è esattamente la sua passione, ovvero la sua tensione verso l'oggetto, verso una realtà che gli è esterna e di cui egli fa parte. Una attività reale, effettiva è tale, dunque, solo se passiva e insieme appassionata. Ben prima di Heidegger e certamente non nei suoi termini astrattamente ontologici e puramente fittizzi, Marx ha superati il tradizionale dualismo metafisico tra "soggettività" e oggettività", tra "uomo" e "natura". Ed è proprio in tale effettivo superamento che Marx sempre riprendere Spinoza, il suo grandioso monismo.  "Se con la sua alienazione -scrive Marx - l'uomo reale, corporeo, piantato sulla terra ferma e tonda, quest'uomo che espira ed aspira tutte le forze della natura, pone le sue forze essenziali, reali ed oggettive, come oggetti estranei, questo atto del porre non è soggetto; è la soggettività di forze essenziali oggettive, la cui azione deve essere quindi anch'essa oggettiva. L'essere oggettivo opera oggettivamente; né opererebbe oggettivamente, se l'oggettività non si trovasse nella determinazione del suo essere. Crea, pone solo oggetti, perchè è posto da oggetti, perchè è originariamente natura. Dunque nell'atto del porre esso non passa dalla sua attività pura ad una creazione dell'oggetto, ma il suo prodotto oggettivo non fa che confermare la sua attività oggettiva, la sua attività come attività di un essere naturale oggettivo." Non più dunque un "soggetto" che "pone" un oggetto" ma un'unica "attività oggettiva", "passività" che in quanto tale si fa "passione", tensione energica verso l'oggetto. E' forse a partire da queste formulazioni che occorrerebbe partire per comprendere il senso del rovesciamento materialistico della dialettica hegeliana. L'attività dell'uomo non sembra scaturire infatti dalla "negazione" della sua condizione di "passività", ovvero dalla "negazione della negazione" ma piuttosto dalla positiva'"affermazione" di tale condizione. 

Salvatore Tinè

martedì 14 gennaio 2014

L'amore equivoco


Cerco un brano dell'"Ulisse" di Joyce. Sfoglio il libro e non resisto alla tentazione di rileggerne alcuni brani che avevo sottolineato in precedenti e ripetute letture. Mi imbatto in alcuni passi in cui Bloom ricorda Molly, il suo amore per lei, la sua passione fisica, in fondo, nonostante tutto, ancora viva. Il senso della carnalità dell'amore è fortissimo in Joyce: nessuno come lui è riuscito a restituircelo trasformandolo in scrittura, in una sorta di "musica" fatta di parole, dandogli una "forma" che tuttavia non lo spiritualizzi, non lo sublimi. In questo senso, nonostante le apparenze, Joyce mi appare tutto il contrario di Wagner, pure molto amato dallo scrittore irlandese che da lui, ovvero dalla sua musica ininterrotta e magmatica, certo attinse non poco. Per contrasto ripenso a "La montagna incantata" di Mann, alle grandi pagine il cui lo scrittore tedesco racconta dell'amore tra il giovane Castorp e Claudia Chauchat, e in particolare a quella, indimenticabile, molto "wagneriana", di spasmodica quasi insostenibile tensione lirica e sensuale, del loro bacio "russo". Un "bacio sulle labbra" che, in una una strana ambigua luce di sogno, appare come il culmine infine raggiunto di una lunga, interminabile notte "tristaniana". E ripenso a come lo stesso Mann commentava quel bacio, la sua ambiguità: " A parer nostro, voler distinguere nettamente, in cose d'amore, fra timorato e appassionato, è bensì un'impresa analitica, ma- per ripetere le parole di Castorp- 'sommamente balorda' e perfino ostile alla vita. Che vuol dire nettamente? che cos'è il senso ambiguo? Noi francamente ce ne ridiamo. Non è forse un fatto grande e buono che la lingua possieda una parola sola per tutti gli aspetti che vi si possono comprendere-dal più timorato al più carnale e concupiscente? Qui sta il perfetto univoco nell'equivoco, perchè l'amore non può essere non corporale nell'estrema timoratezza, né non timorato nell'estrema carnalità, esso è sempre se stesso; sia come scaltro attaccamento alla vita, sia come suprema passione, è il consenso col mondo organico, il commovente e voluttuoso abbraccio di ciò che è destinato a corrompersi,...anche nella più ammirevole e più furiosa passione appare certamente la charitas. Senso ambiguo? Ma lasciate, Dio buono, che il senso dell'amore sia ambiguo! Se è ambiguo, vuol dire che c'è vita e umanità, e chi per questo stesse in pensiero, dimostrerebbe una desolata mancanza di scaltrezza.". In fondo nel testo di Mann citato c'è una fondamentale contraddizione: da un lato si afferma l'"univocità" del termine "amore", ovvero l'unicità del suo senso, a prescindere dai vari caratteri e dalle varie tipologie di cui l'amore è suscettibile e dall'altro si riafferma la sua sostanziale "ambiguità", ovvero la sua fondamentale "equivocità": per quanto "perfetto" l'univoco" dell'amore non può mai disgiungersi dal suo "equivoco": penso alla demonica ambiguità della pur verginale purezza di Ottilia ne "Le affinità elettive" di Goethe su cui Mann non a caso ha scritto un memorabile saggio. L'amore e perfino le sue più sublimi passioni partecipano pur sempre della distruttiva caoticità delle potenze della natura, al centro della tragica riflessione di Goethe in quel grande romanzo. Ecco forse è proprio questa misteriosa quanto "distruttiva"  equivocità dell'amore, per Mann, sempre "timorato" oltre che teso verso ciò che "è destinato a corrompersi", che non troviamo mai nella pagina di Joyce, nella sua totale, univoca immanenza al fluire della vita e non certo della sola "coscienza".
Ecco la vera,"perfetta univocità" dell'amore, forse spinoziano riflesso della "perfezione" del mondo, è forse l'"unica" sostanza" dell'"erotismo" joyciano.

Salvatore Tinè

lunedì 13 gennaio 2014

Joyce e Mann.

"Mentre scrivo-leggiamo nella conclusione di Tonio Kroeger-il mormorio del mare sale fino a me e io chiudo gli occhi. Guardo in un mondo non ancora nato, soltanto abbozzato, che cerca ordine e forma..." Ancora una volta leggo Mann ma penso a Joyce: anche ne "La spiaggia" del suo "Ulisse", davanti al mare di Sandycove, Stephen Dedalus, artista come Tonio Kroeger, chiudeva gli occhi e "guardava", in dubbio sulla realtà esterna del mondo, ma forse a differenza del suo omologo manniano ansioso di coglierla e afferrarla, di là da ogni sua illusoria, solo superficiale visione, nella concretezza dello spazio e del tempo, "forme" e "ordine" dell'essere."Stephen chiuse gli occhi per sentire le sue scarpe schiacciar scricchiolanti marami e conchiglie. Ci cammini attraverso comunque. Io lo faccio. un passo alla volta. Un brevissimo spazio di tempo attraverso brevissimi tempi di spazio. Cinque, sei: il nacheinander. Esattamente: è questa è l'ineluttabile modalità dell'udibile.""Un mondo non ancora, nato, soltanto abbozzato" e perciò tragicamente privo di ordine e forma, mera "possibilità": questo forse la sostanza poetica dell'arte di Mann; il mondo "già nato" perchè mai nato ma eterno, ovvero già dato, duro, impenetrabile ma meravigliosamente, terribilmente presente, spinoziana "sostanza", quello dell'arte di Joyce.

Salvatore Tinè

domenica 12 gennaio 2014

Io e te


4 novembre 2012 
Un ragazzo di quattordici anni, Lorenzo e una ragazza di ventiquattro, Olivia, figli dello stesso padre, si incontrano per caso dentro una cantina. In quel luogo chiuso e sporco, Lorenzo si è nascosto dai genitori per proteggersi dalla vita, dalla paura di diventare "adulto". Olivia, invece, invece, la vita l'ha già vissuta fin troppo: è una tossica e odia la madre del ragazzo, che le ha "rubato" il padre. Se il suo fratellastro è chiuso, timido introverso, lei manifesta apertamente i propri tormenti, le proprie inquietudini, a tratti perfino in modo aggressivo e violento. L'incontro tra i due giovani vede così scontrarsi due "solitudini". Impossibile non pensare a Ultimo tango a Parigi, all'incontro esplosivo tra un uomo maturo ma già finito, un vero e proprio naufrago della vita, Paul, e una giovane donna, Jeanne, inquieta e insoddisfatta. "Ultimo tango" raccontava l'incontro e lo scontro tra l'impulso autodistruttivo e nichilista di quell'uomo, privo ormai di ogni effettiva ragione di vita, con l'esuberante vitalità di una giovane donna ribelle alle convenzioni e alle coercizioni della "normalità" di una vita "borghese". Olivia sembra avere qualcosa di Paul e insieme qualcosa di Jeanne: è "autodistruttiva" come Paul, ma ancora troppo giovane per essere "finita". La sua giovinezza, la sua tenera e selvaggia sensualità, la prorompente fisicità del suo corpo, il suo stesso temperamento istintivo e ribelle la fanno piuttosto somigliare alla protagonista femminile di Ultimo tango. Ma se nel film del 1972, in uno squallido ma magico appartamento parigino, Jeanne si imbatteva in un uomo al di là della maturità, già alla vigilia della fine ma non privo di qualche tratto "paterno", nella cantina in cui si nasconde il fratellastro, Olivia si imbatte, invece, in un ragazzo non ancora diventato uomo, ancora al di qua del difficile e tormentoso passaggio dalla prima adolescenza alla maturità della vita. Significativa in tal senso la prima inquadratura del film in cui vediamo Lorenzo con il viso abbassato di fronte al suo psicanalista che lo interroga. Lorenzo non si lascia guardare e a sua volta si rifiuta di vedere. Il primo piano sul suo sguardo apparentemente freddo, indifferente ricorda un'analoga inquadratura di Arancia meccanica sugli occhi del protagonista maschile di quel film, Alex, il cui volto non è peraltro privo di una qualche somiglianza con il giovanissimo attore che interpreta Lorenzo. Alla domanda dello psichiatra che gli chiede cosa significhi per lui "normale", egli risponde "niente": come il vampiro protagonista del romanzo che portera con sé nella cantina, anche lui ha, in fondo, paura di essere "annientato" dalla "luce del sole", ovvero dalla realtà stessa del mondo. Perciò la sua curiosità si volge verso la semplice, muta vita degli insetti e dei pesci. Le uniche forme di "società" che lo interessano sono quelle "animali". Il rapporto con essi è l'unico infatti che non metta in discussione la sua autoreferenzialità; esso è forse l'unica modalità di relazione possibile per un ragazzo che appare affetto da una tipologia di narcisismo, apparentemente non meno "psicopatica", come la definisce la stessa sorella, di quella che caratterizzava il giovane Alex di Arancia meccanica, sebbene tutt'altro che violenta e distruttiva. Tuttavia, la sua vita sembra proporre una diversa "visione" della realtà, uno sguardo alternativo su di essa. In cantina, porta con sé una lente di ingrandimento con cui osserva da vicino le sue amate formiche, la loro operosa vita in comune. Viene in mente la celeberrima sequenza deLa corazzata Potemkin in cui il medico di bordo della nave, con i suoi occhialini osservava i vermi della carne putrefatta, orrorifica immagine simbolica dell'ormai morente regime zarista. Come quella del film di Ejzenstejn, anche la lente di ingrandimento di Lorenzo, è in fondo, una metafora del cinema e della sua superiore capacità di visione. Lo stesso film di Bertolucci è una "lente di ingradimento" sulla vita sotterranea e "invisibile" come quella delle formiche, di Lorenzo; una lenta di ingrandimento con cui tenta di scavare dentro la sua e la nostra paura di guardare e soprattutto di essere  guardati. Come diceva Sartre lo sguardo degli altri ci riduce inevitabilmente ad "oggetti", annullando la nostra soggettività come tale "invisibile". In questo senso, il film sembra "guardare" Lorenzo allo stesso modo in cui Lorenzo guarda e osserva affascinato la vita delle sue formiche, in fondo identificandosi nella loro vita "minuscola", segreta, nascosta. Il cinema non si limita a guardare la superficie della realtà, ad "occhio nudo" per così dire, ma tenta sempre di guardare ciò che vi si nasconde, ciò che si sottrae alla nostra visione più immediata delle cose e di noi stessi: esso è l'arte di rendere "visibile", magari "ingrandendolo", l'invisibile. Un occhio tecnologico, forse, molto più che naturale, superiore alla normale" capacità di visione dei nostri occhi. In questo senso, il cinema è veramente tale se il suo sguardo penetra anche dentro il buio, ovvero se riesce a cogliere la realtà delle cose nell'oscurità che le avvolge e non solo nella luce che ne rivela la mera superficie. L'esistenza "notturna" dentro la quale Lorenzo si è chiuso, il suo "vampiresco" rifiuto della luce del sole, proprio sottraendogli ogni sguardo sull'immensa, inafferrabile vastità a del mondo esterno,  finiscono per esaltare la sua capacità di visione sia fisica che onirica: del resto, già Hitchcock, nel suo grande Intrigo internazionale, ci ha mostrato come lo spazio aperto, infinito può essere molto più inquietante e pauroso di uno spazio chiuso. Certo, la prigione dentro la quale si è chiuso èla stessa "prigione" della propria mente: le sue visioni sono i propri fantasmi, i propri sogni, proiezioni di quello che il suo psichiatra definisce un "sè grandioso". In un primo momento l'ingresso della sorella nella cantina viene così percepito da lui come una fastidiosa intrusione nello spazio di isolamento e di protezione che egli si è costruito: perciò cerca in tutti i modi di "difendersi" da lei, tentando di cacciarla fuori dal suo nascondiglio. Dopo il suo contraddittorio tentativo di distacco dalla madre e dal rapporto "edipico", di odio e amore, nei confronti di lei, egli si trova nuovamente costretto alla "relazione" con un'altra figura femminile non priva di alcuni tratti "materni", ma certo lontanissima dalla rassicurante ma anche banale normalità borghese della madre. Una figura "reale", per quanto estranea alla realtà della famiglia dentro la quale è nato e cresciuto, non un'ennesima proiezione della sua mente. L'incontro con la sorella  lo costringerà a seguire il lungo percorso di dolore e di sofferenza anche fisica di Olivia e il suo tentativo di disintossicazione, e a superare così la sua iniziale posizione di indifferenza e distacco: ciò che lo indurrà ad avvicinarsi sempre di più a lei, ad assisterla, quindi ad aprirsi finalmente alla dimensione della "relazione" con l'altro, molto più degli astratti consigli del suo psicanalista. Eppure, ai suoi occhi, è piuttosto lei una figura "salvifica" per lui. In quella cantina è apparsa improvvisamente come un fantasma nella notte: ma presto il fantasma prenderà le sembianze di un Angelo, per quanto fragile e sofferente, un Angelo "che non vola più" come dice la canzone che canterà al fratello in una delle sequenze finali, ma che lo "salverà" conducendolo per mano verso la vita, fuori dalle mura soffocanti del nascondiglio. Il dolore psichico e fisico della sorella diventerà così anche il suo dolore. Con la poesia del cinema, con il linguaggio delle inquadrature, delle luci, della fotografia Bertolucci cerca di fermare la bellezza, la struggente poesia di un corpo giovane ma già sofferente, il corpo di una donna che, come dice la stessa protagonista femminile del film, "è tutta un livido". La giovinezza è l'età del primo, traumatico, impatto con la vita: essa è il tempo inafferrabile, "in bilico" per dirla con Benjamin, che sta in mezzo tra l'età dell'assoluta "purezza" e ingenuità e quella della piena consapevolezza della vita. Essa è in fondo la felicità stessa, ovvero cio che vi è di più transitorio e insieme di più "eterno". Attraverso la droga anche Olivia ha tentato di attingere una condizione di indifferenza nei confronti del mondo, seguendo, tuttavia, un strada diversa e opposta a quella del fratello, ovvero tentando di fuggire, di evadere da se stessa, consapevole in fondo che non si può "annullare" la realtà del mondo e degli altri se non annullando nello stesso tempo la propria stessa soggettività, il proprio stesso "io". Se Lorenzo ha provato a "fuggire" chiudendosi, lei, viceversa, ha provato a fuggire "evadendo". Il suo pianto straziante di fronte allo sguardo prima indifferente poi sempre più vivo e dolce del fratello rivelerà a lei stessa e a Lorenzo l'assurdità del suo di tentativo di evasione dalla vita. Due percorsi di vita e di formazione opposti, dunque, quelli rispettivamente seguiti da Lorenzo e da Olivia. Dopo il doloroso fallimento del suo percorso di "evasione" da se stessa e dalla realtà, sarà tuttavia Olivia a convincere il fratello ad un'altra e diversa "evasione", quella fuori dalle mura della sua prigione, non più però adesso verso i "paradisi artificiali" dell'eroina ma verso la realtà del mondo che li attende là fuori. Le sue lacrime esprimono la sua ritrovata capacità di soffrire e di vivere, quindi la ritrovata capacità dei suoi occhi di "guardare" il mondo, di sopportarne e accettarne la realtà. Viene in mente un brano di Broch, da La morte di Virgilio. "Perché la verità dell'occhio non è dolce lusinga; solo con le sue lacrime l'occhio diviene veggente, nel dolore soltanto diventa occhio che vede...". L'"occhio che vede" è in fondo quello del "cinema di poesia", ovvero l'occhio che cerca il senso della realtà, perfino il suo senso poeitico nella realtà stessa e non fuori di essa. In uno dei dialoghi tra i due fratelli, Olivia tenta di convincere il fratello della verità dell'idea che attribuisce al buddhismo, secondo cui la saggezza della vita consiste nell'accettare la realtà cosi com'è. Una tesi dentro la quale si nasconde una visione "rivoluzionaria", tutt'altro che quetistica della vita, del nostro essere e stare al mondo. Accettare il mondo è il presupposto per trasformare il mondo e insieme con esso noi stessi. Ma sapere accettare il mondo significa anche sapere vivere e accettare il dolore: non c'è conoscenza, ma neanche vita senza dolore. L'incontro con la sorella segnerà così nella vita di Lorenzo la scoperta insieme del dolore e della vita. Una scoperta che si accompagnerà a quella del corpo femminile, colto finalmente nella sua concreta dimensione fisica e non solo "onirica". Per la prima volta, userà la sua lente di ingrandimento non per contemplare le sue formiche ma per osservare direttamente, da vicino il corpo della sorella dormiente, il suo volto, la sua pelle, la vita biologica e l'eros che vi pulsano dentro: una nuova esperienza mediata da una nuova capacità di "vedere". Se prima ha solo "sognato" il corpo di una sconosciuta, conservandone in un libro una fotografia che lo ritrae in tutta la sua inquietante bellezza, adesso quel corpo viene osservato da vicino: con la sua lente di ingrandimento tenta, al fondo, di cogliere al di à della superficie della pelle il mistero del loro amarsi, forse cercando proprio nella "consaguineità" le radici più profonde e insondabili della loro unione. L'esperienza dell' amore come superamento della barriera, del "muro" che divide l'io dall'altro diventa così per Lorenzo la premessa per abbattere anche il muro che lo separa dalla realtà del mondo esterno. Scoprendo l'amore per la sorella comincerà così ad uscire dalla sua vita in "apnea", ad avvertire il bisogno di "respirare" all'aria aperta, fuori dallo spazio claustrofobico del suo "io". Un'improvviso bisogno di muoversi, un'ansia di vita cominciano a scuoterlo ed inquietarlo; comincia a sentirsi, come un animale in gabbia, costretto ad un movimento puramente "ciclico", "ripetitivo". Lorenzo aiuterà la sorella ad uscire almeno momentaneamente dal tunnel della droga e a riappropriarsi così della propria vita, mentre Olivia lo aiuterà invece a superare le angosce e paure infantili che gli hanno impedito fino a quel momento di dare concretezza, realtà effettiva alla sua ricerca di libertà e di indipendenza. La scena in cui Lorenzo e Olivia ballano insieme, vera e propria esplosione fisica del loro amore è certamente un grande momento di "cinema di poesia". Solo dopo avere ballato da soli ma insieme, in quella cantina, potranno uscire finalmente all'aria aperta e salutarsi. E' il loro "primo ballo" molto diverso dall'"ultimo tango" a Parigi di Paul e Jeanne. L'ultima inquadratura, il fermo immagine sul primo piano del ragazzo di nuovo solo ma "diverso", sul suo volto felice e sereno è molto bella. E' il suo primo sguardo da uomo sulla realtà e sul mondo esterno, l'"inizio" di un altro "viaggio" nel tempo e nello spazio della vita, fuori finalmente dallo spazio claustrofobico del sogno. Il cinema è questo, come ci ha insegnato Anghelopoulos: il racconto per immagini del nostro "viaggio" nel mondo alla ricerca del nostro vero sé, della nostra identità più autentica, la ricerca del primo sguardo sulla realtà, lo "sguardo di Ulisse".

Salvatore Tinè.

mercoledì 8 gennaio 2014

La guerra è finita

11 aprile 2013 
"La guerra è finita" è un film di Alain Resnais, sceneggiato da Semprun, del 1966. Vi si raccontano le vicende personali e politiche di un dirigente comunista spagnolo, Diego Mora, negli anni della dittatura franchista: un cospiratore, in età già matura, costretto a fare la spola tra Madrid e Parigi, ormai stanco, oppresso dalle fatiche del lavoro e della militanza politica, in un paese che non è più "il sogno del '36". Forse per lui "la guerra è finita", anche se continua a combatterla. Ma due storie d'amore scandiscono il racconto delle sue giornate frenetiche: una con una ragazza molto più giovane, anche lei una militante politica "rivoluzionaria" e un'altra con la sua compagna. Due storie d'amore che Resnais e Semprun ci raccontano soprattutto in due lunghe straordinarie scene erotiche, entrambe immerse in una luce irreale e di sogno. Nella prima di esse la giovane militante dice a Mora: "Tu potresti essere mio padre". La ragazza sembra cercare il padre proprio in un uomo che non è più in grado di esserlo: un  dirigente rivoluzionario maturo  che non sia anche una "figura paterna" per i militanti che guida e e dirige è un dirigente in crisi, per il quale, per l'appunto, "la guerra è finita". Ma forse per la giovane compagna, nel film incarnazione del futuro e della speranza, la guerra non è per niente finita, bensì appena cominciata. Ben diverso il senso dell'altra scena erotica, in cui vediamo Mora cercare e trovare rifugio tra le braccia della sua compagna, una meravigliosa Ingrid Thulin. "Tu sei qui, io sono felice" dice la donna al suo compagno e sembra voler dire, con queste poche e così semplici parole, che la felicità è sempre "qui" e "ora", ciò che di più prossimo vi sia a noi. Ma per un rivoluzionario, per cui, come dice lo stesso Mora  nel film, "le virtù principali sono la pazienza e l'ironia" niente è più problematico e discutibile di questo senso della felicità, ovvero della sua "prossimità". E tuttavia mi chiedo se anche per un rivoluzionario la "pazienza" sia solo "patire", quindi sopportare e subire il presente, nel ricordo del passato oppresso come nell'"idea" del futuro, oppure possa anche significare "viverlo", sebbene, paradossalmente senza alcuna immedesimazione con esso, bensì nel distacco dell'"ironia" come, per dirla con Majakovskij, nella "distanza del comunismo".

Salvatore Tinè