22 aprile 2012
Salvatore Tinè
"Todo modo" mi sembra uno straordinario gioco di rispecchiamenti e di sdoppiamenti. Il pittore, scrittore di gialli, protagonista del romanzo è un intellettuale volteriano. Eppure egli finisce per rispecchiarsi proprio nella figura di Don Gaetano, personaggio tanto misterioso quanto inquietante. Come lui, anche il pittore cerca la verità di là dalle sue apparenze, sebbene ritenga che essa sia conoscibile solo con gli strumenti della critica e dell'indagine razionali. Ma Don Gaetano pensa che l'unica verità sia al fondo lo stesso mistero di Dio, quindi una verità di là non non solo dalle sue apparenze ma anche da ogni distinzione tra bene e e male, tra giusto e ingiusto. In questo senso, come e perfino più lucidamente dello stesso protagonista del romanzo, doppio di Sciascia, Don Gaetano ha colto l'essenza "impolitica" del cristianesimo: in quanto religione della caduta e della morte, il cristianesimo è insieme, paradossalmente, critica e "giustificazione" del potere. E' proprio a tale concezione del potere che Sciascia sembra contrappone il "giacobinismo" del commissario di polizia, la sua religione della Giustizia da realizzarsi tagliando le teste. Il poliziotto è convinto che l'intellettuale illuminista la pensi come lui. Ma non pare che tale convinzione sia condivisa dallo stesso Sciascia.
Dario Stazzone
La tua lettura è acuta ed affascinante. Ma la distinzione tra i due uomini non è sempre così netta, il pittore razionalista è ammirato da Don Gaetano ed è certamente, ripetutamente spiazzato dalla sua morale molinista, dall'essenza "impolitica", direi crudamente cinica delle sue parole e delle sue azioni, sopratutto se riferite alla stessa chiesa cattolica. Il pittore si proietta nel gioco dell'intelligenza con malcelata ammirazione per il mefistofelico Don Gaetano: l'ordine delle somiglianze sciasciano, i riflessi demonici degli occhiali hanno senso in questa prospettiva perturbante. E lo stesso pittore sembra cedere, se non alla religione "giacobina" della giustizia, ad una pulsione molto più profonda e irrazionale.
Salvatore Tinè
Sono d'accordo con te. Ci sarebbe anche da indagare sulla figura del magistrato, del procuratore Scalambri, una figura intermedia tra quelle del poliziotto e del prete. Mi colpisce che l'intellettuale sia più vicino al commissario che al procuratore. Mi viene fatto di pensare a quanto scrive Benjamin sul potere della polizia, potere che conserva e che insieme sospende il diritto. Sciascia non vuole la "ghigliottina" evocata dal commissario come metodo per estirpare il delitto e tuttavia la figura di Scalambri è quella più scialba e incolore del romanzo, sempre preoccupato di chiudere al più presto l'indagine per non disturbare il potere e i suoi complicati equilibri. C'è insomma qualcosa che accomuna la "curiosità" dell'intellettuale, capitato apparentemente per caso in quello strano, orrendo albergo, e il sogno di un cambiamento tanto radicale quanto sanguinoso, del commissario ormai vicino alla pensione
Dario Stazzone
Ecco, volevo dirti proprio questo, ma mi sono fermato temendo di rivelarti il finale che poi non è finale del giallo o antigiallo di Sciascia. Siciliano, Pasolini e molti altri commentatori concordano nel sostenere che il pittore abbia ucciso don Gaetano. Se così fosse il protagonista cede al sogno sanguinoso o forse, più irrazionalmente, alla pulsione ed al desiderio di uccidere il religioso che nella sua scepsi si fa veramente un doppio perturbante, e che, nelle ultime pagine, è investito di una singolare luce cristologica e martiriologica.
Salvatore Tinè
Io ho pensato che l'ipotesi che sia stato il pittore a uccidere Don Gaetano sia piuttosto ironica, anzi autoironica visto che è lo stesso pittore ad evocarla. Ma ciò non toglie che quella ironia rifletta anche una desiderio, una pulsione inconfessata e inconfessabile del protagonista. Non avevo invece pensato a Don Gaetano come figura cristologica. Ti ringrazio per questa tua indicazione: peraltro potrebbe spiegare la pagina del romanzo in cui il prete sollecita il pittore a fare un ritratto del Cristo.
Dario Stazzone
Esatto, ricordo una serie di occorrenze cristologiche nelle ultime pagine del libro. Il romanzo è incredibilmente complesso e a mio giudizio avrebbe poco significato se lo si leggesse sul piano di una contrapposizione rigorosa tra i due uomini. Don Gaetano è per il pittore perturbante nel senso freudiano del termine. Questo spiegherebbe la pulsione ad ucciderlo, ossia a sopprimere una parte di sé. Dovrei comunque rileggerlo, ogni parola va soppesata con attenzione. Sciascia nel suo momento più alto, che fa i conti con sé stesso, con la razionalità illuminista e il gesuitismo spagnolesco.
Salvatore Tinè
Bella l'ipotesi che uccidendo Don Gaetano, il pittore avrebbe ucciso una parte di se. Penso anch'io che via sia una contrapposizione tra la razionalità illuministica e il gesuitismo spagnolesco: in realtà proprio radicalizzata la prima sembra rovesciarsi nel secondo. La ragione vuole distinguere e contrapporre: perciò essa deve affilare le sue "armi", tendere al massimo della precisione e della sofisticazione. Ecco in questa sofisticazione c'è tutto il pirandellismo di Sciascia: la ragione è al fondo questo tentativo di ripercorrere all'indietro, come si dice proprio all'inizio del romanzo, un'intera "catena di causalità". Ma c'è sempre "un anello che non tiene", direbbe Montale.
"Todo modo" mi sembra uno straordinario gioco di rispecchiamenti e di sdoppiamenti. Il pittore, scrittore di gialli, protagonista del romanzo è un intellettuale volteriano. Eppure egli finisce per rispecchiarsi proprio nella figura di Don Gaetano, personaggio tanto misterioso quanto inquietante. Come lui, anche il pittore cerca la verità di là dalle sue apparenze, sebbene ritenga che essa sia conoscibile solo con gli strumenti della critica e dell'indagine razionali. Ma Don Gaetano pensa che l'unica verità sia al fondo lo stesso mistero di Dio, quindi una verità di là non non solo dalle sue apparenze ma anche da ogni distinzione tra bene e e male, tra giusto e ingiusto. In questo senso, come e perfino più lucidamente dello stesso protagonista del romanzo, doppio di Sciascia, Don Gaetano ha colto l'essenza "impolitica" del cristianesimo: in quanto religione della caduta e della morte, il cristianesimo è insieme, paradossalmente, critica e "giustificazione" del potere. E' proprio a tale concezione del potere che Sciascia sembra contrappone il "giacobinismo" del commissario di polizia, la sua religione della Giustizia da realizzarsi tagliando le teste. Il poliziotto è convinto che l'intellettuale illuminista la pensi come lui. Ma non pare che tale convinzione sia condivisa dallo stesso Sciascia.
Dario Stazzone
La tua lettura è acuta ed affascinante. Ma la distinzione tra i due uomini non è sempre così netta, il pittore razionalista è ammirato da Don Gaetano ed è certamente, ripetutamente spiazzato dalla sua morale molinista, dall'essenza "impolitica", direi crudamente cinica delle sue parole e delle sue azioni, sopratutto se riferite alla stessa chiesa cattolica. Il pittore si proietta nel gioco dell'intelligenza con malcelata ammirazione per il mefistofelico Don Gaetano: l'ordine delle somiglianze sciasciano, i riflessi demonici degli occhiali hanno senso in questa prospettiva perturbante. E lo stesso pittore sembra cedere, se non alla religione "giacobina" della giustizia, ad una pulsione molto più profonda e irrazionale.
Salvatore Tinè
Sono d'accordo con te. Ci sarebbe anche da indagare sulla figura del magistrato, del procuratore Scalambri, una figura intermedia tra quelle del poliziotto e del prete. Mi colpisce che l'intellettuale sia più vicino al commissario che al procuratore. Mi viene fatto di pensare a quanto scrive Benjamin sul potere della polizia, potere che conserva e che insieme sospende il diritto. Sciascia non vuole la "ghigliottina" evocata dal commissario come metodo per estirpare il delitto e tuttavia la figura di Scalambri è quella più scialba e incolore del romanzo, sempre preoccupato di chiudere al più presto l'indagine per non disturbare il potere e i suoi complicati equilibri. C'è insomma qualcosa che accomuna la "curiosità" dell'intellettuale, capitato apparentemente per caso in quello strano, orrendo albergo, e il sogno di un cambiamento tanto radicale quanto sanguinoso, del commissario ormai vicino alla pensione
Dario Stazzone
Ecco, volevo dirti proprio questo, ma mi sono fermato temendo di rivelarti il finale che poi non è finale del giallo o antigiallo di Sciascia. Siciliano, Pasolini e molti altri commentatori concordano nel sostenere che il pittore abbia ucciso don Gaetano. Se così fosse il protagonista cede al sogno sanguinoso o forse, più irrazionalmente, alla pulsione ed al desiderio di uccidere il religioso che nella sua scepsi si fa veramente un doppio perturbante, e che, nelle ultime pagine, è investito di una singolare luce cristologica e martiriologica.
Salvatore Tinè
Io ho pensato che l'ipotesi che sia stato il pittore a uccidere Don Gaetano sia piuttosto ironica, anzi autoironica visto che è lo stesso pittore ad evocarla. Ma ciò non toglie che quella ironia rifletta anche una desiderio, una pulsione inconfessata e inconfessabile del protagonista. Non avevo invece pensato a Don Gaetano come figura cristologica. Ti ringrazio per questa tua indicazione: peraltro potrebbe spiegare la pagina del romanzo in cui il prete sollecita il pittore a fare un ritratto del Cristo.
Dario Stazzone
Esatto, ricordo una serie di occorrenze cristologiche nelle ultime pagine del libro. Il romanzo è incredibilmente complesso e a mio giudizio avrebbe poco significato se lo si leggesse sul piano di una contrapposizione rigorosa tra i due uomini. Don Gaetano è per il pittore perturbante nel senso freudiano del termine. Questo spiegherebbe la pulsione ad ucciderlo, ossia a sopprimere una parte di sé. Dovrei comunque rileggerlo, ogni parola va soppesata con attenzione. Sciascia nel suo momento più alto, che fa i conti con sé stesso, con la razionalità illuminista e il gesuitismo spagnolesco.
Salvatore Tinè
Bella l'ipotesi che uccidendo Don Gaetano, il pittore avrebbe ucciso una parte di se. Penso anch'io che via sia una contrapposizione tra la razionalità illuministica e il gesuitismo spagnolesco: in realtà proprio radicalizzata la prima sembra rovesciarsi nel secondo. La ragione vuole distinguere e contrapporre: perciò essa deve affilare le sue "armi", tendere al massimo della precisione e della sofisticazione. Ecco in questa sofisticazione c'è tutto il pirandellismo di Sciascia: la ragione è al fondo questo tentativo di ripercorrere all'indietro, come si dice proprio all'inizio del romanzo, un'intera "catena di causalità". Ma c'è sempre "un anello che non tiene", direbbe Montale.
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