domenica 5 gennaio 2014

Gran Torino. Americanismo e fordismo secondo Clint Eastwood




"Gran Torino"  di Clint Eastwood è un film importante. Come pochi altri parla del Novecento come di un secolo che ancorchè “passato” è tuttavia ancora il  “nostro” per l’eredità che ci lascia, fatta non solo di principi e valori ma anche di grandi “questioni” ancora aperte e insolute. Certo è anche un film sulla “fine” del Novecento, raccontata da Eastwood attraverso la storia della “fine” di un suo piccolo protagonista, un veterano della guerra di Corea ed ex-operaio della Ford, rimasto solo dopo la morte della moglie, lontano dai figli e dai nipoti, ridotto ormai ad un’esistenza chiusa e umbratile. Ai terribili sensi di colpa legati ai ricordi ossessivi degli orrori della guerra in Corea si accompagna un atteggiamento duramente razzista e xenofobo nei confronti dei “vicini” immigrati asiatici che hanno invaso il suo quartiere. La guerra infatti per lui non è, in realtà, mai finita. “Qui non siamo in Corea” gli dice il prete di cui rifiuta il  modo di intendere la vita e la stessa religione che gli appare troppo facile e consolatorio. Eppure la vita quotidiana del suo quartiere multietnico e multirazziale è segnata da una continua “guerra” tra piccole bande criminali e la stessa coesistenza di abitanti di nazionalità ed etnie tra loro diversissime è un terreno non solo di integrazione ma anche di conflitto talora perfino duro e violento. E’ questa conflittualità a tratti terribile della realtà dell’integrazione che Eastwood ci mostra in immagini potenti. Kowalski continua a vivere e a comprendere la società con gli occhi e la mentalità del soldato: la convivenza è sempre “guerra”, anche in “tempo di pace”. Per questo la religione dei preti gli appare fatta solo di ridicole favole. La guerra del resto lo ha diviso e lacerato interiormente: egli non è mai “in pace” neanche con se stesso. Si pensi al suo stesso cognome polacco che rivela insieme alle sua discendenza da una famiglia di immigrati. anche, ironicamente, il paradosso del suo ruvido nazionalismo.  Eastwood ci dice così che in realtà l’identità americana, ovvero quella del primo Stato veramente “globale” della storia è sempre stata “multietnica” e “multirazziale”. La nascita dell’America è la genesi stessa del mondo globalizzato di oggi: gli Stati Uniti d’America sono stati un impero “globale” ma anche il più potente e armato Stato nazionale imperialista della storia. E’ questa apparente contraddizione storica che sembra vivere dentro il personaggio di Kowalski, americano ma di origine polacche, patriotticamente orgoglioso di essere  un cittadino degli USA  e insieme dilaniato da terribili sensi di colpa per aver partecipato ad una delle più sanguinose guerre imperialiste condotte dal suo paese. Pure continua a sentirsi legato ad un’epoca storica finita, chiusa non solo con la fine della cosiddetta “guerra fredda” di cui la guerra “calda” in Corea è stata uno dei passaggi più terribili  ma anche con il venir meno dell’egemonia del modo di produzione fordista che ha segnato la storia del Novecento, soprattutto nella sua seconda metà. Dopo di essa il “benessere” americano e occidentale è stato solo consumismo drogato, benessere solo apparente di una società in crisi che continua a vivere al di sopra delle sue reali possibilità. L’insofferenza di Kowalski per il consumismo dei figli e dei nipoti, per il loro individualismo vuoto e nichilista, privo di ogni memoria e senso identitario discende in fondo proprio dal suo persistente, tenace legame con una dura ma sana “etica del lavoro” maturata lavorando per tanti anni in fabbrica alla catena di montaggio. Il suo stesso sentirsi “americano” è legato a tale esperienza come lo sconcerto per la predilezione dei figli per le macchine giapponesi rivela. Il cosiddetto “secolo americano” è stato quello della guerra totale ma anche del lavoro totale: operaio e soldato insieme,  Kowalski ne è in fondo l’emblema. Ed è proprio il malinconico tramonto dell’americanismo fordista su cui a lungo si è basato l’impero globale statunitense e il “sogno americano” che la sua  triste e solitaria vecchiaia del soldato sembra poeticamente evocare. Il quartiere “invaso” dagli asiatici, come la sua casa “assediata” dalle piccoli bande criminali dei giovani immigrati, in una violenta jungla metropolitana  che appare come una sorta di odierno West sono in questo senso la metafora di un mondo tanto globalizzato quanto anarchico, non più identificabile con l’ormai declinante impero statunitense, ovvero non più governabile con i suoi mezzi tradizionali, quelli dell’egemonia economico-produttiva e del dominio “poliziesco” e militare caratteristici dell’epoca fordista. Ma è proprio in questo scenario “crepuscolare” che Eastwood ci mostra, proprio rimanendo dentro i  claustrofobici confini del suo quartiere-microcosmo la nascita possibile di un nuovo mondo, una nuova possibilità di convivenza e integrazione tra popoli ed etnie diverse non più fondata sulla violenza o l’egemonia del più forte. Aprendosi finalmente alla conoscenza e ella relazione con la famiglia hmong che vive accanto alla sua casa, superando le rigide barriere protettive sempre duramente difese anche con la minaccia della violenza e delle armi soprattutto nei confronti degli “altri” e dei “diversi”, Kowalski finirà per scoprire non soltanto un’altra “cultura” ma anche un’ altra prospettiva, un diverso sguardo sul mondo e sulle relazioni umane, non più all’insegna della continuità della guerra e della violenza. I giovani di quella famiglia sono già metà hmong e metà americani, del tutto integrati nel paese in cui sono cresciuti e insieme legati ad alcuni dei valori tradizionali della cultura di un paese dell’Asia. Superato il suo atteggiamento di chiusura razzista, Kowalski finirà per assumere nei loro confronti un ruolo paterno e “protettivo”: sottrae così il ragazzo all’influenza delle bande criminali insegnandogli una dura ma sana etica del lavoro, il “saper fare” oggettivato negli oggetti della tecnica, negli strumenti del lavoro manuale raccolti nella sua officina meccanica: un sapere di cui proprio la straordinaria bellezza della “Gran Torino” di Kowalski prodotta in fabbrica dalle sue stesse mani si fa metafora. L’ex- operaio dell’industria simbolo della potenza economica americana e occidentale si fa padre adottivo del giovane ragazzo asiatico apprendista: l’industria fordista e il suo dominio sono finiti ma il lavoro come valore e perfino senso della vita e della propria identità, no. Eastwood sembra così celebrare in questa rinata famiglia l’unità tra l’Occidente declinante e il risorgente Oriente asiatico all’insegna della permanente “universalità” del lavoro produttivo e della tecnica  Ma al ragazzo, Kowalski tenta di insegnare anche un’altra “arte”, ovvero un’altra “tecnica” quella di difendersi dai pericoli e dalle minacce degli “altri” in un ambiente sociale dominato dal conflitto e dall’anarchia. Nella terribile sequenza dell’attacco alla casa dei hmong da parte di una banda criminale Kowalski viene improvvisamente riportato in un clima di violenza che richiama fortemente la sua esperienza della guerra. Anche fuori di lui, nell’ambiente che lo circonda e non solo nella sua memoria la logica della guerra continua a strutturare le dinamiche conflittuali della socializzazione e della convivenza.  Alla fine la scelta di sacrificare la propria vita per salvare quella del ragazzo facendo arrestare i membri della banda criminale prevarrà sull’immediato impulso vendicativo. Eastwood sembra contrapporre così due etiche pure intimamente legate l’una all’altra: quella della guerra e quella “cristiana” della morte e del sacrificio. Solo il sacrificio di sé potrà fermare il circolo infernale della violenza e della guerra permanente e insieme portare la “pace” dentro di lui. Eppure è con un’immagine di vita che il film si conclude: in una giornata di sole vediamo il giovane hmong alla guida della “Gran Torino” donata a lui da Kowalski per testamento, simbolo dell’eredità di insegnamenti e valori lasciatagli dall’ex-operaio e veterano di guerra. Il sereno volto orientale del giovane hmomg sembra simboleggiare quello che già all’inizio del Novecento, Lenin definì il “risveglio dell’Asia”. Il “secolo americano” si è compiuto. La storia può ricominciare.
  
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Salvatore Tinè 

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