"Gran
Torino" di Clint Eastwood è un film
importante. Come pochi altri parla del Novecento come di un secolo che ancorchè
“passato” è tuttavia ancora il “nostro”
per l’eredità che ci lascia, fatta non solo di principi e valori ma anche di
grandi “questioni” ancora aperte e insolute. Certo è anche un film sulla “fine”
del Novecento, raccontata da Eastwood attraverso la storia della “fine” di un
suo piccolo protagonista, un veterano della guerra di Corea ed ex-operaio della
Ford, rimasto solo dopo la morte della moglie, lontano dai figli e dai nipoti,
ridotto ormai ad un’esistenza chiusa e umbratile. Ai terribili sensi di colpa legati
ai ricordi ossessivi degli orrori della guerra in Corea si accompagna un
atteggiamento duramente razzista e xenofobo nei confronti dei “vicini”
immigrati asiatici che hanno invaso il suo quartiere. La guerra infatti per lui
non è, in realtà, mai finita. “Qui non siamo in Corea” gli dice il prete di cui
rifiuta il modo di intendere la vita e
la stessa religione che gli appare troppo facile e consolatorio. Eppure la vita
quotidiana del suo quartiere multietnico e multirazziale è segnata da una
continua “guerra” tra piccole bande criminali e la stessa coesistenza di
abitanti di nazionalità ed etnie tra loro diversissime è un terreno non solo di
integrazione ma anche di conflitto talora perfino duro e violento. E’ questa
conflittualità a tratti terribile della realtà dell’integrazione che Eastwood
ci mostra in immagini potenti. Kowalski continua a vivere e a comprendere la
società con gli occhi e la mentalità del soldato: la convivenza è sempre
“guerra”, anche in “tempo di pace”. Per questo la religione dei preti gli
appare fatta solo di ridicole favole. La guerra del resto lo ha diviso e
lacerato interiormente: egli non è mai “in pace” neanche con se stesso. Si
pensi al suo stesso cognome polacco che rivela insieme alle sua discendenza da
una famiglia di immigrati. anche, ironicamente, il paradosso del suo ruvido
nazionalismo. Eastwood ci dice così che
in realtà l’identità americana, ovvero quella del primo Stato veramente
“globale” della storia è sempre stata “multietnica” e “multirazziale”. La
nascita dell’America è la genesi stessa del mondo globalizzato di oggi: gli
Stati Uniti d’America sono stati un impero “globale” ma anche il più potente e
armato Stato nazionale imperialista della storia. E’ questa apparente
contraddizione storica che sembra vivere dentro il personaggio di Kowalski,
americano ma di origine polacche, patriotticamente orgoglioso di essere un cittadino degli USA e insieme dilaniato da terribili sensi di
colpa per aver partecipato ad una delle più sanguinose guerre imperialiste
condotte dal suo paese. Pure continua a sentirsi legato ad un’epoca storica
finita, chiusa non solo con la fine della cosiddetta “guerra fredda” di cui la
guerra “calda” in Corea è stata uno dei passaggi più terribili ma anche con il venir meno dell’egemonia del
modo di produzione fordista che ha segnato la storia del Novecento, soprattutto
nella sua seconda metà. Dopo di essa il “benessere” americano e occidentale è
stato solo consumismo drogato, benessere solo apparente di una società in crisi
che continua a vivere al di sopra delle sue reali possibilità. L’insofferenza
di Kowalski per il consumismo dei figli e dei nipoti, per il loro
individualismo vuoto e nichilista, privo di ogni memoria e senso identitario
discende in fondo proprio dal suo persistente, tenace legame con una dura ma
sana “etica del lavoro” maturata lavorando per tanti anni in fabbrica alla
catena di montaggio. Il suo stesso sentirsi “americano” è legato a tale
esperienza come lo sconcerto per la predilezione dei figli per le macchine
giapponesi rivela. Il cosiddetto “secolo americano” è stato quello della guerra
totale ma anche del lavoro totale: operaio e soldato insieme, Kowalski ne è in fondo l’emblema. Ed è proprio
il malinconico tramonto dell’americanismo fordista su cui a lungo si è basato
l’impero globale statunitense e il “sogno americano” che la sua triste e solitaria vecchiaia del soldato sembra
poeticamente evocare. Il quartiere “invaso” dagli asiatici, come la sua casa
“assediata” dalle piccoli bande criminali dei giovani immigrati, in una
violenta jungla metropolitana che appare
come una sorta di odierno West sono in questo senso la metafora di un mondo
tanto globalizzato quanto anarchico, non più identificabile con l’ormai
declinante impero statunitense, ovvero non più governabile con i suoi mezzi
tradizionali, quelli dell’egemonia economico-produttiva e del dominio “poliziesco”
e militare caratteristici dell’epoca fordista. Ma è proprio in questo scenario
“crepuscolare” che Eastwood ci mostra, proprio rimanendo dentro i claustrofobici confini del suo
quartiere-microcosmo la nascita possibile di un nuovo mondo, una nuova
possibilità di convivenza e integrazione tra popoli ed etnie diverse non più
fondata sulla violenza o l’egemonia del più forte. Aprendosi finalmente alla
conoscenza e ella relazione con la famiglia hmong che vive accanto alla sua
casa, superando le rigide barriere protettive sempre duramente difese anche con
la minaccia della violenza e delle armi soprattutto nei confronti degli “altri”
e dei “diversi”, Kowalski finirà per scoprire non soltanto un’altra “cultura”
ma anche un’ altra prospettiva, un diverso sguardo sul mondo e sulle relazioni
umane, non più all’insegna della continuità della guerra e della violenza. I
giovani di quella famiglia sono già metà hmong e metà americani, del tutto
integrati nel paese in cui sono cresciuti e insieme legati ad alcuni dei valori
tradizionali della cultura di un paese dell’Asia. Superato il suo atteggiamento
di chiusura razzista, Kowalski finirà per assumere nei loro confronti un ruolo
paterno e “protettivo”: sottrae così il ragazzo all’influenza delle bande
criminali insegnandogli una dura ma sana etica del lavoro, il “saper fare”
oggettivato negli oggetti della tecnica, negli strumenti del lavoro manuale
raccolti nella sua officina meccanica: un sapere di cui proprio la
straordinaria bellezza della “Gran Torino” di Kowalski prodotta in fabbrica dalle
sue stesse mani si fa metafora. L’ex- operaio dell’industria simbolo della
potenza economica americana e occidentale si fa padre adottivo del giovane
ragazzo asiatico apprendista: l’industria fordista e il suo dominio sono finiti
ma il lavoro come valore e perfino senso della vita e della propria identità,
no. Eastwood sembra così celebrare in questa rinata famiglia l’unità tra l’Occidente
declinante e il risorgente Oriente asiatico all’insegna della permanente “universalità”
del lavoro produttivo e della tecnica Ma
al ragazzo, Kowalski tenta di insegnare anche un’altra “arte”, ovvero un’altra
“tecnica” quella di difendersi dai pericoli e dalle minacce degli “altri” in un
ambiente sociale dominato dal conflitto e dall’anarchia. Nella terribile
sequenza dell’attacco alla casa dei hmong da parte di una banda criminale
Kowalski viene improvvisamente riportato in un clima di violenza che richiama
fortemente la sua esperienza della guerra. Anche fuori di lui, nell’ambiente
che lo circonda e non solo nella sua memoria la logica della guerra continua a
strutturare le dinamiche conflittuali della socializzazione e della
convivenza. Alla fine la scelta di
sacrificare la propria vita per salvare quella del ragazzo facendo arrestare i
membri della banda criminale prevarrà sull’immediato impulso vendicativo.
Eastwood sembra contrapporre così due etiche pure intimamente legate l’una
all’altra: quella della guerra e quella “cristiana” della morte e del
sacrificio. Solo il sacrificio di sé potrà fermare il circolo infernale della
violenza e della guerra permanente e insieme portare la “pace” dentro di lui. Eppure
è con un’immagine di vita che il film si conclude: in una giornata di sole
vediamo il giovane hmong alla guida della “Gran Torino” donata a lui da
Kowalski per testamento, simbolo dell’eredità di insegnamenti e valori
lasciatagli dall’ex-operaio e veterano di guerra. Il sereno volto orientale del
giovane hmomg sembra simboleggiare quello che già all’inizio del Novecento, Lenin
definì il “risveglio dell’Asia”. Il “secolo americano” si è compiuto. La storia
può ricominciare.
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Salvatore Tinè
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