12 novembre 2013
Difficile non pensare ad Antigone vedendo "La vita di Adele" di Abdel Kechiche. Il personaggio del mito greco è non a caso esplicitamente citato in una scena del film. Ma è in particolare all'interpretazione lacaniana dell'Antigone sofoclea che mi è venuto fatto di pensare: un'interpretazione, com'è noto, tutta centrata sul tema della "fedeltà al proprio desiderio". La ragazza adolescente protagonista del film, Adele, ci appare infatti come un altro esempio di totale, ostinata volontà di non rinunciare al proprio desiderio. C'è un che di "assoluto", di intransigente nella sua ricerca di se stessa, nella rivendicazione della libertà della propria persona come del proprio corpo. Ma, nonostante gli espliciti riferimenti a Sartre e all'esistenzialismo che ritornano nel film, la scoperta di se stessa e della sua libertà che scandisce la vicenda di questa piccola Antigone sembra radicarsi nella purezza e nella mera vitalità del proprio corpo piuttosto che nell'"angoscia" dell'esistere. La fame di piacere che sembra animare il suo corpo non ha niente di morboso o deviato. Adele e il suo corpo sono un tutt’uno: nessuno scarto, nessuna “riflessione” di una qualche "coscienza" sembra mai sospendere questa sostanziale, “ontologica” identità. Una identità che forse solo il cinema, o almeno quello che Pasolini avrebbe definito “cinema di poesia”, come “linguaggio stesso della realtà” e quindi dei corpi è in grado di restituirci attraverso la pura fisicità delle immagini e del loro movimento. Eppure il film di Kechiche è una riflessione tormentassima sul "mistero" di questa in fondo solo apparente "immediatezza" dei corpi. L’amore è incontro, tanto “irrazionale” e “insensato” quanto casuale. L’amore di Adele per Emma nasce in modo fulmineo dalla mera casualità di uno sguardo reciproco: due persone possono amarsi senza che l'una sappia niente dell'altra. Pure, "il caso non esiste" dice Emma ad Adele. In fondo, non possiamo non muovere da questo segreto presupposto quando cerchiamo di cogliere l'amore nella sua essenza, di là dall'apparente "casualità" dell'"incontro" da cui pure sempre si origina. La ricerca del suo senso ritorna ma, per superarlo, a questo mistero impenetrabile dell’origine che è tuttavia il suo incanto. Eppure è la stessa Emma ad evocare nel film l'esistenzialismo di Sartre, centrato proprio sull'idea della contingenza dell'esistere. Non esiste un senso dell'esistenza che la trascenda: dunque... "il caso esiste". Emma è una pittrice: cosa è la pittura se non la ricerca del senso della realtà e della vita, di là dalla loro "fisicità", dalla loro "oggettiva" concretezza. In tal senso la pittura si contrappone al cinema, alla sua totale immanenza alla vita. E' questa immanenza che Kechiche si sforza di cogliere, raccontando dell'incontro e dello scontro tra il tormentato "intellettualismo" di Emma e la verginale e sensuale insieme fisicità di Adele. Un contrasto reso tanto più evidente dalla differenza di età e di maturità tra le due giovani donne. Le lunghe estenuanti sequenze erotiche raccontano certo l’amore come ricerca dell’assoluto, ma “solo” come tensione impossibile e insostenibile alla fusione dei corpi, al superamento del limite non trascendibile che sembra separarli come "monadi". Forse l'amore è proprio questa "impossibile" armonia tra monadi, per niente leibnizianamente “prestabilita” per quanto sempre spasmodicamente, dolorosamente cercata dai corpi che si amano. “Il rapporto sessuale non esiste” ha detto una volta Lacan. Ed è proprio la solitudine del desiderio che sembra evocare l'ultima inquadratura del film, il finale che mostra Adele camminare sola lungo una strada, al culmine della sua “educazione sentimentale”, finalmente donna e tuttavia fedele come prima a se stessa e al suo desiderio.
Salvatore Tinè
Salvatore Tinè
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