Un film sulle dinamiche dell'eros e dell'amore, "Venere in pelliccia" di Roman Polanski, ma soprattutto su quelle dell' "amore" per il teatro. Il regista protagonista del film, straordinariamente simile allo stesso Polanski, cerca l’attrice adatta per interpretare la protagonista femminile di un testo teatrale ispirato ad un romanzo di Sacher Masoch, “Venere in pelliccia”. Finirà per trovarla ma anche per diventarne succube. Il personaggio teatrale, fino a quel momento solo sognato o immaginato si incarna nella persona fisica di un attrice apparentemente banale e perfino a tratti volgare nella sua carnale esuberanza. Ma è proprio questo scarto tra il personaggio dell’attrice e quello che dovrebbe incarnare che il regista e noi spettatori con lui finiremo per smarrire. Impossibile non pensare ai “Sei personaggi in carca d'autore” di Pirandello, agli attori che in quell'opera teatrale che invano cercavano di rappresentare, ad essi sostituendosi, i personaggi ideali creati dallo stesso Pirandello. Ma qui l’attrice e il personaggio si incarnano nella stessa persona. “Nati vivi- scrive Pirandello- i personaggi volevano vivere”. Essi non sono fantasmi ma uomini vivi, non meno degli attori che pretendono assurdamente di rappresentarli. Nel film di Polanski, vi tuttavia un unico attore, la donna che irrompe all'improvviso come un fantasma nel teatro in cui il regista è rimasto solo. Si direbbe allora che a differenza che nel dramma pirandelliano anche gli attori qui sono "fantasmi" sebbene anche qui "in carne ed ossa". Il regista dovrebbe e in un primo momento vorrebbe dominare i suoi fantasmi, quelli dei personaggi “ideali” come quelli degli attori “reali” ma in realtà nel suo inconscio più profondo, di cui il luogo chiuso, claustrofobico del teatro è la metafora visiva, si rivela masochisticamente desideroso di dominare dominare perfino schiacciare da loro. Egli è in questo senso ben diverso dal regista dei “Sei personaggi” il quale fino all’ultimo tenterà di imporre il suo ruolo “dittatoriale”, di dominus assoluto nei confronti degli attori come dei personaggi. Di contro a tale pretesa, Polanski ci rivela l’essenza profondamente "erotica" e quindi “masochista” del teatro. Il regista di Polanski, suo doppio, si trasforma infatti in una metafora “viva“ della fragilità del maschio, della sua sostanziale dipendenza e subalternità alla donna che pure vorrebbe e dovrebbe dirigere: alla dialettica tra regista e autore da un lato e attori e personaggi dall’altro si intreccia quella, altrettanto ambigua e paradossale tra i sessi. La donna che improvvisamente compare di fronte al regista ci appare del tutto “libera” e autonoma, come i fantasmi pirandelliani vivente di vita propria e contemporaneamente proiezione dell’autore e del regista “maschio”, prodotto della sua soggettività presunta creatrice. Come Tarkovskij in “Solaris”, Polanskij sembra applicare alla dialettica dei sessi quella, hegeliana, del rapporto tra “servo” e “padrone”: nel film del regista sovietico lo psicologo Kelvin inviato in un'altra pianeta vi incontrerà il fantasma della moglie morta e non riuscirà più a liberarsene. Anche in “Venere in pelliccia”, la donna protagonista del film finisce per imporsi al suo regista come la vera dominatrice e non solo come un fantasma del suo inconscio. E tuttavia il piacere maschile sembrerebbe consistere proprio in questo voler soccombere alla donna idealizzata fino alla sua divinizzazione. Forse, il maschio domina proprio lasciandosi dominare dalla donna, allo stesso modo in cui lo spettacolo teatrale riesce proprio quando il regista abdicando alla sua dittatura riesce a far vivere di vita propria i personaggi che egli ha creato: dietro l’idealizzazione della donna è allora il desiderio inconscio del regista, la cui apparente “volontà di potenza” finisce così paradossalmente, proprio al suo culmine, per coincidere con il suo contrario. Non a caso, proprio nel piacere masochistico del suo regista, l’attrice protagonista del film scorge una subdola forma di maschilismo. Di qui il suo rifiuto del personaggio femminile che il regista cerca di imporle, ovvero il rifiuto della sua mistificante idealizzazione. E tuttavia il compiuto rovesciamento del rapporto di potere tra i sessi sembrerebbe avvenire nel finale del film portando alle sue conseguenze estreme la stessa “logica” masochistica: alla fine del film vediamo infatti il regista non più soltanto apparente succube della donna ma diventato donna a sua volta, e l’attrice, ormai padrona assoluta del gioco erotico e teatrale mutarsi da ideale Venere in una paurosa Baccante. Il compiuto manifestarsi dell’ essenza dionisiaca del femminile ne celebra il trionfo, mentre l’uomo, legato per sempre ad un enorme simbolo fallico, travestito da Venere in pelliccia pronto ad essere dilaniato come in un antico rito pagano, ci appare solo come una donna mancata. Impossibile non pensare all’”Ulisse” di Joyce, al suo capitolo più delirante e dionisiaco, “Il bordello” in cui Bloom, vittima cornificata della moglie si trasforma in una donna.
Salvatore Tinè
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