Il tema "edipico" dell'odio per il padre e dell'amore per la madre è al centro di "The tree of life" di Terrence Malick. Il regista americano narra quasi solo per immagini la storia di una normale famiglia del Texas negli anni '50, ma inserendola dentro il "racconto" della nascita dell'universo e della vita. Un racconto che non coincide con quello della creazione divina del mondo: eppure non si può certo che il Dio, così tante volte evocato nei più lancinanti momenti di dolore e di disperazione dei personaggi del film, coincida senz'altro con quello spinoziano, ovvero con il "Deus sive Natura" e che quindi la vita dell'uomo appaia nel film come spinoziamente "parte" soltanto e mai come "scopo o "fine" ultimo dell'esistenza del mondo. Pure, "The tree of life" si presenta in larga parte come un film sulla Natura e sul suo rapporto con la vita e l'esistenza dell'uomo, da Malick indagate in una prospettiva fortemente etica. Solo dentro questa prospettiva, Malick si interroga sul tema dell'amore, ovvero come si dice in "To the wonder", l'ultimo film del regista americano, dell'"amore che ci ama, che viene dal nulla e da tutte le cose." Ma in che senso il Dio-Natura spinoziano, nonostante la sua potenza infinita e la sua "indifferenza" alla nostra vita, il suo essere " al di là del bene e del male" può essere concepito "cristianamente" come un Dio-Amore, "che ci ama"? E, ancora, in che senso un Dio concepito come Natura e non come Persona può amare e non solo essere amato? Certo, nel film è presente anche un'altra visione di Dio, quella del Padre crudele, che "ci odia". In questo senso il conflitto tra il figlio e il padre che scandisce il racconto della vita della famiglia si carica di un fondamentale significato teologico: a quel conflitto si accompagnano infatti i primi dubbi del figlio sulla "bontà" di Dio. "Perchè devo essere buono se tu non lo sei", egli si chiede, proprio nel momento in cui la sua contrapposizione al padre e alla sua pedagogia così apparentemente dura e "autoritaria" sconfina nell'odio e nella tentazione di uccidere il genitore. La morte di un ragazzo è un momento fondamentale nel corso della sua scoperta del dolore e della sofferenza: una esperienza che prefigura e rimanda a quella della morte del fratello da cui prende le mosse il film. Mai come questa volta, forse, il cinema era riuscito a fare del passato, del presente e del futuro un unico tempo. Il "passato" abissalmente remoto dell'inizio della vita nell'universo cui veniamo riportati nel momento più drammatico e sconvolgente del film, quello che narra di un enorme lutto che colpisce la famiglia con la la morte di uno dei figli, viene "raccontato" come se si svolgesse nuovamente davanti ai nostri occhi. Evocato dai personaggi del film, dalle loro domande tra loro intrecciate sul senso della loro vita e del loro dolore, quel passato appare tale solo nella sua "eternità". Così la storia del "big bang" diventa paradossalmente un momento dell'elaborazione del lutto da parte della madre e il suo dolore ci appare non meno "abissale" e gigantesco dell'universo che ci si squaderna davanti. E tuttavia ciò nulla toglie alla potente "oggettività" di quelle immagini "cosmiche", sebbene soltanto nel racconto della vita concretamente e dolorosamente vissuta nel "presente" dai personaggi del film esse acquistino senso per noi. Questa "joyciana" coincidenza, in un unico tempo e in un unico spazio, della vita nel suo semplice eppure così misterioso fluire quotidiano da un lato e della indifferente immensità del mondo dall'altro, dell'infinitamente piccolo e dell'infinitamente grande, è in fondo ciò che questo straordinario artista ci restituisce attraverso un vertiginoso, ininterrotto flusso di immagini, nelle quali come oggettivati vediamo riflessi i vissuti e le memorie più profonde dei personaggi. Perfino nella immensità dello spazio, nella sua paurosa, terribile bellezza, di là dai confini della terra, riecheggiano le voci fuori campo dei personaggi, e con esse è la loro interiorità spesso più profonda e abissale a risuonare. Ma dal cielo il cinema di Malick finisce sempre per riportarci sulla terra, ovvero sul mondo così come esso si mostra a noi nel nostro rapporto vissuto e quotidiano con esso. Forse è proprio questo atteggiamento di "apertura" al mondo, ovvero di totale "accettazione" del suo "essere" che incarna la figura della madre. La sua evocazione dell'amore come condizione stessa della felicità del vivere, come sintesi vivente di memoria e speranza, non è in questo senso in contraddizione con l'idea continuamente richiamata dal padre ai figli, della "cattiveria" del mondo, della "crudeltà" dell'esistere. "Voi lotterete sempre dentro di me" dice la voce fuori campo del figlio, idealmente rivolgendosi ad entrambi i genitori. Un conflitto che sebbene interiorizzato dal figlio si risolve tuttavia, nel primato della figura materna e dell'idea di "amore" da essa incarnata. "Amor matris, genitivo soggettivo e oggettivo. Questa è forse l'unica cosa vera della vita", pensava Stephen Dedalus nell'"Ulisse" di Joyce.
Salvatore Tinè
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